Massimo Causo

minerviniLa disciplina dell’indifferenza nutre e organizza il senso dell’esserci del dodicenne protagonista di Low Tide, nemmeno un nome per nominarlo, ma non di meno una presenza forte e contraddittoria nella sua evidente fragilità infantile. Minervini gioca la carta della sua lampante solarità per ricoprirla della polvere della periferia suburbana, disegnando questo ragazzino come un contrappunto in fuga dall’iconografia metropolitana degli skeaters alla Van Sant, per esempio. Non c’è identità, per questo ragazzino, la sua soggettività appartiene solo all’indifferenza di cui è oggetto e alla quale lui risponde nella disarmonia delle mille attenzioni di cui ogni suo atto è espressione. La sua comunicazione silenziosa è fatta di gesti di comunione, di riparazione, di armonizzazione. La verità affettiva di cui riveste l’indifferenza della madre è fatta di esperimenti che occupano la distanza: dormire nel letto che ha preparato per i pazienti dell’ospedale in cui lavora, assaggiare di nascosto il cibo che lei sta mangiando, lavare le sue lenzuola...


Il contrasto che Minervini ricerca sin da subito è quello di un agire che contraddice l’identità stessa del suo piccolo protagonista: da un serpente in genere si fugge, e invece lui gli si avvicina e ci gioca; il ghiaccio lo si prende dal frigorifero, lui invece ce lo mette; un ragazzino è accudito dalla madre, lui invece si prende cura di lei quando torna a casa ubriaca... La sfera affettiva del film si definisce nello scarto tra presenza e assenza di una figura materna che diviene essenziale in quanto soggetto altro rispetto all'isolamento del ragazzino. Minervini procede per pedinamenti in sospensione tra accudimenti e accadimenti che si connettono con la presenza dispersiva della madre, figura vaga e anaffettiva perfettamente congrua rispetto a grado zero dello scenario reale in cui si muove. Hanno ragione gli amici di «Filmcritica» (cfr. il numero 629) a evocare l’Edmund di Germania anno zero, perché Minervini visualizza un quadro fatto di macerie che inglobano il suo piccolo protagonista. Ma poi c’è anche quel mare sul quale si accende il finale, quella spiaggia sulla quale il ragazzino corre e ride assieme alla madre, che fa venir voglia di pensare a Antoine Doinel, al suo calvario di identità infantile decostruita nell’indifferenza parentale. Vero è che Minervini ha una permeabilità strana rispetto al “dramma” del suo protagonista, sembra fidarsi di lui, della sua verità interiore che supera in plasticità umana la cospirazione di indifferenza che lo circonda. Questo ragazzino parte dal ghiaccio, nel quale si rotola in cerca di refrigerio, e finisce nel mare, nel quale si bagna in cerca di calore.