punzoLa stagione teatrale del Kismet OperA di Bari si è aperta lo scorso 26 ottobre con Hamlice, lo spettacolo scritto e diretto da Armando Punzo e messo in scena dalla Compagnia della Fortezza. Dal 1988, gli attori-detenuti del carcere di Volterra portano “fuori” storie e personaggi per invertire i tempi, rifondare gli spazi e immaginare altri confini. Una vera e propria rivoluzione che attraverso i testi letterari passa per il teatro, sovverte la lingua e le forme, per provare a immaginare possibilità altre di sottrarsi a un ruolo definitivo, scritto per sempre.
Partendo dall’Hamlice, abbiamo discusso con Armando Punzo di queste possibilità, di come i corpi degli attori divengano altro nella contaminazione infinita con il mito.


Il titolo Hamlice fa subito venire in mente i giochi di incastro di Jabberwocky, una parola macedonia che è il risultato di una contrazione tra Hamlet e Alice. Chi dei due fugge dal proprio castello per andare incontro all’altro? Visto che sia il regno di Danimarca che il mondo al di là dello specchio sono posti dove sembra non esistere possibilità di scelta circa il proprio destino.

L’inizio del percorso è l’Amleto. Tutti i personaggi all’interno del testo hanno una capacità di decidere di non partecipare più allo spettacolo, di non prestarsi più alla rappresentazione dell’Amleto per il pubblico. Nei secoli le tante rappresentazioni dell’Amleto sono state guardate e recepite dagli spettatori, ma allo stesso tempo lo spirito di questi personaggi ha visto e studiato l’essere umano e si è reso conto che fondamentalmente non è cambiato molto: la storia si ripete. Quindi abbiamo ipotizzato che lo spirito di questi personaggi dovesse trovare una soluzione per i personaggi stessi, senza più preoccuparsi dell’umanità. Per questo tutti i personaggi emigrano, non vogliono più stare all’interno dei ruoli che sono stati scritti per loro.
Nell’Amleto shakespeariano si spiano tutti, muoiono tutti. Non possiamo certo dire che sia una bella storia… Noi ci siamo resi conto che lavoriamo in un castello che è una fortezza medicea; per questo non potevamo più rimanere all’interno di quella storia e abbiamo cominciato a ipotizzare personaggi che mutassero, che si trasformassero, che leggessero. È come se fossero all’interno di una biblioteca: escono dall’Amleto ed entrano in altri testi, trovano altre parole, altre situazioni, altri personaggi: cercano cioè di essere completamente altro da sé dimenticando, negando la propria storia, la propria individualità, il proprio ruolo.

A proposito di questo, c’è una lunga tradizione di manomissioni della tragedia shakespeariana, un lavoro di destrutturazione che peraltro si percepisce chiaramente anche nel tuo lavoro che attraversa Laforgue, radicalizza gli Amleti di Carmelo Bene… questi sono stati dei termini di confronto reali o semplicemente un input per i tuoi lavori?

È impossibile non conoscere, facendo la riscrittura scenica, questi autori. È interessante che Laforgue, a cui Bene si è rifatto, abbia ipotizzato un Amleto che non si preoccupa più di vendicare. Però bisogna anche pensare a un’altra cosa: Shakespeare stesso si è rifatto a delle fonti. Per me l’Amleto è tutta una questione di fonti che si intrecciano, è una scrittura mitica. Per questo è interessante lavorare con i classici: diventano mito e vengono riconosciuti anche da chi non ha mai letto un testo o non va mai a teatro.
Quindi direi, per tornare anche alla domanda precedente, che il movimento di intreccio delle fonti va dai vari Amleti verso Alice.

Mi riallaccio a questo discorso sul mito per chiederti se oltre all’Amleto non ci sia anche molto del Pinocchio beniano…

Io non ho mai visto nessuno degli spettacoli di Carmelo Bene. I riferimenti se ci sono, non sono pensati. Non c’è stata nessuna influenza diretta con il suo teatro.

