A introdurre il volume di C. Eastwood, Fedele a me stesso. Interviste 1971-2011 (a cura di Robert E. Kapsis e Kathie Coblentz. Edizioni minimum fax, 2019), sono i due curatori, che partono, quasi naturalmente, dalle difficoltà giovanili dell’attore-regista alla ricerca di un lavoro, che, all’inizio come attore, non gli riesce certamente facile nella Hollywood di grandi protagonisti del cinema degli anni Cinquanta. È l’inizio di una storia che lo porta però sostanzialmente a passare da due stereotipi consacrati dalla filmografia di quel tempo, lo sfrontato poliziotto-carogna e il freddo pistolero, a nuovi prototipi, destinati a diventare tali proprio grazie a lui, e ai grandi registi che nel frattempo cominciano a dirigerlo.

Per Eastwood, in questa fase, gli incontri decisivi sono comunque quelli con Sergio Leone e Don Siegel: il contatto con l’epopea del West comincia a diventare anche per lui, come per il suo maestro italiano, il veicolo che ripropone il mito del cinema tout-court; e, nello stesso tempo, dalla visione cruda e nera delle pellicole di Siegel una sorta di filosofia hobbesiana conquisterà l’immaginazione e l’ispirazione dell’attore, che, seguendo questo percorso, diventa via via anche regista della maggior parte dei suoi film (le interviste interessano 40 anni della sua carriera: 1971-2011). Eastwood, allora, esordisce come autore con Brivido nella notte (1971), e, nel frattempo, diventa sia il mitico “Ispettore Callaghan”, che il “pistolero senza nome” della trilogia del western all’italiana partita con il famoso Per un pugno di dollari (1964). Il 1992 sarà più tardi il momento de Gli spietati, in seguito a cui Eastwood segna una netta svolta nella sua attività autoriale, in virtù della sintesi di fascinosa prestazione d’attore e stile e tecnica di regia (particolarmente messi in evidenza dalla critica europea tra anni Ottanta e Novanta, mentre i critici americani, nonostante la sua “visibilità sui media sempre più prestigiosi” – Kapsis e Coblentz –, sostenuta da una major come la Warner, sono colpiti negativamente da un’ideologia sociale che considerano fascistoide e troppo ispirata alla violenza).

Gli spietati era il tredicesimo western di Eastwood, che, passando per Leone e Siegel (intervista di Thierry Jousse e Camille Nevers, 1992, pp. 276-291, già apparsa sui “Cahiers du Cinéma”), aveva visto la transizione di generi al tramonto verso temi ontologici come quello dell’angosciata riflessione sul tempo e la storia attraverso la condizione della solitudine, e del cinismo che piegava verso la disperazione (cfr. anche l’intervista del ’93 di Peter Biskind, pp. 292-314, già pubblicata su “Première”). Al film del ’92 seguono, quindi, per il meglio di Eastwood: Un mondo perfetto (1993), che era la storia in cui la demistificazione radicale dell’America vedeva sconfitti e vincitori destinati, insieme, a perdere la fede in qualsiasi valore di giustizia e tolleranza (cfr. l’intervista di Henry Béhar, pp. 315-323, già uscita su “Le Monde”); I ponti di Madison County (1995), che faceva implodere il tema dell’inesistenza della felicità nell’apparente melodramma dell’attimo fuggente e nello scenario delle testimonianze di un amore inatteso; Mezzanotte nel giardino del bene e del male (1997), che era programmatico sin dal titolo della esperienza conoscitiva che Eastwood andava maturando sulla ricerca della verità nel caso di un delitto che tendeva a risolversi in una forma di relatività drammatica di tipo pirandelliano (per questi due ultimi film cfr. «La verità, così come l’arte, è nell’occhio di chi guarda», intervista di Michael Henry Wilson, pp. 331-346, già uscita in “Positif” e nei “Cahiers du Cinéma”). E, infine, Mystic River (2003) il quale centrava, al culmine di questa sequenza, una vera e propria forma di tragedia. Qui il bene e il male non erano infatti astrazioni drammatiche, né singolari opportunità sceniche: la società della sopraffazione e il mondo senza legge attraversavano i destini di famiglie e di anime oltre che di personaggi reali – o figure –, e l’innocenza non era mai esistita se non per via del filtro della perdita (come ha detto Umberto Curi, la «morfogenesi della violenza»), nello stupro e nell’uccisione di minori. Anzi, per la scomparsa, ad esempio, della figlia di Jimmy Markum, il protagonista (uno strepitoso Sean Penn), il dolore estremo e senza riscatto assumeva la forma shakespeariana della condizione umana: il nodo che Eastwood tenderà a sciogliere, con un civile approdo, più avanti, al tema ultimativo della teodicea.
I film di Clint Eastwood vennero sempre intanto crescendo lungo due direttrici costanti: l’una tematica, l’altra formale. La prima riguarda il tema della difesa dei diritti civili, che scaturisce a sua volta dall’epica – già dei classici western e dei polizieschi – dell’uomo solo, dell’eroe onesto (ma senza scrupolo nell’uso delle armi) nell’impari lotta contro i nemici dell’ordine e della giustizia. L’altra costante dei film di Eastwood, che è venuta sempre più delineandosi via via anche attraverso la pratica di generi e di soggetti diversi, è quella della regia lineare e puntigliosa, capace, specie nei film della maturità, di portare il respiro della pellicola a contendersi il senso del reale, seguendo la verità delle cose con l’asciuttezza di un passaggio interpretativo e in virtù della cura di ogni dettaglio (fedele a se stesso sempre, però, per così dire, senza darlo a vedere).

