Speciale Venezia 2013

La redazione

stray-dogs

Vengono dai ruderi abbandonati. Girano come pazzi, come cani senza padrone. Guardano sul mondo, come i primi atti del Dopostoria, dall’orlo estremo di qualche età sepolta.

 

 

 

 

La redazione

jalousie

La Jalousie è una carezza dataci da Philippe per mezzo delle lunghe mani di Louis, cesellate, intonse, preservate alle volgarità della fatica. Fuori dalla Storia, i personaggi si appartengono non essendo di nessun tempo. Ancora una volta deux Amants Réguliers, che ripercorrono puntualmente tutte le tappe del disinnamoramento in una vera e propria liturgia dei corpi, una cerimonia che li erge a centro e punto di partenza di ogni processo figurativo.

Luigi Abiusi


tsai1. Verso la fine. Me la prendo comoda, e me la prendo con me stesso, che sono rimasto steso stamattina, e offeso (anche solo dalla luce dalla tenda blu, nonostante Nicola ieri l’abbia chiusa con premura, prevedendo l’invasione di quello stesso stridulo grido di sempre che è la mattina), steso a penetrare il mistero del soffitto bianco, su cui appaiono fantasmi ferrigni, esoscheletri su cui si innestano pulsioni e proiezioni, che non si sa più cos’è reale cosa no, che si vorrebbe vivere sempre in questa dimensione falsa (il cinema, la poesia) liberata dalla verità, e invece si deve tornare, per ritrovarsi in una casa vuota, per strada mentre la polvere e stracci di foglie fanno il loro solito ballo autunnale, le ragazze parlano al telefono, nei negozi imperano le cineserie, e la fontana semplicemente scroscia.

Vincenzo Martino


Moebius 2E sono ancora silenzi, in quel coacervo di emozioni che il festival comporta; silenzi assordanti; e d'altronde, quando a (dis)perdersi è il significato (concettoso, narratologico), a che servono le parole? A che servono i discorsi quando  l’immagine impera, comunica?


Michele Sardone


feng-aiA Wang Bing riesce quello che i matematici hanno dimostrato essere impossibile, ovvero far quadrare un cerchio. La circolarità temporale della ripetizione, il loop della coazione alla quotidianità di giorni sempre uguali cui sono costretti i reclusi di un manicomio dello Yunnan (stessa regione cinese del suo precedente Three sisters) trova la sua perfetta spazializzazione, coincidente nel camminamento quadrato che viene percorso in continuazione, notte e giorno, dalle figure evanescenti dei condannati all’inferno.

Matteo Marelli


tom at the farm poster-620x350«Each man kills the thing he loves». Ogni uomo uccide la cosa che ama.
Così cantava Lysiane in Querelle de Brest. Così potrebbe cantare Tom, deciso a salutare, un’ultima volta, il proprio compagno, pur sapendo di doversi calare in un ruolo che lo costringerà a mascherare la reale natura dei suoi affetti.
Perché non esiste democrazia nei sentimenti, ma solo un'applicazione più o meno drammatica del sadomasochismo.

Gemma Adesso


Moebius 1Il taglio, voluto e subito, è il soggetto principale dell’ultimo film di Kim Ki Duk che, si vocifera, potrebbe uscire amputato nelle sale (sicuramente in Corea molte parti verranno censurate). Un’operazione non meno dolorosa della visione integrale e per molti insostenibile di una storia di perverse santificazioni.

Luigi Abiusi


Moebius 4Tsai Ming Liang lo vedrò tra poco in Sala Grande, ma ho già sentito di piani sequenza e randagi, e silenzi: è il film che più aspetto (almeno da maggio), quello da cui potrebbero arrivare le soluzioni (plastiche, coreografie, corrispondenze) più nuove ed emozionanti, ancora ricordando il materasso galleggiante alla fine di I don’t want to sleep alone,  che reinventava l’amore, e l’acqua, gli stomaci macerati dei palazzi.

Nicola Curzio


NightMovesIl cinema di Kelly Reichardt riparte da una diga, un muro di cemento armato che separa le certezze del sogno americano dalla reale presa di coscienza dello stato delle cose, secondo l’idea dei giovani protagonisti del film.

