Leonardo Gregorio

VolantinCortao11Nel cileno Volantin cortao ci sono dei momenti – sono momenti fugaci, attimi - in cui il volto di Paulina sembra farsi, o poter diventare, quasi pelle dello schermo, ruvida carezza, oggetto sfuggente nel disegno di Diego Ayala e Anibal Jofré. In un film, cioè, che fruga in modo irregolare fra i Dardenne, più che assorbirli, e al contempo tenta di inseguire nella sua fragilità, nella sua insicurezza, altre strade, altre immagini, altri corpi.

Come se in qualche modo cercasse corpi estranei (quelli che Mirko Locatelli, ad esempio, è riuscito a cercare, senza mai trovarli, e dunque senza mai “costringerli”, normalizzarli, solo desiderarli per poi finalmente perderli), facendosi occhio nelle distanze e nelle vicinanze fra essi, fra i corpi di Paulina, giovane tirocinante in un centro rieducativo per adolescenti a rischio criminalità, e Manuel, sedicenne dalla vita difficile, nel loro rapporto di iniziale diffidenza che poi muta in affetto, amicizia, gelosia. Ecco, a Volantin cortao, tenera e dolorosa imperfezione, racconto di solitudini nelle strade e nel traffico di Santiago, di delicatezza e asperità, manca – meglio, viene a mancare - proprio questo, infine, quella sospensione e quella rarefazione, l’annullamento, lo smarrimento, i silenzi, quella libertà che, mettiamo, è nel gesto di un Roberto Minervini, e che ti espone indifeso all’(im)possibile del cinema, alla sua grazia, alla sua luce.

Il film, progressivamente, subisce l’ingerenza della scrittura colpevolmente più convenzionale quando diventa illustrativa, mera spiegazione dei personaggi, a sfiduciare le immagini, la loro valenza, autonomia. Dal “meraviglioso”, dal gioco del viaggio sulle montagne russe, l’increspatura più dolce nel racconto, si arriva alla psicologia, alla forzatura narrativa, alla chiusura artificiosa. Senza più fughe o derive.