UZAK 26 | primavera 2017

Luigi Abiusi

stewart

Mentre si aspetta Cannes, e Dumont, Garrel, Lanthimos, Mundroczo (è ancora viva l'impressione che mi fece anni fa Delta, uno dei primi testi di Uzak), Ferrara, Denis, i primi due episodi di Twin Peaks ecc. - a conferma dell'ineluttabilità e utilità (estrema) di certi festival, e al di là di ogni tappeto rosso, aperitivo, pompa; dovendo, per parte mia, difendere certi film, certe selezioni in balia di burocrati, parvenus ben'azzimati; proprio certe modalità di guardare (che è poi un guardarsi, nel caos, penetrarlo, squadernarlo facendone grondare le proprie ombre), di leggere, ascoltare come da bambini (siamo cresciuti poi convinti che un film di Bela Tarr, un libro di Svevo, un disco dei Cluster, siano più importanti di qualsiasi populismo, biglietto staccato, affluenza di pubblico; e per questo ci si ritrova adesso in una zona di mezzo, a tempo, in perenne scadenza, senza futuro, pensionamento: il fallimento prossimo venturo; ma c'è come una poesia anche nella sconfitta, se fosse, perchè «traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute.

Giovanni Festa


altL’establishing shot è lo skyline di Shanghai (ma si può davvero mai darsi, in Lynch, un “establishing” che non rimandi al più volubile e mutante dei contesti, scheggia di mondo impazzita e completamente instabile, vista attraverso quella tutta sua vocazione all’ebrietà insicura degli spazi esterni, imbibiti secondo lo spettro delle tonalità lisergiche degli acrilici): lo sfondo è una notte azzurrata perché illuminata artificialmente, notte da megalopoli asiatica eternamente ricoperta dal baluginio ipnotico dei neon e delle mille luci notturne (come anche in Hou Hsiao-hsien).

Valentina Dell’Aquila


The fortunes creates at Bordeaux, at Nantes, by the slave trade,
gave to the bourgeoisie that pride which needed liberty
and contributed to human emancipation.
J. J.



Luigi Abiusi


altGuardando Paterson bisogna distogliere lo sguardo dal Paterson soggetto, il poeta autista di bus, e rivolgersi all’oggetto, al territorio, Paterson nel New Jersey, ma senza una puntuale corrispondenza geopolitica, perché il mondo in cui si muove quest’io depotenziato è un interregno, una zona minima di galleggiamento (e dissipazione) dei personaggi e proprio dei caratteri, delle immagini variamente, anzi reiteratamente incarnate.

Alessandro Cappabianca


altJarmusch conferma che una città di poeti (William Carlos Williams, Allen Ginsberg), di anarchici (Gaetano Bresci) e anche di comici anarchici (Lou Costello), non può essere che una città-fantasma, percorsa da autobus-fantasma, occupati da passeggeri-fantasma. Al volante, un Driver-fantasma, uno che porta lo stesso nome della città (Paterson) e ha il dono di vedere ovunque fantasmi (o fantasmi-gemelli). Jarmusch a sua volta, fantasma dai bianchi capelli vaporosi, ha il dono di rendere fantasmi i suoi attori, e al contempo di ipnotizzare gli spettatori, inducendoli a credere nell’incredibile, ossia nell’esistenza corporea dei poeti.

Massimo Causo


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L’opposta flânerie. Paterson è l’astrazione inversa dell’attraversamento dello spazio urbano baudelairiano, il disporsi – consapevole, presente – della figura al centro esatto della scena in cui confluiscono l’Idea e la Storia, la materia e lo spirito, il corpo e l’anima, la presenza e l’assenza, la poesia e la prosa...

Stefania Rimini

L’immaginazione è forse sul punto di riconquistare i propri diritti.
(A. Breton, Manifesti del Surrealismo)


Eleonora Danco è un’artista capace di conquistare e attraversare diversi campi di espressione (teatro, poesia, cinema), affidando a ciascuno di essi una postura anarchicamente libera, distante da incrostazioni ideologiche ma sensibile alle intermittenze dell’esistenza. Se la sua poesia nasce «in quel momento violento che la avvicina alle cose» il cinema diviene «un altro modo per usare il corpo»1, per mostrarne lo struggimento, la tensione. A riempire lo iato fra dizione poetica e immaginazione visiva ci pensa il teatro, l’abitudine a re-citare il tempo, la memoria, lo schianto; per Danco stare in scena significa afferrare la vita, rintracciare la verità emotiva dei suoi personaggi.

Leonardo Gregorio


alt«Sotto molti punti di vista», scrive Gian Piero Brunetta, «Ferreri è il regista italiano contemporaneo […] la cui opera è iscrivibile con più continuità nella fantascienza […]. Ed è anche il solo a ritenere che la nostra vita faccia ormai parte del futuro» (Brunetta 2006, p. 236). Uno dei suoi film, del resto, si chiama Il futuro è donna, mentre Marco Ferreri: il regista che venne dal futuro è il titolo di un documentario del 2007 di Mario Canale che ne costruisce un ritratto attraverso testimonianze di chi lo ha conosciuto, attori e collaboratori; attraverso immagini dal set e dintorni che lo intercettano e raccontano, lo ascoltano.

Alessandro Cappabianca

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Verso la fine, Marco Ferreri chiedeva ai suoi direttori della fotografia una luce fredda, con pochi contrasti o chiaroscuri, in cui fosse più facile situare oggetti e corpi senza spessore, tra brandelli narrativi, ellissi misteriose, scene sfilacciate, protratte al limite dell’estenuazione.


