Lo stato delle cose

Saggi di cultura cinematografica, protesi verso il proprio altro, filosofia, semiologia, letteratura, politica, ecc., per (cercare di) inquadrare lo stato delle cose.

Luigi Abiusi

Luigi Abiusi

altDentro il magma della condizione postmoderna, in una teoria delle cose che rinuncia alla teoria contemplando le cose che accadono, che ci accadono, ci fanno accadere, nudamente, tanto più in questo rigoglio primaverile, ritorno di sole, su selciati, folle, sui muri, gli schermi in cui si caglia il passato (mai così presente), le fantasticherie secrete dagli intrichi di sterpi dentro un campo apparito, dallo sbottare di tuberi, che esalano e si cagliano ancora vischiosi, verdi di schiuma all’aria aperta; schizofrenia d’io che poi è deposizione dell’io, della coscienza, e gioiosa, terribile balia degli eventi, carneo, erotico brulicame di epidermidi, isole di senso; il palinsesto di un «Uzak» in quanto discontinuità gioiosa di sensi, concetti in storie, in fieri, va da Dreyer a Noé e passa per un grumo di visioni “polacche”.

Massimo Carboni

Massimo Carboni

La nostra attenzione si soffermerà in primo luogo su un dettaglio marginale di una grande opera d’arte del Novecento, un dettaglio apparentemente insignificante, un evento accidentale e quasi ridicolo, un resto. Fa infatti parte di ciò che resta in più dopo aver enumerato l’insieme. Ci applicheremo dunque ad una fenomenologia dell’inessenziale.
Se osserviamo attentamente, ci accorgiamo che per ben due volte, in due distinte inquadrature del celebre La passione di Giovanna d’Arco del regista danese Carl Theodor Dreyer, una mosca si posa e zampetta per qualche secondo sul viso dell’attrice Renée Falconetti, che interpreta – in maniera rimasta memorabile nella storia del cinema – la protagonista Giovanna. Inesplicabile ed imprevisto, un frammento di reale – in tutta la sua immediatezza, in tutta la sua singolarità – fa a suo modo ingresso permanente nell’immagine. Il regista non taglia in montaggio le due inquadrature, lascia che questo minuscolo, insignificante incidente resti per sempre integrato nella sua opera. Non si tratta affatto di una programmatica accettazione del caso. Dreyer non è un dadaista né un surrealista; è un autore rimasto celebre per il suo rigore formale, per la sua capacità di controllo e di dominio sul linguaggio filmico. L’episodio semmai indica come l’opera d’arte, e soprattutto l’opera d’arte moderno-contemporanea sia qualcosa che, nel suo stesso farsi, appare radicalmente esposta all’evento fortuito che si dona, alla nuda contingenza che irrompe a partire da un fuori ignoto e incontrollabile, ove domina incontrastata l’equiprobabilità dell’accadere.

Roberto Turigliatto e Małgorzata Furdal

Roberto Turigliatto e Małgorzata Furdal


altAveva deciso di lasciarsi trasportare anima e corpo
dalla corrente, come una foglia portata dal vento…
galleggiante senza mai aggrapparsi a niente…
giramondo per ponderatezza…
non come altri per disperazione.

(Joseph Conrad, Victory)


Fin dall’inizio, nel cuore del suo cinema, Jerzy Skolimowski incontra il “compagno segreto” del racconto di Conrad, un’opera letteraria che ritroveremo molti anni dopo, insieme a Victory, adombrata dentro The Lightship. «Andrzej Leszczyk non sono io. È divertente, non solo dal punto di vista artistico ma anche psicologico, il fatto che riesca a produrre delle varianti a partire dalle mie tendenze personali, ma senza identificarmi con esse, il fatto di guardarmi sullo schermo – fisicamente sono io – in una vita fittizia» (Jerzy Skolimowski 1964).

Alessandro Cappabianca

Alessandro Cappabianca

alt«Un’altra avventura vi racconterò, più strana ancora...»
È l’inizio di Cosmos, il romanzo di Gombrowicz, che però, nella trasposizione cinematografica di Zulawski, è sostituto dai celebri versi d’apertura della Divina Commedia («Nel mezzo del cammin...» ecc.). Nella filmografia del regista polacco, d’altra parte, non si può certo dire che manchino avventure “strane” – in che senso, allora, quella di Cosmos sarebbe ancora più strana? Ma davvero lo è?

Nicola Curzio

Nicola Curzio

altChe il 3D al cinema sia inutile o superfluo è opinione piuttosto diffusa e nemmeno troppo taciuta. “Il 3D non cambia niente” si sente spesso dire a proposito dei film girati in rilievo. Del resto, opere di questo tipo sono di frequente distribuite e proiettate in 2D senza che nessuno, o quasi, si accorga che ne esiste una versione tridimensionale. Nella migliore delle ipotesi il 3D è percepito come un extra, un additivo, qualcosa che può arricchire la proiezione, ma che non incide realmente su di essa. In altre parole, il discorso filmico con il 3D non cambia, anzi, a volte rischia di essere indebolito: l’autorevole studiosa americana Kristin Thompson, ad esempio, ha sostenuto che «gli effetti rocamboleschi della maggior parte dei titoli in 3D sono fastidiosi e hanno l’esito di ridurre il potenziale immersivo. De facto, interrompono il flusso narrativo, chiedendoci di prestare attenzione a un escamotage del tutto ridondante. L’unica cosa che ricordo di La leggenda di Beowulf, uno dei primi film in 3D, sono le lance scagliate dagli indigeni all’indirizzo degli spettatori. Dopo il terzo lancio, la routine diventa noiosa, anzi, fastidiosa. È come ascoltare la stessa barzelletta ad nauseam» (Thompson 2010, p. 86).

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