tsai1. Verso la fine. Me la prendo comoda, e me la prendo con me stesso, che sono rimasto steso stamattina, e offeso (anche solo dalla luce dalla tenda blu, nonostante Nicola ieri l’abbia chiusa con premura, prevedendo l’invasione di quello stesso stridulo grido di sempre che è la mattina), steso a penetrare il mistero del soffitto bianco, su cui appaiono fantasmi ferrigni, esoscheletri su cui si innestano pulsioni e proiezioni, che non si sa più cos’è reale cosa no, che si vorrebbe vivere sempre in questa dimensione falsa (il cinema, la poesia) liberata dalla verità, e invece si deve tornare, per ritrovarsi in una casa vuota, per strada mentre la polvere e stracci di foglie fanno il loro solito ballo autunnale, le ragazze parlano al telefono, nei negozi imperano le cineserie, e la fontana semplicemente scroscia.

Mi sono perso Sacro GRA, mi sono perso per i viali tutti uguali che sanno di traspirazione di alberi e oppressione di crepuscolo, e allora tanto valeva andarsene piano fino al palazzo del cinema e rimuginare... che intorno a ‘sta mostra ci gira tanta gente che non ha del cinema che un approccio rudemente amatoriale o ancora peggio, secondo quell’ottusa curiosità che è del bricolage, o dei puzzle di 1500 pezzi, raffiguranti una veduta di Courmayeur, sullo sfondo di monti mitteleuropei; tant’è che si sente uno dire (uno di quelli che si guadagnano da vivere razzolando per i festival e parlandone poi in televisione con sicumera) che il film di Tsai Ming Liang è “un po’ pesantuccio”; il che (il giudizio) sarebbe pure accettabile (ci mancherebbe che si impongano i gusti, ammesso che si possa avere gusto in fatto di arte, e non invece un angelico e religioso stare in attesa), se non fosse espresso con linguaggio preso da una di quelle trasmissioni di inizio anni novanta in cui si doveva indovinare (con le telefonate da casa) il numero di fagioli contenuti in un’urna sotto l’egida della bionda e berciante Carrà (madrina dell’eros domestico italiano, con le sue movenze scatenate e stipate in pantaloni attillati da dove le natiche inneggiavano alla loro fenomenologia, cioè al loro esserci carnale e pieno, predisposto a una di quelle monte di tori pesanti che si vedono nei documentari, quando la vacca se ne sta quieta, con muggito, sporadico; e allora ti veniva di attaccartici con le unghie a quelle natiche sode per scaricare, in mezzo al deserto americano, il grumo di nervi, con urlo, di Munch): era lo stesso periodo in cui adolescenti svolazzanti di gonnella mostravano le loro forme acerbe, ballando e cantando con accompagnamento di diamonica elettronica, a una platea di pedofili in canizie o adolescenti maschi che a casa se lo menavano comodamente sul divano (e le femmine, già sicure del loro saffismo, a titillarsi la virginea cocchina), con schizzi che si mischiavano alle briciole di merendine sul tappeto del tinello.

2. Garrel. Finalmente un film che emoziona e che allo stesso tempo riesce a riflettere su se stesso, sulla sua identità falsa, creata, eppure in grado di essere più vera di ogni altra apparenza; dentro i camerini di un teatro, dove gli attori-personaggi raschiano il fondo dei pavimenti e dei muri, degli specchi (cioè cercando risorse e forze dentro la dinamica di invenzione, nell’impalcatura di sussistenza del cinema stesso), per sopravvivere coi loro figli, le loro compagne abbandonate, quelle che a loro volta li abbandonano lasciandoli desolati e costretti ad affrontare la mancanza (endemica) giorno dopo giorno, appigliandosi ai bambini, ai giardini, finchè non arriva la notte e si deve spegnere la luce. Opera di grande leggerezza e partecipazione, una carezza (come l’ha definito Matteo - Marelli - alla fine della proiezione) pur nella rappresentazione verosimigliante del dolore (così i capelli di Claudia, lasciando scoperto il collo dietro, sono i suoi ma allo stesso tempo sono quelli di Eleonora, quand’ero ragazzo, anzi più veri di quelli di Eleonora, ed esistono solo perchè evochino fantasmi, somiglianze), un dolore che emerge con incredibile evidenza sui volti, nel tremore dei corpi, degli occhi spalancati: quelli di Louis, in preda al panico, mentre fa avanti e indietro (bestia ferita) nella stanza rimasta silenziosa, prima che si spari al cuore. Ed è qui lo scarto inatteso: Louis non muore, così Garrel inverte il senso di nullificazione (dell’essere in/per l’amore, cioè del Senso) intrinseco a Une été brûlant, declamando, in quello che potrebbe essere il suo ultimo film, la fede incondizionata nelle immagini, nell’insorgere di densità poetiche che fanno la vita e la solitudine del mondo.