Il punto decisivo raggiunto da questo cinema è coinciso con Million dollar baby (2004), sebbene, per il primo aspetto, quello che riguarda più alla lettera il filone della lotta per la giustizia, il film più interessante, ancorché nell’insieme alquanto freddo, sia apparso Changeling (2008). Con Million dollar baby si raggiunge l’apice perché, come vedremo, si apre una prospettiva più completa nella ricerca della giustizia, quella della teodicea, cioè della rappresentazione, nell’America di oggi, del conflitto tra bene e male, e, con implicazioni ontologiche, della responsabilità che si rinviene da parte di una qualche sorta di oscura volontà divina, appunto, nell’esercizio ultimo della giustizia (Eastwood si dichiara non credente, o meglio dice di essere uno che crederà quando vedrà). Da Million dollar baby parte, a questo riguardo, un filo rosso che fa tutt’uno con il valore estetico delle opere che lo inverano, e che trova altri passaggi fondamentali in Gran Torino (2008) e in Hereafter (2011).
Non è un caso, per cominciare, che il protagonista di Million dollar baby sia un ormai anziano istruttore di boxe in disarmo, un cattolico che va a messa tutte le mattine. E che, soprattutto, rivolge domande al suo giovane parroco – all’apparenza semplicistiche, ma fondamentali – sul come la partita fra bene e male è giocata dal Dio della compassione. La sua vita ha bisogno di qualche risposta, giacché si è avvilita nella disillusione da quando è rimasto solo e una figlia lontana respinge sistematicamente le sue lettere al mittente: per anni. Frankie Dunn – è il nome del personaggio interpretato dallo stesso regista – , avendo deciso dopo molte resistenze di allenare al durissimo sport della boxe femminile Maggie (una straordinaria Hilary Swank, accompagnata, nel ruolo di un vecchio pugile fallito da un altrettanto straordinario Morgan Freeman), giovane testarda, socialmente e umanamente emarginata, ma disposta a ogni sforzo e a ogni sacrificio pur di tirarsi fuori dal suburbio che la soffoca, a un certo punto intravede il successo per lei, ma comincia anche a essere consapevole di averla spinta al di là del limite consentito; e, quando il limite diventa un incidente gravissimo che le provoca una paralisi irreversibile, si sente in colpa per ciò che è avvenuto.