 

 

Michele Sardone


Medeas 8I primi istanti del film di Pallaoro sembrano rubati al cinema degli spazi aperti contemplati da Malick, Cimino, Rafelson: simile atmosfera diafana, luce incantata, con una famiglia in riva a uno specchio d’acqua; e si potrebbe essere nell’Ottocento, se non fosse per l’apparizione di una macchinetta fotografica a molla: click, ed ecco il primo sussulto temporale.

Vincenzo Martino


Miss-ViolenceTorte, candeline; sorrisi, come quello che Angeliki ha ancora sul viso avvolto dal sangue, denso e purpureo, dopo essersi lasciata cadere nel vuoto: gesto estremo di fuga, evasione silente. E quindi, mentre scorrono i titoli di testa, silenzio.



Gemma Adesso - Lorenzo Esposito


andereNon è solamente l’Heimat - luogo fisico connotato senza incertezza -  ma soprattutto l’aggettivo indefinito “altra” ad aggiungere e segnare uno scarto concettuale nel tema del ritorno ribaltando la questione e invertendo l’ordine della ricerca.
Il movimento avviene da fermi ed è un viaggio che porta lontano. Colui che più di tutti sogna di partire, colui che informa il territorio natio di parola e utopia (quelle degli indiani, che l’immaginazione situa nella giungla amazzonica) non intraprenderà mai il viaggio, ma sarà l’unico a restare aggrappato alla visione, la cui cronaca è ciò che definisce l’immagine in gioco.

Gianfranco Costantiello

ruin

Dopo una settimana di festival, i film cominciano a definirsi come un unico grande film, con le storie e le immagini che scivolano l’una dentro l’altra, secondo una muta corrispondenza che sembra passare attraverso l’acqua e, in particolare, attraverso un fiume. Fiume che, in Ruin, Memphis e La belle vie, sembra assumere una valenza metafisica. A comporre altre magnifiche visioni ci sono il bianco e nero di Die andere Heimat e il fiammeggiare di Medeas.

Luigi Abiusi


Medeas 3Il vento si è alzato stamattina e ora spazza i capelli, le gonne a pieghe, le ramure lungo i viali e le ferrovie, e gli aerei di carta. “Il vento si è alzato. Bisogna tentare di vivere”: su un treno in corsa, inseguendo un cappello sbalzato da una folata, Jiro e Nahoko si scambiano (con voce tenue dissolta nel vento) i versi di Valery, che dicono la necessità di assecondare quell’accensione di tempo e di spazio che è il nascere e il crescere, il creare (animare), aprendosi al dolore, al tempo, alla morte, all’esorcizzazione della morte dentro la spianata cerulea dell’immaginazione. È il capolavoro (in concorso) di Miyazaki (The Wind Rises), rastremato, asciugato da quelle strabilianti invenzioni anamorfiche che erano già nel Castello nel cielo, pieno di immagini di una storia ancora più vera se è il sogno a superarne gli abomini (gli aerei da guerra), e la poesia, “Le vent se lève! . . . il faut tenter de vivre!” vero centro pulsante e volatile di tutto il cinema di Miyazaki.

Luca Romano


avranasTutto si apre con una caduta, il film stesso è la caduta. Lei, l’undicenne sorridente, cade. Si sporge e va al di là della sua possibilità di corpo, subisce la gravità e affonda. Un po’ come andare al di là delle proprie possibilità, guardare fuori e credere di poter far qualcosa di simile al volare. Scavalca e subisce il peso del suo stesso corpo giovane e destinato alla morte.

Giovanni Festa

friedkinIl salario della paura è il film dell’ultra-amplificazione sensoriale, dove lo sguardo si trascina fuori da se stesso diventando altro, scoprendosi  orecchio che ascolta: ma di orecchio inverosimile si tratta, ingrandito fino a negare se stesso e divenire una specie di sonda, capace cioè di fare ciò che il microscopio fa con lo sguardo: estrarre una singolarità da un evento complesso ingrandendola fino alla grana setosa e nascosta.

