Speciale Roma 2013

Giampiero Raganelli

Giampiero Raganelli

saatvin-sair-3Un uomo cammina. È un pittore che vaga nella foresta e vi si addentra attratto da una misteriosa e seducente melodia. Si riposa sotto un albero e vede se stesso camminare e dipingere. Un frinire di cicale quasi ininterrotto.



Giampiero Raganelli

Giampiero Raganelli

der unfertigeKlaus è un commercialista sessantenne. Così si qualifica al pubblico, nella prima scena di questo documentario, apparendo subito nudo, dal corpo inevitabilmente sfatto per l'età, incatenato, con numerosi anelli metallici attorno al pene. Klaus si racconta durante il film e, con grande spontaneità, parla della passione su cui tutta la sua vita è incentrata, quella del ruolo di schiavo in incontri sessuali sadomaso gay. E il regista lo segue, nella parte finale, in un campo di schiavi, un resort turistico dove gli ospiti vengono sistematicamente frustati.

Giampiero Raganelli


blue-planet-brothersUna panchina tra il verde urbano, in una Tokyo congestionata, diventa il ritrovo abituale di tre bizzarri personaggi. Un samurai proveniente di epoca Edo con una valigetta con lo stemma della sua casata feudale. Un alieno che arriva dal pianeta Cygnus. Una fata o folletto. I primi due si lamentano per i rigorosi divieti antifumo in vigore rispettivamente nel castello in cui è al servizio il primo e nell'astronave del secondo.

Leonardo Gregorio


Tir Festival di RomaÈ un film da difendere Tir, altro titolo in concorso, tanto più quando c’è chi scrive che sarebbe “l’esempio perfetto dello stato comatoso in cui versa il cinema italiano”. E invece giunge il piacere dell’imprevisto.




Leonardo Gregorio


another meÈ un territorio, quello del cinema-congegno, fra i più straordinari e insidiosi. C’è chi come Fincher vi si muove all’interno anche con potente, disperato parossismo, chi come Soderbergh ne è attualmente il più importante e lucido interprete e smontatore (cos’è Magic Mike fra i suoi film più recenti?) o, ancora, chi come Nolan ha forse frainteso.

Leonardo Gregorio

Leonardo Gregorio

VolantinCortao11Nel cileno Volantin cortao ci sono dei momenti – sono momenti fugaci, attimi - in cui il volto di Paulina sembra farsi, o poter diventare, quasi pelle dello schermo, ruvida carezza, oggetto sfuggente nel disegno di Diego Ayala e Anibal Jofré. In un film, cioè, che fruga in modo irregolare fra i Dardenne, più che assorbirli, e al contempo tenta di inseguire nella sua fragilità, nella sua insicurezza, altre strade, altre immagini, altri corpi.

Luigi Abiusi


corpi estraneiL’inizio di Out of the Furnace di Scott Cooper (tra i produttori anche Ridley Scott) è una splendida pagina di cinema: scena violenta in un drive-in (con wurlstel infilato in gola a una donna, che fa il paio col pollo di Friedkin in Killer Joe) mentre sullo schermo scorre un film ad alta velocità, a cui contribuisce la dolcezza dell’arpeggio di Release di quei Pearl Jam che con Ten (1991) avevano dato inizio al grunge (poi non saranno mai più gli stessi) e il cui spirito qui è presente solo nelle camicie a quadri del protagonista; che poi, secondo me, per aprire una parentesi, raggiungerà il suo vertice (il grunge) con Dirt degli Alice in Chains (concentrato a mostrarne il lato oscuro, tragico, di sicuro più dissonante: e qui ci sarebbero cose da dire almeno sui Soundgarden - eh sì i Nirvana, certo -; ma poi mi pare che il cinema abbia usato poco la vasta temperie di questo genere, se non per puntellare le atmosfere del Corvo o di Giovani carini e disoccupati o Singles, ecc., tutta una congerie di problematiche e sentimentalità che non erano posticce e gratuite alla metà degli anni Novanta), quando manco diciottenni si suonavano i CCCP rinchiudendosi nei monolocali mucidi, senza bagni, senza finestre, senza termosifoni, e si pisciava nelle bottiglie di tè, che poi arrivava Vito all’improvviso, mentre gli altri frustavano le teste e facevano ballare le chiome, e senza chiedere nulla s’attaccava alla bottiglia assetato per poi sputare e vomitare.

Nicola Curzio


MaeMarAlla ricerca di un mito reale e perduto sulla spiaggia di Vila Chã, cerchiamo le donne di mare chiamate “pescadeiras”, in uno dei pochi luoghi al mondo con donne timoniere. Ma dove sono? E dove sono le 120 barche da pesca artigianali? Rimangono 8 barche e una sola pescatrice. In una terra di coraggiosa gente di mare, filmiamo la passione della pesca, la passione del mare. [Dal catalogo del Festival Internazionale del Film di Roma]

Luigi Abiusi


las brujasÈ arrivato l’autunno nella sua faccia più ieratica e rigida, di quelli che si specchiano sulla lamina delle pozzanghere, per godere del proprio giallo celestiale mentre camminano per i viali affondando nei baveri; sparso sull’erba dei parchi e sulle strade di ghiaia dove razzolano i piccioni, si azzuffano per le croste, si beccano, si sferzano con le nere unghie e spesso sanguinano e si trascinano afflitti sul ciglio, divenendo, pestati sul terreno, pura opacità: folate di vento freddo sulla nuca (che ustionano la testa fino ai timpani) mentre si fa la fila anche solo per un kebab (disgustoso), ammasso di frattaglie di non so cosa, carne di cane in decomposizione sul ciglio della strada, con ketchup e merda gialla.

