trialCom’è noto, Clarence Brown era il director prediletto di Greta Garbo, protagonista di sette fra i film della folta filmografia del regista. Brown (che a proposito della grande svedese disse di «averla sempre diretta in tono sommesso: i miei consigli non erano niente più che dei sussurri»), fu uno dei più rappresentativi cineasti della stagione d’oro hollywoodiana, quella caratterizzata dalla politica culturale dello studio system, dei cui meriti, spesso discutibili ma talvolta autentici, fu espressione significativa quanto non di rado eminente. Grande talent scout di attori, che evidentemente amava molto, nei duri anni della Depressione era solito dire, accennando al potere carismatico dei veri divi ‒ gran parte dei quali facevano parte della “scuderia” della MGM per la quale girava i suoi film e che di attori era ricco («più stelle che in cielo!» era lo slogan di questa major): «quando uno dice: lasciamo i piatti nel secchio e andiamo a vedere Joan Crawford […] vuol dire che quella è una vera star».


Dichiarazione che implicava l’accettazione del ruolo illusorio svolto dal cinema nel risarcire un diffuso malessere, che era soprattutto sociale (noi definiamo cinema d’evasione quello sottinteso dalle parole di Brown: forse con eccessiva severità verso il potere a suo modo catartico che anche l’arte dispensata da ogni forma di “impegno” può svolgere?).
Eppure la carriera di questo solerte esecutore del modello cinematografico “artigianale” – aggettivo da intendere nel suo significato più alto – non senza ragione divenuto fin dagli anni della fine del muto uno dei registi più importanti della più importante fra le major hollywoodiane, subì talvolta un paio di felici deviazioni, di una delle quali intendiamo qui parlare. Una di esse ha un ascendente illustre, un romanzo di William Faulkner, il grande scrittore che con la capitale del cinema ebbe sempre rapporti controversi anche se non del tutto fallimentari: il romanzo in questione è Intruder in the Dust (titolo italiano: Non si fruga nella polvere edito nella collana mondadoriana della Medusa nel 1951). Il film che ne aveva tratto Clarence Brown nel 1948 era un’opera insolita nella sua filmografia, un’opera comunque “necessaria” nella Hollywood degli anni in cui il razzismo, uno dei problemi più gravi della società americana, era tutt’altro che debellato. Il film non fu introdotto a suo tempo nel nostro circuito distributivo; lo si vide molti anni dopo sul piccolo schermo col titolo Nella polvere del profondo sud e ad una odierna revisione conserva in buona misura la forza del romanzo, seppure ne traduca l’impervia scrittura nelle forme più piane di una narrazione classica.

Al periodo del muto appartiene invece il film di cui ci occupiamo ora, The Trail of ’98, da noi a suo tempo presentato con un titolo più enfatico, La sete dell’oro, con un occhio perciò al titolo del capolavoro di Chaplin, La febbre dell’oro (1925). Non stupisca l’attenzione puntata su quest’opera muta di Clarence Brown, noto soprattutto per la sua filmografia sonora. A tal proposito Kevin Brownlow (1980) ricorda che «alcuni dei rispettati registi della storia del cinema, fra cui, appunto, Brown, sono noti per i loro più importanti film sonori. Ma fu negli studios dell’era del muto che cominciarono e fecero il loro apprendistato; e fu nei loro film muti che espressero per la prima volta il loro attaccamento alla tradizione americana».
Della conquista dell’oro di cui parla il titolo italiano del film, alla cui ricerca, a cavallo del Novecento, si mossero turbe di coraggiosi o disperati verso l’Alaska, dove speravano di poter arricchire, si favoleggiava come di un traguardo facile da conseguire, ciò che costituiva una ragione sufficiente a giustificare la collettiva migrazione verso l’ignoto che il viaggio verso il Nord comportava. Non furono solo gli “esclusi” a tentare l’avventura, perché fra loro c’erano anche giornalisti, intellettuali e scrittori. Fra questi ultimi Jack London, che da questa esperienza trasse motivo per alcuni racconti spesso memorabili, come Preparare un fuoco, dedicati a vicende di cui furono protagonisti quelli che possono considerarsi gli ultimi pionieri di un’altra frontiera, quelli cioè «che andarono in cerca della loro eredità e lasciarono le ossa tra le ombre del circolo polare».