… Ma è presente una disarticolazione marionettistica del corpo nella resa dell’incompiutezza della forma, una forma che è eternamente perfettibile, riscattabile, di vite da vivere. I tuoi personaggi sono la manifestazione dell’errore, possiamo dire, esseri umani troppo umani, bestiali e angelici allo stesso tempo. Aggregati di materia e di spirito. E questo è proprio un filo rosso nella cultura occidentale (da Platone a Schopenhauer e Nietzsche); la libertà pare una cosa impraticabile fuori dalla finzione quindi, ti chiedo, se c’è una salvezza possibile, è nel restare legati ai fili della finzione? O ancora meglio: che percezione hanno i tuoi attori del Fuori, quando portano la prigione nel mondo?

A noi interessa negare la prigione, non perché si è detenuti o perché si vive la condizione oggettiva di essere delinquente e quindi anche detenuto. Questo è un fatto contingente che appartiene alla biografia delle persone, il problema enorme è come fare ad eliminare le prigioni che ci sono dentro ed è straordinario che il carcere diventi metafora di questa impossibilità dell’essere umano di essere libero. Nel carcere si manifestano tutte le contraddizioni più terribili e più meravigliose dell’essere umano: quelle persone che hanno commesso reati terribili allo stesso tempo fanno delle cose meravigliose. Si vive a contatto con dr Jekyll e Mr Hyde che hanno coscienza di essere stati in un modo, ma poi scoprono di essere anche tanto altro.
Più che portare la prigione fuori, si prova a portare quella che è una riflessione sull’uomo nel tentativo di trovare una libertà all’interno del linguaggio e di un altro tempo, che è il tempo del teatro ed è diverso da quello ordinario. Ci si dà la possibilità di sostituire la vita in scena con la scena della vita ordinaria. Questo è un lavoro che facciamo scientificamente: come fare a trasformare il carcere in un teatro. Ridurre il più possibile il tempo in cui uno vive nel tempo ordinario. Non come fuga, non per sottrarci: il teatro non distrae, ma dà più possibilità nell’arco del giorno di invertire i termini tra realtà e finzione.
Ma questo vale anche se usciamo dal condominio-carcere e andiamo nel condominio a fianco: non credo che lì ci sia la libertà e qui la prigionia.

Parliamo meglio del tentativo di rompere con il linguaggio (penso alle lettere gettate dagli spettatori, alla decostruzione dello spazio, alle voci amplificate). Le vere strutture che imprigionano sono delle costruzioni linguistiche? Così come la colpa, il giudizio, l’espiazione della pena possono essere considerate come una gabbia nella quale e attraverso la quale si cerca di decodificare la vita?

Quello delle lettere è un tentativo di rimettere tutto in discussione. Noi siamo evidentemente prigionieri del linguaggio, siamo in-formati dalle comunicazioni e a tutti i livelli. Però al di là della parola c’è un limite oltre il quale sembra impossibile andare: spingersi in questo limite potrebbe suonare come una straordinaria libertà dell’essere umano, ma a me sembra che suoni tante volte come una prigione. C’è un tentativo nell’Hamlice di dire: lo spirito dei personaggi distrugge tutte le parole all’interno di quel testo, le fa a pezzettini per riformare altre parole. Questa era un’ambizione del nostro lavoro: riscrivere con le stesse parole di Shakespeare tutta un’altra storia con un altro finale e altre finalità. Questa era l’utopia del nostro lavoro. Quando si fa questo, anche se è doloroso, c’è una possibilità di trovare dell’altro. Cosa ci resta altrimenti? Essere inconsapevoli di tutto stando all’interno del linguaggio e della struttura che ci siamo costruiti, senza porci nessuna domanda, nessun pensiero che metta in discussione questo. Ma sarebbe, a pensarci bene, anche quella una grande possibilità…

