«Tutto comincia in immagini...bei desideri, dolci e violenti come le falci, nell'erba tenera che arrossa...»
(Paul Éluard)

«La prima immagine di Nana di schiena è la prima idea che ho avuto. Non sapevo assolutamente che cosa avrei fatto in questo film: avevo due pagine di sceneggiatura che descrivevano grosso modo il film così com’è. Avevo un’unica idea molto precisa…era che la prima inquadratura sarebbe stata lei vista di schiena. Per quale motivo, sarei del tutto incapace di spiegarvelo»

Tutto nasce da un’immagine o dall’idea di un’immagine, l’epifania del logos è intorno ad essa, dal principio. La costruzione della dialettica è affidata all’immagine, cos’è un’immagine se non narrazione? Racconto dello sguardo di un momento, storico, sociale, politico, ma anche emozionale; un battito di ciglia che racchiude l’architettura di un attimo proiettato sulla bianca palpebra oculare, lo schermo su cui scorre la vita. La parola e l’immagine, ma anche la parola è l’immagine. Perché il linguaggio, secondo Godard, “non ha bisogno di parole”.

Un Addio al linguaggio, celebrato nel suo film precedente, per dare spazio all’immagine, un’immagine palpitante e sanguinante, che si offre allo sguardo inondata di luce e di colore, deformata, sovraesposta, irreale e surreale, ma allo stesso tempo reale e concreta. L’immagine frammentata, discontinua e privata di un contesto narrativo, violata, manipolata e nuda si offre allo sguardo raccontando la sua storia. La manipolazione avviene attraverso il montaggio, intervenendo direttamente sulla pellicola, tagliando e rimontando, in un atto di creazione. Il gesto creativo è, quasi, divino, non a caso, forse, il film si apre con un dettaglio estratto dall’opera di Leonardo, del 1513, il San Giovanni Battista, con il dito proteso verso il cielo. La creazione è affidata alle mani, costruttrici di una linguistica che sostituisce la parola, in uno sconfinamento che investe tutti i sensi, lo sguardo e il tatto si fondono per dare vita a un linguaggio che passa attraverso i palmi, le dita, la gestualità della ramificazione tattile, l’unica glossa. Nelle opere di Godard la mappatura della comunicazione è affidata sovente alle mani; dalle prime opere sino agli ultimi lavori, la mdp è fissa sulle estremità umane che mettono in contatto l’uomo con il suo vicino più prossimo e con il resto dell’universo. Mani bloccate in una stretta orgasmica ai polsi, come in Une femme mariée (1964), mani che agognano un contatto, in uno sfioramento, come quelle di Alain Delon e Domiziana Giordano, in Nouvelle Vague (1990), o in La Chinoise (1967), dove alla domanda “cos’è la parola?” la risposta appare quantomai rivelatrice del credo del regista francese “la parola è ciò che si tace”, perché “più noi parliamo e meno le parole hanno un significato” (Vivre sa vie, 1962).

L’immagine godardiana è dipinta, in bilico tra le opere di Nicolas De Staël e la violenza dei colori di Emil Nolde. Il dialogo tra De Staël e Godard è un dialogo sempre aperto, tra il sanguigno dei rossi scarlatti e il gelo mortifero dei blu, sul viso di Ferdinand Griffon (Jean - Paul Belmondo) in Pierrot Le Fou, così in sintonia con Méditerranée, Le Lavandou, del 1952, il pittore è citato e omaggiato palesemente in Adieu Au Langage e prima ancora in Histoire(s) du cinéma.

 Un poeta dell’immagine De Staël, come lo è Godard, un animo sensibile, suicidatosi a soli quarantuno anni, alla continua ricerca di una vertigine in cui smarrirsi: “La vertigine io l'amo. E la voglio, a tutti i costi, ma che sia grande”. I suoi lavori, definiti ora come “astrattismo lirico”, ora come “espressionismo astratto”, per il vigore dei colori e per la stratificazione dei materiali, densi, vivi e materici, sono “folgoranti”, come scrisse Emil Cioran in un articolo dedicato all'artista dopo la sua scomparsa. Oltre la vertigine, in cui precipitare e smarrirsi, quello che accomuna il pittore al regista è la continua ricerca di un rinnovamento, come De Staël scrive, nel 1954, in una lettera a Jacques Dubourg. L’astrattismo di De Staël è lo stesso della forma filmica dell’ultimo Godard; in Le Livre d’image, il regista porta in scena il suo diagramma filmico, attraverso il montaggio, azione cinematografica primaria e chiave della sua recente, ma non solo, linguistica, con cui l’immagine costituisce un testo a sé, rimontata, ricolorata e rielaborata, sino a renderla così reale e, al contempo, così surreale. La grana si dipana, i colori si sgranano, sino a (con)fondersi tra loro, proprio come avviene nelle tele di Emile Nolde, paesaggi che debordano nell’onirico, con ampie pennellate di colori saturi, quasi fluorescenti, il giallo si scioglie nell’azzurro, e, nel gioco di contrasti così amato da Godard, il blu si macchia di rosso, nel sogno di una terra che sta perdendo il suo paradiso, come nella scena del sultanato di Dofa.