Lo scenario che fa da sfondo a questa narrativa, come riferisce a proposito di un’altra opera di London (A Daughter of the Snows) Maxwell Geismar (1963), «brulica di re delle pepite, di avventurieri, fuorilegge, spostati, filibustieri provenienti da tutte gli angoli del mondo», una scena che «introduce alla vita delle sale da ballo con le loro donnine e i loro giocatori d’azzardo; nella strana democrazia della frontiera del Nord con i suoi estremi di fantastica ricchezza, conquistata in una notte, e di rovina, sofferenza e morte, tra la società mista di minatori, commercianti, guide, furfanti, cacciatori, trappolisti e poliziotti, nel crogiolo e nell’accozzaglia di diverse nazionalità, dagli americani ai russi, agli scandinavi, agli indiani, agli esquimesi e ai mezzo-sangue».

È lo sfondo che ritroviamo nel film di Clarence Brown, ma anche in altri dedicati alla corsa all’oro, talvolta in tono semiserio (Pugni, pupe e pepite, ad esempio, North to Alaska di Henry Hathaway, 1960). Fra cui si erge, capolavoro assoluto, il citato La febbre dell’oro, che riassume tutti questi motivi mostrandocene il feroce risvolto nella chiave comica del grande Chaplin. Molti elementi figurativi di questo film ricorrono in The Trail of ’98 di quattro anni dopo, principalmente nella descrizione della vita del villaggio collocato alle falde di monti perennemente innevati, popolato dai cercatori e avventurieri d’ogni risma. Ma anche, come s’è prima accennato, da esponenti del ceto medio molti dei quali s’erano lasciati alle spalle una vita dalla quale tentavano di fuggire.  
«Pensi di aver passato l’inferno, una volta che sei arrivato qui», dice un vecchio rivolgendosi ai nuovi arrivati, «ma aspetta di starci sei mesi, e vedrai». Una dichiarazione amara e disincantata di chi ha avuto tutto il tempo di ripensare con scetticismo l’avventura dell’oro, dopo aver vissuto in condizioni al limite della sopportabilità e della sopravvivenza. Il vecchio cercatore può raccontare nella sua veste di testimone la storia della fine delle illusioni, di un miraggio deluso, quello stesso inseguito dai tanti neofiti che si apprestavano ad aprire un nuovo capitolo della loro vita nel gelido e inospitale (presunto) “paese della cuccagna”.

Clarence Brown, che aveva maggiore confidenza con le vicende dei sentimenti e con gli intrighi della passione, si trova combattuto ora in questa operazione per lui insolita fra l’esigenza della autenticità e le regole imposte da una concezione del cinema poco propensa a raccontare le lacrimae rerum. Fra queste due strade egli sceglie una via di mezzo, il modello del film di avventure, com’era prevedibile, che gli assicura un buon margine di manovra per una descrizione che a poco a poco si rivela sorprendentemente vicina alla realtà storica. Seguendone l’impianto narrativo può lasciar emergere, fra un difficile passaggio a guado o nel corso di una faticosa marcia per stretti e accidentati sentieri l’aspro sentore di verità che si sprigiona da una rievocazione, a metà strada fra realtà e finzione, procedendo nel classico racconto d’avventure scandito nelle cadenze di una sorta di epopea popolare. 