Quella che chiami “utopia” a me sembra un risultato assolutamente centrato, soprattutto rispetto al ruolo dello spettatore. C’è una specie di contrasto tra interno ed esterno: i personaggi attori che portano fuori un mondo interiore da un lato, e dall’altro gli spettatori che arrivano dall’esterno e vengono investiti da altre storie, altre vite e altri mondi. Le figure di questo mondo interiore, chiuso al reale (nel senso che ha a che fare con un’interiorità diversa da quella a cui siamo abituati), ma spalancate su delle potenzialità altre, non accolgono lo spettatore, ma lo scrutano, lo seguono fin dentro la scena delle sue inquietudini in un percorso di allontanamento dal mondo conosciuto e rassicurante. A quegli sguardi non ci si riesce a sottrarre nemmeno fingendo di non vederli: lo spettatore vive una specie di storia rovesciata, come se fosse ostaggio di quegli occhi e avesse un ruolo lui da prigioniero, in un mondo capovolto in cui il teatro diventa quel fuori che non siamo abituati a vedere, che non vogliamo conoscere.

Sarebbe straordinario vivere sul limitare di un luogo e poter condividere con il pubblico tutto questo. C’è questa cosa dei personaggi che non si vogliono più prestare a degli ammiccamenti con il pubblico. È una riflessione difficile da applicare a qualsiasi lavoro, in questo caso era una possibilità: i personaggi vivono la loro storia e il pubblico percepisce che forse c’è una possibilità per condividere un tempo altro, partecipando a mandare all’aria tutto.

Come sai «Uzak» è una rivista di cinema. Inauguriamo la sezione dedicata al teatro proprio con i tuoi lavori, perché qui ci sembra ci sia un contrasto molto interessante tra potere e potenza. Quando la fisicità dei gesti esonda rispetto al dire, è come se il movimento dei tuoi attori tracciasse delle traiettorie che cancellano le storie private in cui l’io mette in atto un processo di minorazione in potenza. Contro il potere della reclusione è come se ci fosse la potenza di una minoranza in atto, di una minoranza che non si vede e di cui non si parla se non in maniera distorta. Sono figure senza potere, ma con la coscienza fortissima di un corpo che afferma di essere vita e movimento e allo stesso tempo proietta delle visioni. Questo espediente tecnico è molto cinematografico e tu ne fai grande uso con la sovraimpressione delle immagini, dei volti sui corpi, con la reinvenzione di uno spazio e di un tempo della percezione. Ci interesserebbe sapere se ci sono dei riferimenti cinematografici nel tuo teatro.

La storia è sempre storia della ricerca del Potere, per il Potere. Pensiamo alla nascita dell’arte, delle immagini, quanto si sono prestate alla manipolazione da parte del potere! È evidente che noi proviamo a minorare questa azione; a essere minori, ma non perdenti; minori, ma non minorati. Io non sono un grande frequentatore né di cinema né di teatro. Frequento i libri e il carcere. Ma non mi interessa il cinema perché rende tutto storielle, ingolfa l’immaginario.
Agli inizi della nostra storia avevo come riferimento il Neorealismo, ma poi cosa hanno combinato i Taviani con Cesare deve morire che con la scusa del neorealismo, una sorta di verità impossibile, mettono in scena la più grande bugia?
A me sembrava normale usare anche le tecniche della proiezione per avere altri corpi e altre voci, altre fisicità, contemporaneamente ai corpi in scena. Mi sembrava straordinario provare a ricreare le inquietudini del Novecento con chi non aveva accesso all’arte.

Quando si legge della Compagnia della Fortezza, ricorre con frequenza la definizione di ‘teatro inaudito’. È una definizione non nuova: la adoperò Decroux  per raccontare di uno spettacolo di Jacques Copeau. Quando Copeau si ritira in campagna con i suoi attori, rompendo con ogni forma di teatro allora nota, porta con sé un solo libro: la Regola di San Benedetto. Quando hai deciso per l’autoreclusione in carcere cosa ti sei portato appresso?

Non avevo un libro di riferimento, ma un clima, un pensiero: quello di rompere i confini. Forse tra vent’anni potrei capire qual è stato il libro iniziale senza averlo mai letto.
L’unico incontro è stato quello con l’umanità reclusa, un libro scritto sui corpi dei detenuti.