Luigi Abiusi

sono hell teaser-thumb-630xauto-38159Quest’anno s’è arrivati in motoscafo di radica e di poltroncine filigranate a leoni rossi e gialli: vento nei capelli, occhiali da sole a intorbidire screzi cirrosi; i canali di Murano, con uno o due artigiani che cianciavano di reti e di legni, e poi la cosa imprevista, da gelarti il sangue nelle bluastre incrinature del polso chiamate vene: lo scafista ci scarica all’attracco della Darsena, che più in là ci sarebbe un supplemento da pagare, che se volevate scendere a Santa Elisabetta… ma me lo dovevate dire prima; ora se volete vi porto all’attracco dell’Excelsior, ma sono venti euro in più. E allora scendiamo alla Darsena dove c’era un serraglio di fotografi e video-operatori (con alle spalle delle fantesche adorne con cura e classe, che si mettevano in punta di piedi per poter guardare i feticci arrivati dal mare e potersi bagnare così nelle mutande odorose di mughetto) i quali, visto lo scafo lustro, battente bandiera veneziana con polena leonina a prua, e sonante dai Boose della vociona di Michael Bolton, hanno cominciato tutta una farandola di scatti e di riprese, e lampi ed epifonemi tutt’intorno, credendoci attori famosi o chissà magnaccia e mignotte della televisione o del parlamento; e un eunuco in giacca rossa e guanti di raso bianco lì a stappare una bottiglia e a fare tinnire i bicchieri di Swarovski.


Nonostante la mancanza di minchia una e trina, e magari di fiotti nerastri dai glandi impennacchiati, che angelicamente ridavano vita in L. A. Zombie (quasi videoarte, in trionfo di machi stereotipi e di umori vari tra sangue e bruno sperma), ridavano vita ai corpi martoriati e ammazzati dal Capitale urbano, e quindi nonostante l’autorieducazione (ad emendare l’eccesso, quello plasticato e posticcio, di corpo ridotto a fantoccio), Gerontophilia, posto su un livello di totale antropomorfizzazione (nessun mostro bensì persone), ha il fascino dell’inversione della prospettiva, perchè il vecchio, bruno (occhi enormemente chiari sgranati sul mondo che per lui va finendo) appare come indifeso pur nella sua civetteria, un bambino che vive angelicamente l’hic et nunc, completamente dedito al gioco (dei corpi), mentre il ragazzo appena maggiorenne, che prova un’inveterata attrazione per l’avvizzito, ha la responsabilità di insaldare la relazione, tra gelosie, dichiarazioni d’amore, torte di compleanno nella premura delle 83 candeline. È vero, il film ricorda molto il Gus Van Sant di Restless, ma in un’ottica totalmente differente, ovviamente, di ridefinizione del bello, dentro le vibrazioni di una colonna sonora che inizia, in camminamento, con gli Horrors. Ma non emergono (e non ce n’è bisogno) le ragione dell’essere (cioè del feticismo) di Lake, anche se LaBruce indugia molto (feticisticamente) sulle superfici grinzose (a rinverdire il mito della rovina attraente); così l’amore dei corpi senili diviene qualcosa di ludico e intercambiabile, che alla fine investe uno di quei vecchi (anche lui con occhi spalancati infantilmente) che aiutano i bimbi ruzzanti usciti da scuola ad attraversare la strada.

Mentre le ragioni del movimento di Robyn in Tracks (di John Curran) si comprendono da subito e sembrano giustificate e giustificare poi il suo viaggio nel deserto australiano: un senso ineluttabile di solitudine, e di mancanza, di perdita senza appello, di una madre suicida, quand’era bambina, poi di un cane durante il viaggio verso l’Oceano, e di chissà chi altri prima, perché i suoi occhi se ne stanno in silenzio a subire l’abominio celeste. Eppure tentano di trovare qualcosa, qualcuno, negli spazi vuoti armonizzati dalla musica in dilatazione eterea (svuotando anzichè riempiendo lo spazio vuoto del deserto) fino al piano del mare. E mi chiedo com’è che questa pletora meccanica di spettatori, inaciditi dagli anni e sempre disposti a dimostrare la loro pragmatica anestetica (dentro le borse e le scarpe lustre, dentro la loro scorza di sagome indifferenti) resti seduta e zitta, magari pronta, alla fine, a ridurre (a dover ridurre compulsivamente) tutto, il cinema, il Senso, a una questione di gusto, alla gnome ubiqua del “mi piace”.

Ma m’è piaciuto molto Why Don't You Play in Hell? di Sion Sono, grande giocattolo ad incastri di piani cinematografici; tripudio di smorfie di personaggi che giocano con la tipicità della fisionomica giapponese, non senza un leggero velo di inquietudine finale: del resto sembra incredibile che quello stesso regista che costruiva il serissimo e terribile immaginario di Strange Circus ora si diverta a divertire con un tale magnifico pasticcio, che confonde i piani e si proietta in un universo confuso, senza confini, proprio sconfinato, che alla fine è il motivo per cui siamo qua.