3. Tsai Ming Liang. Film immenso. Altro testamento. E le somiglianze “ideologiche” con La jalousie sono tante, perché dal fluire diafano e fluviale delle immagini di Stray Dogs, emerge passo dopo passo (ed è un passo sospeso, appunto angelopoulosiano) l’idea di un’aggregazione (familiare) che si dissipa nella dispersione del contemporaneo; e ciò emergente e significante nell’unico spazio possibile, quello di uno schermo (un’immagine fissa, senza significato, ma dal senso infinito, dipinta sul muro), in cui i protagonisti leggono (contemplandola lungamente) la loro disperazione di esseri nati e vissuti nella/per la lacerazione, il distacco, e in cui comunque cercano di resistere, magari smettendo di bere e affidando i soldi guadagnati, al figlio, perché li custodisca: astrazione sì, raggiramento della vicenda evenemenziale, dentro lunghi e fermi pianisequenza che cercano di ricongiungersi alla materia indistinta, al cosmo di (in)forme, ma allo stesso tempo minuta cronaca del quotidiano e del dramma dell'esistenza. Il mondo intorno è vuoto, inerte, e non fa che reclamare la sua contropartita per il fatto di essere genesi, di avere generato, che corrisponde alla sofferenza degli esseri, alle loro lacrime nella Realtà dell’inquadratura, quella diroccata, infinita dimensione (nel finale Spaventoso, di baratro, di limine) in cui loro si guardano come personaggi, eppure umani troppo umani, nell’ipnosi di un piano lungo più di 10 minuti, che cerca di vibrare tendendo alla stasi, in una zona posta alla fine del cinema.

4. Fine. La pelle ruvida dell’asfalto ha macchie d’oli, frutta pestata, qualche raro incarto di cioccolato; le macchine le schiacciano, o le scacciano ai lati, gli alberi appiccano la loro devastazione d’ombra sui muri delle case e del ritorno. A Treviso l'aeroporto, specie di capannone industriale in cemento e qualche illusione di vetro, è un serraglio di guardie e cani, covo della gestapo, dedita a pesare le valige e a punirti con frustate o inculate sbraitanti, con Zed che guarda. Luca (Romano) deve smaltire 96 kg in più, e allora decide di abbandonare sul ciglio della strada (in una valigia marrone che rimane lì mentre le macchine sfrecciano) il bue squartato che s'era portato da Venezia, masticando parole di sdegno per quei nazisti che avevano sgommato col sidecar e ora cantano e barcollano tutti 'mbriachi e ignudi dicendo Eins Zwei Polizei. Ma restano altri 16 kg da diluire, prima di passare al controllo e poi al metaldetector, che squilla ogni istante, giostra impazzita anche di luci. Allora ci si accolla noi qualcosa, un paio di scarponi da neve, una secchia, una cornice in noce, con intarsi d'edera; una palla gialla (o verde); poi lui si riempie le tasche di altri oggetti in esubero, con destrezza che è quella della trinità.

Le parole sono inadeguate a spiegare l'enormità di quello che io vidi, mentre velocissimo si gonfiava di cose ovunque; ma cercherò di farlo lo stesso, sperando che serva almeno a renderne l'idea. Vidi mettersi nella tasca destra dei pinocchietti, un trenino elettrico sbuffante, con casellante seduto a fumare la pipa e a pensare al mare; il Libro dell'inquietudine di Bernardo Soares in versione Feltrinelli; una mela rossa (o blu) comprata alla stazione di Firenze in una mattina d'autunno; un ombrello con su scritto “Vote for Pedro”;  le foto di quand'era piccolo e sua madre sorrideva su una spiaggia assolata; il logo in acciaio della Mercedes W126 che aveva rubato nell'84 da un parcheggio di Courmayeur; la coperta rossa che di notte bisbigliava nell'armadio mentre sui vetri tarlava la pioggia; un'anfora con dentro alcune gocce di quella pioggia; una scheggia della vernice nera della Jaguar che aveva portato via per sempre la sua donna bionda; un anello con pietra azzurra che lei gli aveva regalato quand'era tardi; un cielo blu con stelle e pianeti scintillanti e un'inscrizione di un cielo blu con stelle e pianeti, che portava ancora il suo odore.

Non ce l'ha fatta a superare gli sbarramenti ed è rimasto lì fermo al terminale (a terminarsi), pronto per essere traslato nella stanza del panico, sperando di poter rubare la pistola a qualche ufficiale stordito dal vino, per spararsi un colpo in bocca. Ora gira voce che viva da qualche parte in Veneto, in uno di quei villaggi in cui alle 4 e 30 il gallo richiama la complicità degli alberi dei gelsi ed invita il sole ad accedere nella campagna apparita; e si dice che faccia il maniscalco e tenga un diario di appunti, ricordi, prose maliconiche; e che sogni di andare in Brasile, dove ritrovare anche solo l'ombra dell'amore perduto.