Million-Dollar-Baby_Clint-Eastwood

Come credente, allora, dovrà scegliere, secondo la sua coscienza, per il bene di lei, che non coincide però con le leggi della Chiesa: consentire che la ragazza ponga fine alla sua intollerabile sofferenza, giacché chiede proprio a lui, come suggello del suo sogno fallito di emancipazione, di effettuare il gesto definitivo. La prova cui lo chiama la coscienza è assai grande, e assai più grande è anche la sua fede di cattolico praticante, pur alla ricerca di risposte che mai gli sono parse convincenti. È stato detto che «la sua è una scelta disperata che porta senza esitazioni verso le tenebre»: la sfida è veramente perduta, ora, al di là di una vita di solitudine e di disinganno, l’argine è travolto per i due e per la società che li circonda (l’America del declino definitivo dell’ideale del self made man), nessuna solidarietà è possibile laddove questo si traduca, con l’avvallo coscienziale, in un decreto di morte.
Il nichilismo di Eastwood è la cifra ambigua ma anche estremamente suggestiva della conclusione del film: Frankie, risarcito, rispetto all’ingratitudine (magari meritata) di sua figlia, dall’amore (era tale ormai il senso del rapporto con la sfortunata donna che con lui aveva ritessuto una relazione quasi filiale), ora, negli ultimi fotogrammi del film lo si indovina, ha forse capito l’amara verità che amore e morte, bene e male, nella realtà umana sono indistricabili. Per questo cerca un luogo anonimo e lontano dal cuore freddo della moderna metropoli, nel profondo Middle West, per assaporare magari una torta al limone, aspettando la propria ora con dignità: un pub con l’insegna che allude al suo desueto gaelico, dove il vecchio manager si rifugia alla ricerca forse di un antico senso religioso che solo adesso gli si rivela nella sua sottile autenticità.

In Gran Torino troviamo invecchiato, ma non ancora sconfitto, un Clint Eastwood di nuovo protagonista del suo cinema nei panni di un operaio pensionato delle fabbriche Ford di Detroit, che vive in un ex-quartiere residenziale di colletti blu, ora abitato (e, ai suoi occhi, infestato) da immigrati extracontinentali. È un uomo solo, dai saldi principi patriottici e reazionari, Walt Kowalski, per il quale la morte della moglie ha significato anche il miserevole distacco dei due figli e delle loro famiglie. Un giorno, però, uno sgradevole episodio di tentato furto dell’idolatrata auto d’epoca italiana dal suo garage (la mitica “Gran Torino”) lo porta ad avvicinarsi a un ragazzo e a sua sorella d’origine asiatica e a poco a poco ad assumerne le difese rispetto alle prepotenze di un branco di loro coetanei, a capire quei diversi che sembrano ora essersi improvvisamente installati nella sua vita desolata. Walt è di fede cattolica e per questo pratica il sacramento della confessione, tramite cui comunica al suo parroco, più che le sue angosce, la sua volontà di perseguire senza limiti, magari fino alla vendetta, la difesa dei suoi inermi protetti. Del resto, come combattere il male così volgarmente dilagante, con quali forze può farlo un uomo solo e privo ormai di ogni sostegno? E il male della violenza cieca e ubriaca di sé può combattersi con un’altra violenza? In questa dicotomia dov’è il Dio del bene? Kowalski, al fondo del tunnel, non vede che la morte, la necessità di contrapporsi decisamente ai criminali e di uccidere o di soccombere. Decide perciò di preparare in anticipo perfino il proprio funerale. Va dal barbiere, si fa fare un vestito su misura, va soprattutto a confessare i peccati della vita ordinaria, mantenendo, però, il segreto relativo al peccato veramente grave che pesa sulla sua coscienza ancora dopo tanti anni: un’uccisione compiuta in guerra, quando ha ammazzato, con un colpo sparatogli in faccia, un giovane nemico disarmato che era pronto soltanto ad arrendersi.
La mediazione del sacerdote non serve pertanto a liberarsi da ciò che la coscienza conserva gelosamente nel suo rapporto diretto con Dio: quell’altra sfida col male che Kowalski-Eastwood in un attimo ha perduto, perdendo l’innocenza primigenia del suo tempo. E la morte del protagonista – un magistrale colpo di scena che lo vede recarsi con armi scariche all’appuntamento decisivo con i suoi nemici – sarà una conseguente scelta autosacrificale (è stato detto: cristologica) attraverso cui l’impronta del perdono divino, la sua misericordia si manifesterà con uno scambio di vita con vita.