Michele Sardone

Michele Sardone

miyazakiI sogni fanno male: non tanto al sognatore che persegue tenacemente il sogno, quanto ai suoi affetti, che si vedono logorare i legami e che, a loro volta, non possono che bilanciare tanta incuria nei loro confronti se non con superiore attaccamento, fino a distruggere se stessi. Le forme carnali e imperfette dei corpi infatti non possono sostenere l’eterea natura dei sogni se non diventando a loro volta evanescenti come fantasmi, ricordi o rimpianti, nebulosi come i respiri di una malata nel gelo di una montagna.

Matteo Marelli

Matteo Marelli

die-andere-heimat-04-Die aSi presenta Die Andere Heimat di Edgar Reitz. «Ne sono grandemente impressionato e turbato, poiché, sebbene nella mia visione tutto ‘corrisponda’ esattamente alle riproduzioni del quadro da me conosciute, essa ‘mi appare’ nondimeno assolutamente modificata e carica di una tale intenzionalità latente che […] diventa ‘d'improvviso’ per me l'opera […] più densa, più ricca di pensieri inconsci» di questa 70° Mostra del Cinema.

Michele Sardone

Michele Sardone

redemption--3Miguel Gomes  recupera immagini di repertorio delle epoche più svariate (dal cinegiornale al filmino familiare fino a una sequenza di Miracolo a Milano) e le fa entrare in collisione con i ricordi personali di quattro personaggi di altrettanti paesi europei: una lettera di un bambino portoghese all’epoca della caduta dell’impero coloniale, il primo amore di un vecchio milanese (bambina evocata come fosse una “Rosebud”), la confessione di un francese della propria inettitudine ad essere padre, lo sforzo di una sposa tedesca di togliersi dalla testa il motivo del Parsifal di Wagner.

Lorenzo Esposito

Lorenzo Esposito

CanyonsPaul Schrader infrange la passeggiata newyorchese di Manhattan con uno slittamento letteralmente octopus, agitando braccia-microcamere che sfidano e in qualche modo desertificano la propria stessa ansia di controllo.



Nicola Curzio

Nicola Curzio

curran tracksAnni prima che Christopher McCandless decidesse di intraprendere il suo cammino verso l’Alaska, un’altra adolescente, Robyn Davidson, in un’altra parte del mondo, affrontò un lungo viaggio nel deserto australiano. Se il paragone tra queste due persone è, perlomeno qui, di scarso interesse, non lo è invece quello tra i loro personaggi al centro, rispettivamente, del film di Sean Penn (Into the Wild, 2007) e di John Curran (Tracks, 2013).

Gianfranco Costantiello

Gianfranco Costantiello

gravity articleLa tecnica non fa altro che esporre l’uomo dinanzi alla sua fine. Fine imminente che pare dominare l’immaginario americano e, soprattutto, hollywoodiano, degli ultimi anni. Così in Gravity, primo film di Cuarón dal respiro mainstream, in un 3D quanto mai calzante, ci si trova a un passo dalla tanto sussurrata fine, quando detriti sfreccianti minacciano, d’improvviso, nella quiete sospesa del vasto nero spaziale, il viaggio dello Space Shuttle e la vita dell’astronauta Matt Kowalsky e quella della dottoressa Ryan Stone (rispettivamente George Clooney e Sandra Bullock in scafandro).

Vincenzo Martino

Vincenzo Martino

gravityTrambusto. Poi silenzio, pace, sensazione di assenza, di gravità e quantità; spazio e spazi, blu tenebra e azzurro cielo a confronto: ė dipinto in questa cornice l'incipit di Gravity, presentato fuori concorso a Venezia, ultima fatica di Alfonso Cuarón che ancora una volta si (re)inventa, abbracciando nuovamente una produzione milionaria e scegliendo l'alta quota, quella siderale, come strada/mezzo per esorcizzare un lutto - quello della dottoressa Rayan Stone, nome e fisionomie mascoline che tanto sembrano rievocare la Ripley di Alien -  tramite una (ri)nascita che parrebbe (nella dovuta misura) anche riproposizione (genuflessa) del 2001 archetipo kubrickiano; e difatti proprio laddove si interrompevano (se così si può dire) le avventure del discovery one e del suo equipaggio - e dunque l'orbita terrestre - prende piede la breve odissea di Rayan e del pilota Matt, per poi concludersi tra le terre rosse di un'Africa deserta (evidentemente attraverso un percorso inverso ma disseminato di citazioni: e penso a penne sospese e corpi fluttuanti in posizione fetale).