Mariangela Sansone


altQuei tuoi capelli d’arance nel vuoto del mondo, nel vuoto dei vetri grevi di silenzio e d’ombra ove a mani nude cerco ogni tuo riflesso,
Chimerica è la forma del tuo cuore e al mio desiderio perduto il tuo amore somiglia.
O sospiri di ambra, sogni, sguardi

(Paul Éluard, Capitale de la douleur, 1926)



Alessia Astorri

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Nell’inserire Dillinger è morto nel suo dizionario dei costumi per il cinema, Enrico Giacovelli si preoccupava che il gesto risultasse provocatorio e si soffermava a spiegare le ragioni della scelta: «(...) la camicia bianca e i pantaloni neri dell’ingegnere-designer Michel Piccoli azzerano la funzione classica degli abiti, che diventano una sorta di maschera neutra, di schermo senza colore su cui va a depositarsi come una patina l’alienazione dell’uomo moderno» (Giacovelli 2006, p. 125).

Andrea Bruni


altQuest’uomo lavorava a un sistema di storia naturale nel quale aveva classificato gli animali a seconda della forma degli escrementi. Distingueva tre categorie: i cilindrici, gli sferici e quelli a forma di torta.
(Georg Christoph Lichtenberg)






Michele Sardone

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Il mondo è una scena, la vita è rappresentazione: entri, ti guardi intorno, te ne vai.
(Aforisma attribuito a Democrito)


Sulla scena del mondo si rappresenta la farsa della mondializzazione. Sul serio, c’è ancora qualcuno che crede alla favoletta di un mondo più equo o di un’umanità più felice grazie a pratiche aberranti come la delocalizzazione (eufemismo dietro cui si nasconde il vecchio e mai morto colonialismo) o a nuove forme di autosfruttamento che seguono i dettami della retorica del “sii manager di stesso” o della cosiddetta sharing economy? Toni Erdmann prende molto sul serio questa domanda, la radicalizza fino al punto che non può fare a meno di mettere in questione la rappresentazione stessa.

Raffaele Cavalluzzi


altLa raccolta di recensioni radiofoniche settimanali sul cinema di Elsa Morante, risalente al 1950-1951 e, in appendice, di altri appunti e frammenti della medesima scrittrice (con una introduzione di Goffredo Fofi amichevole e nel contempo disinteressatamente partecipe), fa perno sull’idea, come esplicita il titolo del libro, che l’arte cinematografica è La vita nel suo movimento (Einaudi 2017), nel cui ambito, dato per scontato il carattere dinamico-drammaturgico della figuratività filmica, “vita” equivale a “realtà”. Però, se il termine “realtà” è, com’è evidente, alla radice anche dell’espressione “neorealismo”, cioè dell’esperienza soprattutto cinematografica che aveva fatto strepitosamente epoca, non senza controversie, nel recentissimo dopoguerra, non di altrettanto, alla fine, universale accezione appariva il suo significato. Quando le ragioni genetiche più dirette della performance neorealistica (gli orrori della guerra e la partecipazione popolare alla Resistenza antifascista) si andavano oggettivamente consumando, la sostanza di quel fenomeno aveva configurato ormai la “realtà” in forme, al meglio, sempre più intensamente spirituali (specie in alcuni film di Rossellini) e perfino utopiche (Miracolo a Milano di De Sica), mentre, d’altro lato, nel cinema corrente, ricominciava a dilagare – è la convinzione della Morante – l’irrealtà dell’evasione.

Nicola Curzio


altCi sono figure che ritornano con una certa frequenza nella storia del cinema. C’è il Vampiro, ad esempio, che puntualmente riappare sullo schermo per placare la sua irrefrenabile sete di sangue; c’è il Super-Eroe, chiamato a difendere l’umanità contro nemici d’ogni tipo; c’è il Libertino, eterno seduttore; c’è la Bestia, c’è l’Alieno, c’è il Cyborg, per limitarci ai profili più noti. Si tratta di figure archetipe, spesso provenienti dal mondo della letteratura, del teatro o dei fumetti, che il cinema ha saputo far sue, plasmandole e sviluppandole secondo le proprie esigenze. Ma cosa si nasconde dietro questo loro costante, perenne ritorno?







Matteo Marelli


altIl genere umano non può sopportare troppa realtà
(T. S. Eliot, Burnt Norton in Quattro quartetti)


Dice Capote che «la realtà riflessa è l’essenza della realtà, la verità vera». La realtà si offre sempre attraverso la mediazione di un’immagine. È un dato, da Platone in poi. Senza le immagini e i riflessi, dunque, non avremmo la realtà: magmatica, dilatata, questa esplode in una molteplicità di schegge; è l’immagine che, sottraendola dal caos originario, le dà una forma attraverso catene figurali via via più complesse ed elaborate. È sorprendente il potere posseduto dagli spettri, direbbe Derrida, di offrire la «visibilità dell’invisibile»; sono questi, per tornare a Capote, che ci permettono di cogliere, «in prismatica miniatura, l’intima atmosfera di un panorama troppo vasto per poter essere altrimenti abbracciato» (Capote in Mazzarella 2011, p. 16).

Vanna Carlucci

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Musica: Tu straniera. Tu spazio del mio
cuore
cresciuto oltre di noi. Tu a noi il più intimo
che, superandoci di là da noi trabocca –
Sacro addio:
poiché il nostro Intimo ci sta intorno come
la più frequentata lontananza, come altra
faccia dell’aria:
pura,
immensa,
non più abitabile.
(Alla Musica, Rainer Maria Rilke)1

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