Nicola Curzio

mantoManto acuífero, secondo lungometraggio di Michael Rowe (Caméra d’or a Cannes nel 2010 con Año Bisiesto), si apre con inquadratura che per altezza richiama alla mente Ozu: Caro, una bambina di otto anni, parla con un insetto, mentre alle sue spalle si muovono alcune mezze-figure; “mezze” perché eccedono i limiti del quadro, intervenendo nello spazio solo parzialmente, non essendo mai totalmente accettate all’interno di esso; “mezze” perché non diverranno mai veri personaggi, ma resteranno per tutta la durata della pellicola messicana solo tratti grossolani privi di concreto spessore.


Il punto di vista del film, così, coincide con quello di Caro: il mondo adulto (reale?) è fuori campo, o comunque sempre filtrato dagli occhi della bambina. Il film stesso sembra coincidere con Caro, diviso come lei in una doppia dimensione esterno/interno: la nuova casa, vuota e fredda, tutta chiusa in sé stessa riflette l’esteriorità muta della bambina; il giardino, zeppo di vegetazione, di insetti e di animali, la sua interiorità turbata. Punto di contatto di questi due luoghi è il nero, l’oscurità nella quale si ritrova la bambina durante la notte, nella sua stanza da letto; oscurità che poi è letteralmente (e banalmente) trasfigurata nel pozzo abbandonato nel giardino e, dunque, abitata da Caro nella seconda parte del film.

Manto acuífero, dopo un inizio promettente, dominato da una tensione invisibile, tutto concentrato sui particolari, dilatato e sospeso tra questi due spazi, ben presto si rivela essere un film incapace di crescere, piatto, privo di quelle increspature in cui vi si potrebbe annidare il senso, didascalico e presuntuoso nel suo intento pedagogico. Di Reygadas, che qui è uno dei riferimenti principali, rimane il sordo nichilismo, ma senza profondità, senza impressione. Percezione semplificata, nullificata di una realtà alterata, fino al finale che distrugge ogni brandello d’interesse rimasto.