L’incipit del film è un quadro variegato di episodi ispirati alla insorgente “febbre dell’oro” che si diffonde come un’epidemia in tutti gli States. Un battello – siamo nel 1897 – sbarca a San Francisco e uno dei viaggiatori diffonde la buona novella: enormi giacimenti di oro scoperti in Alaska e lungo il fiume Klondike aspettano chi voglia estrarne le pepite di cui sono colmi. GOLD KLONDIKE ALASKA a caratteri cubitali “commentano” i diversi siparietti ispirati a tale situazione, ciascuno dei quali riassume uno spaccato di vita popolare: non senza qualche intermezzo comico, come quello della moglie che bastona il marito per aver ripetuto nel sonno «Alaska!», da lei scambiato per il nome di una donna; o quello di un ragazzino, precoce avventuriero, che si nasconde sotto il vagone di un treno per salirvi di nascosto al momento della partenza per il Nord, ma viene scoperto dal controllore col quale stringe però un’amicizia destinata a durare nelle desolate e gelide terre del Nord. In questo clima di euforia vano è il tentativo dei pochi che cercano di ridimensionare le rosee previsioni alimentate dalla bella notizia, mettendo in guardia su un’avventura carica di incognite.
Nella sua prima parte il film segue un andamento dominato da scene corali, rivolgendo poi l’attenzione sui diversi personaggi scelti fra i tanti che affollano la scena e in particolare su quelli che si accamperanno come protagonisti: la giovane Berna (Dolores Del Rio, il cui volto incantevole ha l’appropriato rilievo grazie alla sapiente fotografia di John F. Seitz) imbarcatasi sulla nave con il nonno cieco (l’attore stroheimiano Cesare Gravina) alla volta dell’Alaska. A bordo salirà poco dopo, come clandestino, Larry (Ralph Forbes), e l’incontro con Berna farà scoccare il classico colpo di fulmine.

Il film assume una sua consistenza, che ne fa l’attendibile resoconto di una fase significativa della storia americana, nelle scene, e sono molte, di netto carattere “documentario”, fin dalle prime relative all’imbarco degli aspiranti cercatori d’oro, la cui composita umanità è “censita” dalla lunga carrellata – da destra a sinistra – che inquadra in successione le cabine in cui si sono ammassati. A bordo, come s’è detto, non mancano avventurieri e biscazzieri la cui disonestà ben presto ha modo di conoscere Larry, preso in trappola da uno di loro, Locasto, un losco personaggio che avrà poi un ruolo decisivo nella storia (Harry Carey, attore fordiano per eccellenza, ora in un ruolo ben diverso da quelli che soleva affidarli il grande regista del western). A bordo si verifica di tutto, da episodi di lussuria ad altri maturati nell’antipatia che si manifesta fra i viaggiatori per i più diversi motivi: a farne le spese, come s’è detto, c’è Larry che fra l’altro ingaggia con Locasto una lotta destinata a proseguire poi con quella definitiva che lo vedrà finalmente vincente.

Se l’entusiasmo domina a bordo della nave fra i viaggiatori, lo sconforto, appena dissimulato da una tenace speranza, si profila quando sarà necessario superare tanti e imprevedibili ostacoli che si presentano nell’attraversare paesaggi tanto maestosi e suggestivi quanto infidi nel loro percorso accidentato. Il candore delle nevi è accecante, il gelo mette a dura prova la capacità di resistenza di tutti, sicché i più deboli sono destinati a soccombere: il nonno di Berna infatti cade stremato dalla fatica e dopo un’affrettata cerimonia funebre, la nipote ‒ che d’ora in poi potrà fare affidamento soltanto su Larry ‒ riprende il cammino sbarrato prima da una valanga, poi dal temibile e insormontabile Chilkoot Pass, che è sul punto di vanificare la protervia e la capacità di resistenza dei cercatori d’oro sempre più esausti, che vedono sfuggire loro una meta che l’accumularsi degli accidenti ha reso quasi evanescente: tanto che qualcuno si chiede se sia o meno il caso di proseguire la marcia. Brown spegne i momenti più drammatici del viaggio con alcuni intermezzi comici, come quello dell’assalto degli insetti, causa anche di maliziosi equivoci o come quello che ha per protagonisti due taglialegna, uno dei quali cerca invano di alleggerire il carico del proprio lavoro a spese del compagno.

