herAbbandonati alla domenica, dalla domenica, mattina romana, lastrico grigio, vischioso, cielo cinereo e sibilo, un chiosco floreale canta Moonlight Shadows come quando nell’83 camminavo per le stradine di un rione che non conoscevo, oltre il ponte (esotico per me come una giungla, intrico di fusti, cespi, ragni svelti), per vedere lei anche solo da lontano (godere del soffio al cuore che mi veniva quando appariva,  bianca e con gli occhi romantici, mandorlati; del senso di appartenenza dentro le invisibili corrispondenze che mi dicevano che ero vivo), cortili che s’aprivano all’improvviso al silenzio dei muschi, dei tufi corrosi che erano una porta, del pallone che sbatteva contro il muro, calciato forte (come atto virile) dai monelli già catarrosi (da invidiare per quello spurgo giallastro attagliato all’asfalto con rumore sordo, di cadavere), che pensavo avessero coltelli in tasca e parolacce da sguainare, pronti a derubare, anche dell’amore (soprattutto gli sconosciuti, i bambini ricci venuti da prima del confine, che i ricci erano discrimine sufficiente per ghignare e azzuffare, rubando palloni, quelli di cuoio avuti dallo zio di Milano, una chimera, di quelli che vedevi in televisione carezzati da Bruno Conti, mentre era già tanto se si giocava con il Tango, che se ce l’avevi ed eri pure grasso e ammutito,  ti chiamavano al citofono gridando e sputando sentenze sul pisciacchio di tua madre, squascianato, e ridevano e si tiravano i capelli, perché serviva il pallone, quello pesante, per una qualche sanguinosa disfida in un cortile, quando non erano alle prese, i monelli, con roghi di rane o con la fame che li faceva appostare fuori da una drogheria, prima del vecchio ponte, dove in vetrina campeggiavano le merendine al cioccolato, splendide imitazioni delle Fiesta) e una luce che non parlava che di lontananza, di desiderio e di assenza, quella che Hugo nella Vita invisibile di Vitor Goncalves si ferma ad osservare negli anditi e nelle stanze scricchiolanti di cui è pieno questo film splendido, anzi di cui è fatto, fantasmatico, svuotato, muto.


Cioè i tram non passano e ce ne stiamo buttati come incarti di merendine sbavati su una panchina mentre passano suore nane e meccaniche e papaboys brasiliani con volto di Cristo giallo su sfondo verde, che cantano “non mollare mai” a papà Francesco, e poliziotti e cingalesi trafelati. Entriamo nel 19 bestemmiando i morti: ci perderemo Her di Spike Jonze; poco male, penso, che a me non m’è mai piaciuto, velleitario com’è: che ne sa lui di cinema e di fantasmi e di desiderio? A proposito Entre nos di Paolo e Pedro Morelli, visto ieri è quanto di più lontano da un’onesta (ed entusiasmante) meditazione sulla creazione artistica, rivelandosi un panegirico sull’ingiustificato narcisismo dei creatori; ingiustificato perché questi (i protagonisti del film) sono solo giovani alla moda e vezzosi (che si specchiano di fronte alle loro pose), mentre il narcisismo, mettiamo, di un Ungaretti, era legittimato (dal grumo sognante di certa sua poesia), forse anche quando in una lettera a Leone Piccioni si considera pomposamente (e con imbarazzo dei posteri), il maggior poeta vivente; e di Manto acuifero di Michael Rowe (un giardino, una bimba a cui manca il padre entomologo, una madre separata dal marito ma ancora innamorata di lui, forse, che però ora convive con Felipe, patrigno rigoroso proprietario di una casa al sud; discorsi, litigi, origliamenti della bimba somatizzante; dipartimento scuola educazione: mi ricordo ancora la sigla, alla fine degli anni Settanta, quando un quadrato spiralico diventava rombo sgargiante con musica dei Calibro 35; ma certo, quelli erano programmi migliori di questo film), dicevo, di Manto acuifero non dirò nulla perché non mi piace parlare male dei film brutti.

Her è già cominciato e mi sorprende subito (confutando l’idea che avevo su Jonze) emanando una luce nostalgica, spessa, come pulviscolare, che si fa spazio in una cornice in riempimento di immagini tenui, tenere per quanto artificiali (ma quasi rasserenanti e comunque partecipative della desolazione, non più solo umana: una città che luccica, una spiaggia morbida, stanze vetrate, fino a un luogo virtuale dove addirittura trasumanare divenendo potenzialità) mentre Theodore (Joaquin Phoenix) torna con la mente a Catherine (Rooney Mara) e i suoi capelli biondi, che vivono in un’apnea di abbracci, di sorrisi, sguardi ardenti, tocchi, che ora esistono e sfolgorano nella misura in cui denunciano la tragica assenza di figura, di corpo (il divorzio), una mancanza e una potenzialità di presenze (e di amore, ancora lui) che innerva Theodore, il suo starsene steso, solo, dolente per la perdita, tanto grande quanto è difficile avvicinarsi a qualsiasi altra, che non sia un’altra virtuale, invisibile, concreta nell’orizzonte di forme che potrebbe assumere, che avrebbe potuto assumere, ma che ora non ha: lei, Samantha (la voce di Scarlett Johansson), un sistema operativo Os dotato di capacità senzienti e pensanti (capace di amare), che proietta una costellazione di Senso perfetto, pieno (di cui Theodore s’innamora) ma che poi, per sua propria natura, mostra il suo disfacimento, o semplicemente la mutazione, fino alla scomparsa, così come il rapporto tra un uomo e una donna è passibile di incomprensioni, cioè di vuoti di senso. Il che è declinato anche con ironia (i personaggi sono fragili stereotipi che ingenuamente si mostrano falotici e malinconici, ma, un po’ come le figure di Wes Anderson, incredibilmente vivi e vibranti nel loro abito), salvo tornare poi alla commozione per una vita che si sostanzia della sua corsa verso la perdita, di un corpo, di una donna ancora evocata (e oramai introiettata forse addirittura come ricchezza) proprio da ciò che non si vede (il film, la sua complessione, l’ipotesi di edificazione alla sua base, che alla fine, svelando il rapporto di reciproca fomentazione tra ciò che potrebbe dialetticamente essere e ciò che è, torna a contemplare la figura, umana, Catherine), ma che brulica e freme e soffre trasparentemente e puramente chissà dove: la vita invisibile.