Lo stato delle cose

Saggi di cultura cinematografica, protesi verso il proprio altro, filosofia, semiologia, letteratura, politica, ecc., per (cercare di) inquadrare lo stato delle cose.

Luigi Abiusi


altLe cose significative del 2016 da serbare, ricordare. Un'operazione non feticistica, almeno nel nostro caso, quanto invece di iniziazione del nuovo anno, del prosieguo: incentivo alla continuazione, in esistenze di scritture, ripensamenti, invenzioni. Se si pensa alla materia-cinema che si dibatte tra spazio e tempo, forze e forme, realtà e reale, allora si può considerare, magari, l'ultimo Serra (una delle visioni più folgoranti degli ultimi tempi) in stretta relazione e continuazione, mettiamo, a Cemetery of Splendour dell'anno scorso, cioè a quelle forze, io direi “quello spazio”, che attendono, brulicano sul fondo del quadro e si pongono problematicamente rispetto alla possibilità di divenire forme.

Alessandro Cappabianca

altC’è colore e colore, ma vedere il mondo a colori (siano pure colori cupi) è una cosa naturale. Lav Diaz non sembra affatto convinto, invece, che sia naturale vedere il mondo a colori (siano pure cupi) attraverso l’occhio della cinepresa, come se lo ritenesse un indebito abbellimento, come se non potesse dimenticare le origini, quelle del bianco e nero, quando il cinema (per dirla con Godard) prendeva il lutto per la realtà. Si dovrebbe riflettere di più su questo fatto: quella del cinema (con la fotografia) è stata la sola arte nata in bianco e nero, e a lungo rimasta tale, anche se quasi da subito si è cercato di darle i colori, magari a mano, fotogramma per fotogramma (esiste il disegno, certo, ma è basato sulla linea, e in genere propedeutico alla pittura).

Pietro Masciullo

altIniziamo con A Lullaby to the Sorrowful Mystery (2016). Il cinema di Lav Diaz, del resto, ci appare da sempre come una paradossale ninnananna sul mistero doloroso: da un lato i traumi dolenti della storia filippina colti sempre tra colonialismo e dittature, ingiustizie e morti violente, menzogne e oblio della memoria; da un altro lato il re-incanto dell’immagine cinematografica che si prenda in carico la riemersione di una memoria rubata e la creazione di un immaginario popolare finalmente dal basso. I tre protagonisti di questa ninnananna, allora, non potevano che rimanere in fuori campo: figure incorporee perse di nuovo nel visibile di piani sequenza lunghissimi che sfondano l’orizzonte.

Mariangela Sansone

alt

Non possiamo dimenticare quello che eravamo
Niente rimane. Tutto si perde.
Come si può rispondere a una domanda alla quale non c’è risposta?


La memoria è una lacrima che scende dalla “bianca palpebra” dello schermo di Lav Diaz, un elemento doloroso, sempre presente, perché «non si può dimenticare quello che eravamo». Il passato è uno specchio che si riflette nel presente, e quella palpebra si apre sulla realtà, il trenta giugno del 1997, nel giorno in cui termina il protettorato inglese a Hong Kong.

Cecilia Ermini

tramontoL’esperienza pittorica per Franco Piavoli può considerarsi una sorta di sublime surrogato all’assenza della macchina-cinema dove la fortissima poetica, che già nei cortometraggi esplodeva nel bianco e nero della sua Paillard 8 mm, è rintracciabile fin dai primi disegni, acquerelli realizzati da ragazzo, per puro diletto, verso la fine degli anni Cinquanta. Il piccolo paesaggio autunnale Tramonto ad esempio, datato 1958, inaugura questi primi esperimenti di colore che si interrompono al profilarsi degli orizzonti offerti dalla pellicola e non è un caso che, a partire dall’inizio degli anni Settanta, Piavoli, dopo il dolore per un mancato lungometraggio dal titolo Cara Dalia, abbia ripreso in mano il disegno, avendo perso l’opportunità di fare film, preclusione che durerà per quasi due decenni.

Mariangela Sansone

alt

Le cose non si possono tutte afferrare e dire come d’abitudine ci vorrebbero far credere;
la maggior parte degli avvenimenti sono indicibili, si compiono in uno spazio che mai parola ha varcato.
(Rilke, Lettere a un giovane poeta)




Leonardo Gregorio


altL’umanità che incontra nei suoi documentari ha sempre un desiderio. Quello di uno spazio da inseguire, da cercare; è la domanda a un mondo a cui non si appartiene. Liberami, viaggio nei riti d’esorcismo in Sicilia, lavoro che ha avuto un percorso molto lungo – tre anni – di gestazione e sviluppo, è approdato alla “Mostra di Venezia” 2016 e ha vinto il premio per il Miglior Film nella sezione “Orizzonti”. Per Federica di Giacomo l’opera sicuramente più difficile e radicale, la nuova tappa di un percorso cinematografico già segnato da Il lato grottesco della vita (2006) e Housing (2009).

Valentina Dell'Aquila

altBaudrillard diceva che lavoriamo con l’illusione postuma della fine, ma se una fine implica che qualcosa sia davvero avvenuto, stando alla realtà, possiamo davvero esser certi che qualcosa abbia avuto luogo o meno? Il punto, come dice Badiou, è ancora una volta quello di sapere quale sia, al di là di questo tema della fine,il rapporto dell’arte col reale o quale sia il reale dell’arte, la differenza tra luogo e l’aver luogo…

Giulio Vicinelli

altHo curato personalmente tutti gli aspetti del suono e ci ho dedicato più di sei mesi di lavoro, perché insieme al montaggio è l’aspetto fondamentale, la chiave di questo film, sebbene poi sia l’immagine a tenere insieme il tutto. (Amir Naderi)

Nella vezzosa frescura di una terrazza veneziana fronte mare Amir Naderi mi spiega che l’idea di creare una «sinfonia di rumori» era inscritta sin dal principio in un nucleo ideativo risalente a più di una decina di anni fa, che, passato attraverso vari tentativi infruttuosi di realizzazione, oggi sboccia a definitiva epifania con questo Monte, di bellezza primeva e oscura, presentato fuori concorso alla 73° edizione del Festival del Cinema di Venezia.

Carmen Albergo

altCon L’infinita fabbrica del Duomo (2015) Massimo D’Anolfi e Martina Parenti assestano, per la seconda volta all’interno della propria filmografia, una sterzata, che è senza soluzione di continuità, conclusione di un percorso e virata verso un nuovo orizzonte progettuale.
Vertice e di nuovo primo passo di una scalata, sempre al rilancio del grado di difficoltà scopica.

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