Medeas 3Il vento si è alzato stamattina e ora spazza i capelli, le gonne a pieghe, le ramure lungo i viali e le ferrovie, e gli aerei di carta. “Il vento si è alzato. Bisogna tentare di vivere”: su un treno in corsa, inseguendo un cappello sbalzato da una folata, Jiro e Nahoko si scambiano (con voce tenue dissolta nel vento) i versi di Valery, che dicono la necessità di assecondare quell’accensione di tempo e di spazio che è il nascere e il crescere, il creare (animare), aprendosi al dolore, al tempo, alla morte, all’esorcizzazione della morte dentro la spianata cerulea dell’immaginazione. È il capolavoro (in concorso) di Miyazaki (The Wind Rises), rastremato, asciugato da quelle strabilianti invenzioni anamorfiche che erano già nel Castello nel cielo, pieno di immagini di una storia ancora più vera se è il sogno a superarne gli abomini (gli aerei da guerra), e la poesia, “Le vent se lève! . . . il faut tenter de vivre!” vero centro pulsante e volatile di tutto il cinema di Miyazaki.


“Dobbiamo continuare a vivere” risponde il maniscalco Simon dopo avere sfondato una porta dietro cui sospettava un suicidio: il 1842 è stato un anno di carestie terribili, di morti premature, carcerazioni in nome della libertà, fango entro cui rinfacciarsi le sottrazioni perpetrate dai fratelli ai fratelli (una donna bionda e l’evasione, l’esotismo) eppure ci si stringe e si continua a respirare in Home from Home (“Fuori Concorso”) di Edgar Reitz, il meraviglioso, commovente prologo agli Heimat, da cui non si vorrebbe più uscire per come il vento, nei momenti di quiete, scuote il grano… e così si resta fino all’ultimo titolo di coda, incantati a guardare le cime degli alberi, e a ricordarsi della notte prima che Henriette e Gustav partissero, quando Jacob finalmente può avere (e per l’ultima volta) la donna che ama. Epopea accorata, corale, dentro una spazializzazione quasi tangibile, udibile, sublimata da improvvisi tocchi di colore (il rosso, l’oro, i quasi venti tipi di verde nominati dalle tribù di indiani d’America) e di musica che vanno verso il “tenter de vivre”.

Anche Ennis (nel bellissimo Medeas di Andrea Pallaoro, in “Orizzonti”) ci prova forse, a sopravvivere, si ritrova a piangere seduto sul pavimento, nella piena e insopportabile consapevolezza di aver perso il suo amore, e alla fine si sbarba, si veste e porta fuori i ragazzi a trovare il nonno; si stende a fianco a lui scrutandone i lineamenti, il corpo grinzoso, nel disperato tentativo di trovare una risposta (o solo sollievo) nel familiare, mentre Christina, nei campi, si abbandona all’amplesso con il suo amante. Un dolore che è nel brulicare dei campi, dei sentieri, dell’orizzonte decrescente, e nell’adiacenza delle immagini della disperazione di Ennis, del sentimento del venire sostituito e della violazione di sua moglie da parte di un altro, del suo indugiare sul corpo di un altro, con viso lascivo, occhi lucenti, lingua e bocca voraci, gambe chiare, spalancate all’intrusione del seme; a fianco alle scene in cui Chistina felice si riposa dopo tutto questo, tragicamente svuotata dell’amore per Ellis e attaccata al suo “essere” pieno, che sancisce, per l’altro, l’impossibilità di vivere.