Festival Berlino

Massimo Causo

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Per un cinema di sincronie. Tra gesti e materia, tra figure e spazi, tra l’emozione del filmare e la struttura della messa in scena. Non sempre è facile, anzi non lo è quasi mai. Poi però ti imbatti in un lavoro come Counting di Jem Cohen (Forum) e ti sembra quasi una cosa naturale, un gioco da ragazzi impilare frammenti di vita filmata, come fosse inspirare ed espirare, automatismo del vivere con la stessa eleganza con cui, per esempio, i gatti attraversano i film di Chris Marker...

Massimo Causo

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altLa fine del tempo, o qualcosa del genere. Dipende da come guardi le cose, se le prendi dal verso della durata, e allora lavori per lo spirito, sulla lunghezza d’onda della verità interiore, o da quello dell’intervallo, e quindi ti tieni in contatto con la statica delle emozioni, con l’attesa incombente dell’esistere. Pablo Larrain, Alexey German Jr., Wim Wenders, alla Berlinale 65, si muovono in questo arco: tre film, i loro, che slargano il rapporto con il tempo, lo rendono persistente nella sua drammaticità interiore, fluido nella staticità del dramma - di volta in volta morale, storico, esistenziale - che elaborano.

Massimo Causo

Massimo Causo

altLiquido. Si tratta di lasciar dissolvere le tensioni del filmare nello scorrere acquatico degli elementi, forse in cerca di una immaterialità del cinema che gli appartiene da sempre (emulsioni, pixel...). Un cinema liquido, dunque, in questo primo scorcio di Berlinale 65, a prescindere dalle siccità desertiche del magnifico Herzog...

Massimo Causo

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Partiamo con un sogno dimenticato. Forgotten dream, naturalmente... L’avventura della grande scoperta disincarnata nel gioco di specchi tra il disposiitivo filmografico e iconico (la grande narrazione cinematografica della Storia) e la disarticolazione della verità nascosta, del segreto mondo, dell’altrove presentificato...



Massimo Causo

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Cinema fluviale, in galleggiamento tra acque, figure, battelli e fantasmi d’amore, come un Atalante alla deriva nel presente della Cina: Crosscurrent (Chang Jiang Tu) è l’opera seconda di Yang Chao, in Concorso alla Berlinale 66, film in sospensione lirica tra tempo e spazio, sospinto sul fiume Yangtze che taglia la Cina dal Tibet sino a Shanghai.

Massimo Causo

Massimo Causo

altIl corpo assente (e permanente) della rivoluzione

La cristologia rivoluzionaria fa tutta riferimento al corpo assente nella risurrezione, al continuo rimandare la verità della liberazione: Lav Diaz ne è ben consapevole e fa di A Lullaby to the Sorrowful Mystery una testimonianza sacrale del tempo tradito dell’attesa rivoluzionaria del popolo tagalog. Come fosse una sacra rappresentazione, facendosi carico con la consueta laica consapevolezza del portato cattolico dei vissuti popolari della sua gente, Lav Diaz si spinge in un fluviale racconto che disloca la storia nel mito e il mito nella verità astratta della natura.

Massimo Causo

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altUna casa, anzi due, contigue e alternative, come è sempre un po’ tutto nel cinema di Kiyoshi Kurosawa. Il suo nuovo film, Creepy (a Berlino 66 in Berlinale Special), resta immancabilmente ancorato all’idea di un mondo in cui la specularità e lo sdoppiamento sono la chiave di accesso alla natura implicita dell’esistere. Lo avevamo lasciato in Kishibe no Tabi (Vers l’autre rive, lo scorso anno a Cannes) sospeso alla transitoria immaterialità della vita reale, in bilico tra la quotidianità di una vedova e l’altrove di un marito morto anni addietro, eppure ancora presente nel suo tempo.

Massimo Causo

Massimo Causo

altIl nocciolo della questione coloniale continua a percorrere il cinema portoghese, una sorta di eco che risuona nelle trame di un filmare fatto di distanze da coprire con un immaginario che prende forma dalle ombre della Storia. Basti pensare al recente John From di João Nicolau, visto al Torino Film Festival, o alle avventurose deviazioni narrative di Miguel Gomes in Tabu. E’ tutto un gioco di elaborazioni in trasparenza, tra testo lontano, contesto presente, allitterazioni immaginifiche che suscitano fantasmi rimossi della coscienza o anche flussi di memoria che appartengono ad altre generazioni e ritornano nel presente come una manciata di coriandoli che non riesci a toglierti di dosso.

Massimo Causo

Massimo Causo

altLa questione con il cinema di Gianfranco Rosi sta sempre nel livello di astrazione che cerca. Il discorso vale anche per Fuocoammare (Berlinale 66, Concorso), che si colloca a Lampedusa, in quello che è stato l’avamposto dell’emergenza umanitaria degli immigrati ora diffusa su altri fronti di avvistamento e ammassamento dei profughi. Il suo punto di contatto con la realtà si sposta sempre un gradino più in alto del suolo, assume una prospettiva simbolica che è, allo stesso, tempo, la ragione del suo fascino e il motivo del sospetto che può generare.