Ti ricordi ancora come allenavamo il nostro pensiero? Il più delle volte siamo partiti da un sogno…Ci siamo chiesti come nell’oscurità totale potessero nascere in noi colori di una tale intensità. D’una voce morbida e debole che diceva grandi cose, cose importanti, sorprendenti, profonde e giuste. Immagine e parola. Sembra un brutto sogno scritto in una notte tempestosa. Sotto gli occhi dell’Occidente i paradisi perduti. La guerra è qui…”, questa è la sinossi di Le livre d’image, presentato nel corso dell’ultima edizione del festival di Cannes, suddiviso in cinque capitoli, esattamente come le dita di una mano. La voce del regista guida il dipanarsi della materia filmica, le sue dita sono intente nel montaggio di una pellicola, nella composizione dell’immagine, in un atto reale e tattile, concreto, sino al taglio dell’occhio bunueliano, scena dalla forte matrice rivoluzionaria. Perché il cinema per Godard è, anche, un gesto politico, è l’anarchia dello sguardo al potere, il linguaggio che deraglia verso un oltre, in una dialettica astratta, ma contemporanea, moderna e realistica, perché nuda.

Si parte sempre dal mistero dell’immagine, capace di raccontare la realtà e la sua astrazione, disegnandone il sogno; c’è la guerra, mostrata attraverso un filmico rimontato, dipinto, film e video, tutto teso a mostrare un mondo, il nostro, in fiamme, in disfacimento, quasi in putrefazione. Un cadavere, che di squisito non ha più nulla, è solo un brulicare di odio, rabbia e rancore tra gli uomini. La guerra non è poi così distante, riguarda tutti, perché dove arriva lo sguardo là arriva anche la colpa, non bisogna chiudere la palpebra mantenendo, volutamente, lontano ciò che non tange personalmente. La guerra e la rivoluzione, l’immagine e la parola (sottotitolo del film), un dualismo direttamente proporzionale, la parola, affidata all’immagine, porta in scena l’esplosione impietosa e l’orrore della guerra, la rivoluzione è l’immagine. Lo spazio e il tempo debordano, perdono qualsiasi connotazione fisica, il suono è una mescolanza, un sovrapporsi di voci, musiche e sinfonie che si uniscono alla voce di Godard. E poi un archivio di immagini che da un lato includono la vita privata del poeta/regista, come quella che ritrae lui da bambino, ma anche estratti dalle sue opere precedenti, come Le Petit Soldat (1963). Infine omaggi e citazioni a quelli che hanno accompagnato la crescita del regista, coloro che sono, forse, i numi tutelari del maestro della Nouvelle Vague, da Rossellini a Vigo, passando per  Ray e Tourneur, e ancora Straub, Renoir, Buñuel, Ford e Hitchcock, per citarne solo alcuni.

La strada di Fellini con il volto di Giulietta Masina, in un primo piano strettissimo, lascia la scena alle fiamme del suo Weekend e ancora Giuditta che decapita Oloferne, di Artemisia Gentileschi. E infine l’ultimo capitolo, il quinto, dedicato al mondo arabo, il più lungo. La messa in scena della violenza e della bellezza, le tensioni nel contrasto e nella brutalità della rappresentazione, perché “le melodie non devono essere identiche. Nell’armonia gli arrangiamenti producono la melodia”. Ma cosa si nasconde tra un’immagine e l’altra? Forse sono queste zone di passaggio, sconosciute, abitate da fantasmi ad interessare ancora e realmente il regista, ciò che si cela all’occhio e che vive tra il bianco e il nero, in una interzona cieca.

È ciò che si vede nel sogno e ci si chiede spesso come nell’oscurità i colori possano emergere con così tanta intensità, forse loro sono il prodotto della nostra conoscenza della luce. Come sottolineava Bazin, “l’immagine conta prima di tutto non per ciò che essa aggiunge alla realtà ma per ciò che ne rivela”. 

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