Matteo Marelli

Matteo Marelli

danteIl percorso spettacolare di Emma Dante ha da sempre una forza centripeta, una chiusura, un ripiegamento ombelicale che ambisce a contenere in sé il mondo. Una costruzione sineddotica che attraverso iperboli grottesche della rappresentazione lascia trapelare significati metaforici. Senza rinunciare al racconto, sebbene asciugandolo, riducendolo all’essenziale, presentando e indagando situazioni già date più che svolgimenti di conflitti e azioni.

Luigi Abiusi

Luigi Abiusi

sono hell teaser-thumb-630xauto-38159Quest’anno s’è arrivati in motoscafo di radica e di poltroncine filigranate a leoni rossi e gialli: vento nei capelli, occhiali da sole a intorbidire screzi cirrosi; i canali di Murano, con uno o due artigiani che cianciavano di reti e di legni, e poi la cosa imprevista, da gelarti il sangue nelle bluastre incrinature del polso chiamate vene: lo scafista ci scarica all’attracco della Darsena, che più in là ci sarebbe un supplemento da pagare, che se volevate scendere a Santa Elisabetta… ma me lo dovevate dire prima; ora se volete vi porto all’attracco dell’Excelsior, ma sono venti euro in più. E allora scendiamo alla Darsena dove c’era un serraglio di fotografi e video-operatori (con alle spalle delle fantesche adorne con cura e classe, che si mettevano in punta di piedi per poter guardare i feticci arrivati dal mare e potersi bagnare così nelle mutande odorose di mughetto) i quali, visto lo scafo lustro, battente bandiera veneziana con polena leonina a prua, e sonante dai Boose della vociona di Michael Bolton, hanno cominciato tutta una farandola di scatti e di riprese, e lampi ed epifonemi tutt’intorno, credendoci attori famosi o chissà magnaccia e mignotte della televisione o del parlamento; e un eunuco in giacca rossa e guanti di raso bianco lì a stappare una bottiglia e a fare tinnire i bicchieri di Swarovski.

Luca Romano

Luca Romano

movie-die-frau-des-polizsten-s2-mask9La fragilità è la capacità dell'uomo di salvarsi dai frantumi, ma non quella di rimanere intatto. La pelle mantiene gli organi vicini, intatti, li tiene uniti ed evita che il corpo si frantumi. Il film è frantumato in milioni di pezzi, forse meno, forse 59 capitoli, forse ogni fotogramma. Ogni capitolo inizia e non cede al secondo il suo spazio, ma finisce, si conclude. In ogni capitolo c'è il frammento di una storia inenarrabile in un insieme, incomprensibile insieme. La fragilità è in ogni spazio della narrazione, è nei canti con gli occhi negli occhi degli spettatori, nella memoria che non concede il ricordo di tutte le parole. La fragilità è nel passo degli animali, nella loro morte, negli incidenti che lui fotografa, nei corpi morti a bordo strada, negli steli d'erba dell'orto improvvisato, nei lombrichi che affondano nell'acqua nell'innaffiatoio; in tutto c'è una fragilità che frantuma e salva dai frantumi.

Michele Sardone

Michele Sardone

labruceLa gerontofilia del titolo sembra rivolta, più che ai corpi decadenti e azzimati, a un certo cinema vecchio, il cosiddetto “classico”: sceneggiatura ammiccante , inquadrature da incorniciare, montaggio al servizio della narrazione, fotografia patinata. Bruce LaBruce tenta di sovvertire il concetto di bellezza, ma si arrende comunque alla gerarchizzazione: non contesta la bellezza in sé, ma prova solo a invertire di posto quel che viene definito attraente con ciò che è disgustoso, lasciando invariato il sistema formale.

Serge Daney

Serge Daney

daneySe il film è per me, io sono per lui: di fronte a lui e dentro di lui. Ripenso […] a proposito del “posto dello spettatore” davanti a un film, sul fatto che c’è una doppia scena, un doppio modo di esistere davanti al film: come corpo inerte tra gli altri, e come sguardo vivo tra le inquadrature. L’amore dell’inquadratura è quello degli interstizi in cui infilarsi, di nascosto o ben nascosti dallo svolgimento del film.

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