Massimo Causo

Massimo Causo

altIl contrasto, nel cinema di Jeff Nichols, è sempre tra la fuga e il ritorno: credi sempre che le sue siano storie in cui tutto ruota attorno alla necessità di fuggire, fisicamente o anche solo psicologicamente, moralmente, ma poi ti accorgi che la partita si gioca solo e soltanto sull’esigenza di tornare al punto di origine, di concentrarsi in un centro in cui tutto può trovare una sua collocazione. E’ così anche in Midnight Special (Berlinale 66, Consorso), che in tal senso spinge ancora più oltre questo criterio logico.

Massimo Causo


altLa scena – a volte, spesso... – è la crisi. E la guardi come un'esposizione placida e oscena del dissidio interiore, o anche esteriore, di luoghi e figure che mostrano e nascondono la loro sofferenza. I tempi sono quelli che sono, del resto, e il cinema da sempre se ne fa carico. La scena è la crisi e il filmare la trasforma in una drammaturgia che interferisce sul rapporto intimo tra luoghi e i corpi, eppure tra i drammi e la forma che assumono: transfert, lapsus, allucinazioni, semplici distrazioni negli spazi della memoria o del presente. La Berlinale 67 volge al termine (scrivo a poche ore dall’Orso d’Oro, hoping in Aki...) e si porta dentro questa scena, esposta in alcuni dei film più belli di un Concorso forse troppo discontinuo.

Massimo Causo


altPartenze dopo l’approdo. Derive fluviali visionarie nell’estrema libertà dell'ignoto mondo amazzonico, dopo l’arrivo portuale in una Ellis Island che diventava costrizione, prigione. The Lost City of Z dopo The Immigrant: James Gray affronta il suo sogno esotico, l’accensione di un film d’avventura (ancora un film “in costume”) seguendo la linea di una fuga prospettica verso l’ignoto, che incarna il solito dissidio grayano tra la realtà che si abita e il sogno che si sente a portata di mano. Il luogo dell’appartenenza (la famiglia, la città, il destino) è lo spazio di una coscienza che sta stretta e la materia del desiderare è sempre lì a portata di mano, intangibile nella sua vicinanza.

Massimo Causo


Berlinale 67, figure in campo in tre film del Concorso: Final Portrait di Stanley Tucci, The Dinner di Oren Moverman e The Party di Sally Potter. C’è prima di tutto lo spazio, che accoglie le mutazioni in corso, lasciando implodere la materia di cui sono fatti i personaggi nel loro ritrovarsi faccia a faccia con la scena, stretti in un’azione che si conclude in se stessa e si consegna al lavorio dei caratteri, all’evoluzione relazionale della drammaturgia. Il setting è teso a segmentare la teatralità dell’assunto in un impianto filmico che implode nella concretezza del set, non tanto il luogo dell’azione quanto l’azione nel luogo: un’implosione di psicologie che dissimulano la drammaturgia nella fatale convivenza scenica e nella implicita connivenza psicologica. L’esclusione del fuori concede alla concatenazione di eventi lo spazio di un faccia a faccia che gioca con la frontalità tra i personaggi che duellano, ma anche tra scena e spettatore. Il film resta in mezzo, quasi un happening, spesso prigioniero di se stesso, di una drammaturgia da sceneggiatura, di una potenza da (over) acting che si affida alla materia grezza e sublime della prestazione attoriale.

Massimo Causo


altBerlinale 67, primi giorni. Tracce al femminile da due registe europee dell’Est, Ildikó Enyedi e Agnieszka Holland, ungherese l’una polacca l’altra, entrambe in fuori quota generazionale, nel senso che non sono certo ultima leva (classe ’55 l’una, ’48 l’altra) come sembra necessario oggi per essere nell’attenzione critica, eppure entrambe capaci di un cinema che ha ancora dentro i segni del rinnovamento di cui, magari marginalmente, sono state portatrici. In Concorso, con On body and Soul la Enyedi e con Spoor la Holland, entrambe hanno segnato questo esordio della Berlinale con due film in cui una sorta di visione magica della realtà, le connessioni tra vita reale e vita spirituale, le transizioni tra relazioni umane e relazioni sociali si coniugano nella traccia di un cinema potentemente visivo, sensibilmente filmico per quanto distante dall’algida materializzazione per così dire realistica della contemporaneità, che preferisce osservare invece di maneggiare, elaborare. Entrambi sono film che hanno a che fare col mistero della natura, con la molteplicità della vita, e nel fare questo elaborano una visione dell’esistente che transita dall’uomo alla società e attraversa la trasparenza visiva del filmare.

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