Qualche decennio dopo la realizzazione del film la storia narrata sarebbe stata vista come uno dei tanti esempi del cosiddetto american dream secondo Norman Mailer, un motivo riproposto come tema conduttore di tante vicende ispirate alla tenacia, alla perseveranza di quanti fra mille sforzi tentarono di conquistarsi il proprio “posto al sole”. Sebbene Brown dovesse attenersi all’ottimismo di maniera imposto dalle leggi dell’happy end, non potette nascondere, con apprezzabile adeguamento alla realtà, di che lacrime e sangue tale “sogno” grondasse. Un ottimismo di facciata, perciò, quello che è sottinteso dal film, in antitesi con lo sguardo disincantato e senza schermi di sorta con cui esso, nella sua parte migliore, rappresenta il drammatico, eterogeneo epos popolare, autentico mito della storia americana.
«Ce l’abbiamo fatta», dice esultante Larry a Berna appena giunti a destinazione, credendo conclusa la parte più dura dell’impresa: ma il suo entusiasmo è subito “corretto” dallo scetticismo di un vecchio di Dawson City ‒ capoluogo del Klondike nonché città simbolo della corsa all’oro ‒ il quale rivela agli audaci cercatori la difficoltà di trovare il prezioso metallo: solo a pochi fortunati ciò accade. Ma tutto questo non basta a spegnere l’entusiasmo di chi ha percorso e finalmente concluso un itinerario irto di pericoli e di trappole.

A questo punto il film ha concluso la sua parte più rilevante. Dopo aver abbandonato il suo motivo conduttore rivolge l’obiettivo verso la storia di Berna che, con la subdola intermediazione di una mezzana, cade nelle grinfie di Locasto, di cui diventa l’amante durante l’assenza temporanea di Larry, partito per procurarsi una concessione mineraria (concessione il cui iniziale diniego sarà motivo di una movimentata scena in cui viene messo a soqquadro l’ufficio). Tutto si ricomporrà al suo ritorno, nonostante l’amara sorpresa di ritrovare Berna in un saloon affollato di ubriachi che cercano di spassarsela in ogni modo. Ne segue uno scontro con Locasto, che morirà fra le fiamme sprigionatesi da un lume.
Ma a scongiurare del film una lettura nella chiave della virgiliana auri sacra fames come motore della storia, Clarence Brown devia verso l’apologo rassicurante riassunto nella battuta finale del vecchio Jim (Russell Simpson, altra icona fordiana): non è l’oro in sé quello che conta ma il piacere di cercarlo (e trovarlo, sarebbe stato il caso di aggiungere!): un finale che enfatizza uno dei motivi centrali della mitologia americana, sempre cara al cinema “ufficiale”, nei cui confini Brown sostanzialmente si muove.

Si diceva della natura duplice del film: da un canto sequenze al limite del documentario, dall’altro la storia sentimentale di due personaggi, quelli che si impongono man mano che esso procede. La struttura ‒ in parte assimilabile nella prima metà ad una docu-fiction ‒ aveva sul finire del muto alcuni altri esemplari di rilievo nel cinema americano: si pensi ai film di Ernest Schoedsack e Merian Cooper (Grass, 1925, Chang, 1927), avvio ad un nuovo genere che di tanto in tanto viene riproposto ancora oggi (non potremmo farvi rientrare anche il recente Vita di Pi di Ang Lee, 2012). L’abile regia di Clarence Brown cerca di superare i limiti del film amalgamando con naturalezza e fluidità narrativa le sue due anime e raggiungendo il risultato più felice, come s’è detto, nel grande affresco corale, che ci restituisce efficacemente una fase importante della storia sociale americana, gli ultimi capitoli della quale erano un ricordo abbastanza recente sul finire degli anni Venti, quando The Trial of ’98 veniva girato.


Bibliografia

Brownlow K. (1980): Hollywood. L’era del muto, Garzanti, Milano.

Corliss R. (1983): Greta Garbo, Milano Libri, Milano 1983.

Geismar M. (1963): Il romanzo in America. Ribelli e antenati, il Saggiatore, Milano.

London J. (2007): Preparare un fuoco, Mattioli, Fidenza 2007.


Filmografia

Nella polvere del profondo sud (Brown 1949)

La febbre dell’oro (Chaplin 1925)

Pugni, pupe e pepite (Hathaway 1960)

Grass (Schoedsack e Cooper 1925)

Chang (Schoedsack e Cooper 1927)

Vita di Pi (Ang Lee 2012)