Nicola Curzio


a vida invisivelDifficile non perdersi in quest’opera maestra che segna il ritorno alla regia di un grande cineasta qual è Vítor Gonçalves. Memoria, o forse sogno, di un tempo perduto, riattivato dalle immagini di un film in 8mm trovato in un appartamento abbandonato; immagini che nascondono uno sguardo, che sussurrano qualcosa, che conservano un enigma, nella grana che le compone.

Luigi Abiusi

herAbbandonati alla domenica, dalla domenica, mattina romana, lastrico grigio, vischioso, cielo cinereo e sibilo, un chiosco floreale canta Moonlight Shadows come quando nell’83 camminavo per le stradine di un rione che non conoscevo, oltre il ponte (esotico per me come una giungla, intrico di fusti, cespi, ragni svelti), per vedere lei anche solo da lontano (godere del soffio al cuore che mi veniva quando appariva,  bianca e con gli occhi romantici, mandorlati; del senso di appartenenza dentro le invisibili corrispondenze che mi dicevano che ero vivo), cortili che s’aprivano all’improvviso al silenzio dei muschi, dei tufi corrosi che erano una porta, del pallone che sbatteva contro il muro, calciato forte (come atto virile) dai monelli già catarrosi (da invidiare per quello spurgo giallastro attagliato all’asfalto con rumore sordo, di cadavere), che pensavo avessero coltelli in tasca e parolacce da sguainare, pronti a derubare, anche dell’amore (soprattutto gli sconosciuti, i bambini ricci venuti da prima del confine, che i ricci erano discrimine sufficiente per ghignare e azzuffare, rubando palloni, quelli di cuoio avuti dallo zio di Milano, una chimera, di quelli che vedevi in televisione carezzati da Bruno Conti, mentre era già tanto se si giocava con il Tango, che se ce l’avevi ed eri pure grasso e ammutito,  ti chiamavano al citofono gridando e sputando sentenze sul pisciacchio di tua madre, squascianato, e ridevano e si tiravano i capelli, perché serviva il pallone, quello pesante, per una qualche sanguinosa disfida in un cortile, quando non erano alle prese, i monelli, con roghi di rane o con la fame che li faceva appostare fuori da una drogheria, prima del vecchio ponte, dove in vetrina campeggiavano le merendine al cioccolato, splendide imitazioni delle Fiesta) e una luce che non parlava che di lontananza, di desiderio e di assenza, quella che Hugo nella Vita invisibile di Vitor Goncalves si ferma ad osservare negli anditi e nelle stanze scricchiolanti di cui è pieno questo film splendido, anzi di cui è fatto, fantasmatico, svuotato, muto.

Nicola Curzio

Nicola Curzio

mantoManto acuífero, secondo lungometraggio di Michael Rowe (Caméra d’or a Cannes nel 2010 con Año Bisiesto), si apre con inquadratura che per altezza richiama alla mente Ozu: Caro, una bambina di otto anni, parla con un insetto, mentre alle sue spalle si muovono alcune mezze-figure; “mezze” perché eccedono i limiti del quadro, intervenendo nello spazio solo parzialmente, non essendo mai totalmente accettate all’interno di esso; “mezze” perché non diverranno mai veri personaggi, ma resteranno per tutta la durata della pellicola messicana solo tratti grossolani privi di concreto spessore.

Luigi Abiusi


diarioroma1Che poi alle cinco de la tarde è già tardi, è già sera, e «la piedra es una frente donde los sueños gimen/ sin tener agua curva ni cipreses helados./ La piedra es una espalda para llevar al tiempo / con árboles de lágrimas y cintas y planetas» (la pietra è una fronte dove i sogni gemono/ senz’aver acqua curva né cipressi ghiacciati./ La pietra è una spalla per portare il tempo/ Con alberi di lagrime e nastri e pianeti), ed è accaduto che a mano a mano… che si facesse tardi… (ma la sala stampa è un troiaio di telefonate, di donnine isteriche e occhialute che biascicano vontrier, di nerd urlanti; e allora inforco le cuffie e metto Stars are our home, traiettoria infantile tra i pianeti, ma se mi viene il mal di testa cazzo, devo starmi buono con l’oki e poi c’è la promessa di bersi una cosa, ma la sublimità, l’accorata [I don’t mean to] Wonder m’aiuta a ricordare); un presentimento, poi la constatazione, no, il timore di perdere ancora (non so cosa)…  è accaduto che il paesaggio campano curvasse vertiginosamente fino a Caserta dove a fianco alla ferrovia un arbusto si scrollava, pieno zeppo di una zazzera di foglie. Che poi la distanza tra due punti vivi si risolve in quel serraglio vegetale, o anche solo sulla superficie di una foglia morta, di un occhio di donna da rifuggire (col suo bagaglio di via vai nei tram, la sera), della cappa biancastra de la tarde o di una scarpa con tacco sonante, una patata, un bicchierino di tè. I got your love.

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