Vanna Carlucci

Qualcosa finge di respirare intorno a Theodore: solitudini frammentarie, voci preimpostate di programmi di segreteria, di mail, di pubblicità e, ancora, figure umane sullo sfondo che riempiono un vuoto, lo spazio fisico (l’ascensore, l’ufficio, i gradini di un sottopassaggio), figure che continuano a non avere un volto e restano sulla scena come suppellettili da decoro di un altro tipo di vuoto, quello di Theodore: nulla esiste intorno a lui, tutto aleggia, anche una musica malinconica che vuole riprodurre, e quindi creare inteso come ricordare, una lei dentro un vestito ormai smesso, passato, un corpo opaco e che è diventato solo frammento che spezza, separazione: Catherine.

Her ruota intorno a un atto di creazione o, ancora meglio, di ricreazione, attraverso la memoria, di un’immagine già registrata (i flashback d’amore vissuti con Catherine): questa continua necessità di dare forma a un sentire che rimanda al passato («riproduci canzone malinconica»), di dare forma a un’emozione già vissuta (attraverso il corpo della scrittura), di ritrovare un contatto (seppur vocale) che ormai si è perso, fa leva sul “corpo” pesante di un abbandono, sulla fine di un amore come il pretesto per avviarsi verso qualcos’Altro: l’Immagine. Ed è l’immagine ad essere al centro di questa continuità tra ciò che c’è di reale e ciò che è virtuale e s’impregnerà di un nome, Samantha, e cioè di una voce acquifera, fluida, (in)consistente, nel senso proprio che insiste ed esiste a partire da quella voce. Samantha nasce da un grembo pulviscolare, dall’attrito di impulsi elettrici quasi stellari e si schiude davanti alla pronuncia del proprio nome: è un feto che cresce grazie a quello che proviene dal fuori assumendo via via nuovi strati di significato man mano che i suoi circuiti (celesti) sfiorano tutte le care cose del mondo: e Theodore allora non sarà altro che impulso ulteriore a quella voce che diventerà Tutto: immagine; è intorno a lei che le cose risplendono, che la spiaggia s’illumina, che il buio di una camera da letto diventa schermo nero su cui riflettere l’amplesso amoroso: Cinema. La vita allora, quella affettiva e quindi effettiva prenderà corpo dalla creazione e dall’immaginazione di cui Theodore sarà solo la miccia.

Eppure questa Immagine è corpo disgregato, mutilato, scorporato ma che vive e si sviluppa perché contenente “milioni di personalità” che formano il suo DNA e che cresce attraverso l’esperienza del mondo: «In pratica mi evolvo in ogni momento. Proprio come te». E allora se si può parlare di anatomia dell’immagine, citando Hans Bellmer, questa è l’immagine che «è sempre a disposizione, pronta a scoprirsi un significato, un posto vacante, e a rivestirsi così di una realtà lecita» (Bellmer 2001, pp. 13-14). L’immagine è tale solo se costituisce una mutazione, una deformità continuamente in movimento ed è in questo eterno assestamento che Samantha diventerà proiezione, «spettro di un raggio luminoso» (Roberti 2012, p. 33), quasi Euridice al confine col mondo, o quella Visione distante e sospesa di una donna nell’acqua torbida de L’Atalante di J. Vigo, un’alterità che si specchia per la prima volta solo in rapporto a chi la vede: abisso o semplicemente «spazio infinito tra le parole [..]  dove esiste ogni cosa».

Questa deformazione si concretizza ad un certo punto proprio quando Samantha spinge Theodore ad ipotizzare un corpo diverso, quasi uno (s)montaggio dove l’ano si trova sotto l’ascella, dove cioè la “logica comune” perde di senso per raggiungerne un altro: ne risulterà «una bizzarra fusione di reale e virtuale, di lecito e proibito delle componenti [...] un amalgama ambiguo di “percezione pura” e “rappresentazione pura”, dal contorno iridescente per il leggero scarto di due contenuti volutamente convergenti ma opposti» (ivi, p. 14).

Samantha incarnerà l’immagine corporea che «non si identifica coi limiti anatomici del nostro organismo, perché non è una replica fedele della morfologia quale è descritta dall’anatomia, ma è un’immagine vissuta che mi fa esser là dove arriva, non solo il mio tatto, ma la mia voce, il mio sguardo, la mia presenza, sia pure anche come semplice presentimento» (Galimberti 2009, p. 320) . Il corpo di Samantha diventa perciò reale nel momento in cui la sua immagine viene ricostruita da Theodore che la sente, la ama (e quindi la guarda): «per effetto dello sguardo altrui [cioè, nda] mi vivo come cosa in mezzo al mondo» e così, di rimando, anche Theodore si sentirà guardato (e quindi amato nonostante il distacco) al centro di quello spazio infinito in quello splendido finale di una notte e delle sue costellazioni scintillanti.


Bibliografia

Bellmer H. (2001): Anatomia dell’immagine, Adelphi, Milano.

Galimberti U. (2009): Il corpo, Feltrinelli, Milano.

Roberti B. (2012): Cinema alchimia uno, Caratteri Mobili, Bari.


Filmografia

Her (Spike Jonze 2013)

L'Atalante (Jean Vigo 1934)