Per così dire più esplicita – ancorché, probabilmente meno penetrante – si manifesta la luce dei bagliori di questa particolare teodicea, che è la sua concezione del rapporto con Dio e con la sua misteriosa giustizia, in Hereafter. George (un intensissimo Matt Damon) è un giovane sensitivo la cui storia fa da cornice e da punto d’intreccio alle altre storie del film. La prima di queste riguarda una giornalista francese sopravvissuta allo tsunami del 2004, ma che, negli attimi interminabili in cui, stando per annegare nel turbinio delle onde, è restata tra la vita e la morte, o meglio ha vissuto un’esperienza, come si dice, di pre-morte, vedendo gli altri morire o continuare a vivere già morti accanto a figure forse angeliche, alla luce diafana di uno spazio intermedio tra l’esserci e il non esserci più. Marie è segnata definitivamente da questo episodio eccezionale, e converte i suoi interessi professionali, con un reportage sull’aldilà, alla narrazione della possibilità di un’altra vita. La seconda storia è quella di due fratellini gemelli inglesi, precocemente con il peso sulle loro fragili spalle di una madre drogata, e un giorno violentemente separati dalla morte di uno di essi, Jason, in seguito a un improvviso incidente stradale. Il superstite, Marcus, non sembra riuscirsi a liberare dal ricordo dello scomparso, e soprattutto dalla domanda che lo assilla: la domanda di chiunque si chieda del perché, in circostanze così tragiche, perché Dio permette la morte ingiusta quanto banale di un innocente (del resto tra le vittime della catastrofe evocata dal primo episodio non è posta in primo piano anche la sorte fatale di una bambina asiatica, che invano Marie ha tentato di salvare dalle acque omicide?). Come si vede, la teodicea, che illumina senza risposta, dall’epoca del famoso terremoto di Lisbona interrogato invano nel suoi significato religioso dal grande Voltaire, la ricerca del Dio del bene e della plausibilità della sua esistenza, si riaffaccia in questa pellicola di Eastwood.

E il regista, nel racconto in cui si intrecciano le altre storie, segue la vicenda di George, il medium che le sue capacità di superare, con lo sguardo speciale di cui è inspiegabilmente dotato, i confini tra la realtà e la trascendenza sente come una terribile, insostenibile condanna: perché men che mai è tra l’altro intenzionato a sfruttare le sue doti straordinarie per guadagnarci su (poter guadagnare – pensa con orrore – sul rinnovato dolore degli altri, sulle sofferenze di chi vorrebbe continuare a mantenere una qualche relazione con i propri cari che hanno lasciato la vita). George, in un tentativo di trovare nell’amore di una ragazza un antidoto alla sua angoscia, ha l’estrema conferma che il sapere soprannaturale riapre le ferite e le rende ancora più lancinanti (Melania lo convince infatti a leggere, aprendo la porta dell’aldilà, il senso della morte di suo padre, ma essa, così torna a soffrire – fino, per questo, a rinunciare al suo amore – quando è costretta a ricordare, con la riemergente figura di chi non c’è più, le intollerabili molestie di cui costui, in vita, era stato responsabile nei suoi confronti).

clint_eastwood-hereafter

A un certo punto, però, solo la casualità che coinvolge il bambino sopravvissuto, salvandolo dall’attentato terroristico della stazione di Londra (e pacificandolo finalmente con se stesso), gli consente di non perdere l’occasione di condividere con Marie, giunta in Inghilterra per presentare, nell’incredulità dell’opinione pubblica più accreditata, il suo libro sulla post-morte, un destino in cui il soprannaturale può trovare possibilità di sopravvivere attraverso il legame di una reciproca solidarietà che rende più lieve l’eccezionalità di una condizione umana particolare.
D’altro canto, se il vademecum all’ottimismo finale di Hereafter è il realismo sociale di Dickens (l’autore la cui lettura aiuta significativamente ogni sera l’ossessione di George a placarsi), chi o che cosa aveva traghettato Eastwood nella teodicea dei suoi ultimi film? Si può dire – come già annunciato – fosse lo spirito di un autore come Shakespeare, l’atrocità del destino da lui intuito.
Allora, all’ombra del grande bardo, non resta che l’ultimo tempo, ancora oggi attivo, del più che maturo, autentico realismo del regista; e, tra gli ultimi suoi film, i sempre eccellenti che vanno, per citarne i migliori, da J. Edgar (appunto 2011) ad American Sniper (2014), e da Il corriere – The Mule (2018) a Richard Jewell (2019).

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