Moebius 2E sono ancora silenzi, in quel coacervo di emozioni che il festival comporta; silenzi assordanti; e d'altronde, quando a (dis)perdersi è il significato (concettoso, narratologico), a che servono le parole? A che servono i discorsi quando  l’immagine impera, comunica?


Sembra ripartire da Ferro 3 Kim Ki-Duk e lo fa attraverso un continuo, evidente, citazionismo, come l’inequivocabile mazza da golf, il ferro 3 che apre il film - quasi ripescando gli stessi Tae-Suk e Sun-Hwa, fantasmi silenti, scassinatori rispettosi, (ri)proposti all’interno di un nucleo familiare minato dalle mancanze del padre: e dunque l’evirazione del figlio è gesto di estrema tutela da parte di una madre spossata dalla corruzione del marito, estremo (e malato) tentativo salvifico, mezzo per esorcizzare in lui la decadenza morale paterna – ma è tutto il suo cinema a ritornare, ripiegandosi su se stesso, in se stesso, come un nastro di Moebius: ed abbiamo Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera nelle stagioni (della vita) che scorrono, si alternano, ritornano; o Time, asettico quadretto sull’impossibilità di vincere l’incedere del tempo, che inesorabile rifluisce sempre uguale. Vi è anche Pietà nel rapporto incestuoso madre/figlio: la famiglia che sorta nel piacere (sessuale) vive, si muove e muore nell’arco di un amplesso. E il dolore diviene valvola di traboccamento, strada collaterale al piacere, essendo, sofferenza e godimento, volti diversi della stessa medaglia (poiché il corpo è tutto un organo genitale).

Immenso e sacrosanto è il silenzio; è possibile concepire il parlato, il rumore, in questa pellicola? A (ri)ferire sono i corpi mutilati, escoriati, insanguinati; i genitali asportati, ricongiunti, schiacciati.