«Attraverso i piccoli buchi della maschera 
non vedevo niente, tranne che molto lontano e molto vicino […]
Il mio sguardo si posava su oggetti inerti e liberi
una finestra, una sporgenza, un angolo di cielo»
(Roland Barthes)

Definiremo la maschera come un dispositivo che provoca un’alterazione sintomale, meglio, una organizzazione seconda dei tratti del volto, necessaria per compiere un’operazione posta sotto il segno del segreto e del pericolo; per il tempo che viene indossata rende colui che ne fa uso un altro uomo, essere, entità.


Essa è sempre stata adoperata, dai primordi fino alla modernità. Per gli scopi della nostra analisi ne abbiamo rintracciate due. Definiremo la prima Maschera (con l’iniziale maiuscola): è quella dell’animale; la seconda maschera (minuscola) è, invece, quella dell’altro.
Niente di più diverso, in apparenza, da maschere siffatte: la prima è la maschera adoperata dall’uomo religioso che implica la credenza in un tempo ciclico e si inscrive in un rituale; la seconda è quella dell’uomo d’azione, impegnato in una catena di patimento e reazione e per il quale il tempo è rettilineo come la traiettoria di una freccia, o di una folgore: a un tempo sacro, forte, festivo seguirebbe un tempo debole e profano. L’ambiente dove opera il primo è onirico; quello del secondo, per dirla con Deleuze, è un prolungamento motorio dell’azione stessa: ben definito, attende «un’azione che la sveli o susciti una reazione che vi si adatti o lo modifichi» (Deleuze 1989, p. 16): ad un ambiente che si mostra come spazio esistenziale, discontinuo (a causa delle infinite faglie-chasmata attraverso le quali, grazie all’assunzione della Maschera, è possibile comunicare con il trascendente), simile a un reticolato di forze costruito ritualmente, si contrappone lo spazio entro il quale si muove il secondo, geometrico, omogeneo e vuoto (liscio, e quindi, letteralmente scivoloso: è il meccanismo ad orologeria dell’action, per il quale lo spazio “precipita”, si fa diruto e scaleno come in quelle pale medievali prospetticamente empiriche).

Per il primo, il mundus ha sempre un centro; per il secondo il mundus è, letteralmente, fuori dai cardini e precipita a causa di una qualche macchinazione. Per il primo, tutto ciò che può essere pensato, sognato e vissuto, esiste. Il secondo, letteralmente, crede solo a quello che può toccare: non a caso la fisionomia così dissimulata viene sfiorata, accarezzata, baciata.
La Maschera del primo è uno strumento che serve all’empatia e all’immersione; la maschera del secondo è uno strumento che viene utilizzato per l’inganno e la simulazione. La Maschera maiuscola può essere letta: è anche un oggetto, che si pone sul viso come una decorazione. La maschera minuscola può solo essere vista, ed è in virtù di questa evidenza pellicolare che trae in inganno: è una guaina.
La prima rimanda ad un fatto primordiale di carattere fondativo; la seconda all’esperienza, che rimanda ai primi anni di vita, del rapporto oggettuale.
La Maschera, è, infine, bisognosa di cure; la maschera, invece, una volta adoperata, viene gettata via, come fa il serpente con la pelle iridescente che lo aveva ricoperto (o come il chirurgo, che getta via il guanto dopo l’operazione).

Entrambe le maschere, quindi, sono i contrassegni operativi di due modi diversi di essere nel mondo.
Esse sono assimilabili a due linee rette, la prima in relazione al polo della morte, la seconda della vita.

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Lo sfondo di Maschera, è infatti, quello di una certa relazione con la morte e lo scheletro; nello stesso tempo la morte si rovescia nel suo contrario, la rigenerazione. Come racconta Eliade, infatti, gli sciamani sarebbero stati uccisi dagli spiriti dei loro antenati i quali, dopo aver cotto il loro corpo, hanno contato le loro ossa e, dopo averle messe a posto, le hanno legate con dei ferri ricoprendole infine di carne nuova. Lo scheletro (e il cranio), da simbolo della morte si rigenera e, in quanto deposito del midollo-sorgente di vita, si ricostruisce a piacimento.
Lo sfondo di maschera è, invece, apparentemente, quello della vita e delle sue relazioni, degli accidenti e di tutti quei valori variabili se sottoposti al gioco della visione “alla giusta distanza” e “ravvicinata” del corpo-superficie che definiamo incarnato.

«L’incarnato deriva dal rosso, vale a dire dal sangue materia per eccellenza, ma anche dallo sguardo, atto dello spirito e mezzo del desiderio […]. L’incarnato è d’altra parte caratterizzato dalle qualità tattili della pelle stessa, quali la grassezza e la tenerezza; come sappiamo è stato spesso chiamato voce della carne.» (Didi-Huberman 2008, p. 61)

Nello stesso tempo, anche l’incarnato rivela il suo lato opposto, e, quindi, mortifero, nel suo porsi come tessuto di viscere, esposizione della trama nascosta e, infine, residuo, resto inutilizzabile.
La Maschera troverà la sua applicazione a partire da una “galleria fotografica” immaginaria, che mette insieme alcuni pittogrammi dei primordi, un’incisione spagnola dal contenuto misterioso e alcuni frame del viaggio di Aby Warburg presso gli Hopi. La maschera in alcune sequenze dei film del regista John Woo1. La scelta del regista non è casuale. Infatti nei suoi film è anche presente l’elemento essenziale che vede la maschera saldarsi con l’elemento, serpentino, della danza e dei panni pateticamente mossi. Il risultato sarà la creazione di due direttrici su cui riconnettere l’atto del mascherarsi, il suo portato mitico, il suo spessore esistenziale e le diverse opzioni estetiche cui può dare luogo. Finale sarà l’utilizzo di una Tavola, dove saranno tentate inquisizioni di nuovo tipo, e Maschera e maschera saranno sovrapposte e invertite, fino allo scioglimento finale.

La Maschera animale

La Maschera maiuscola consente all’identità dell’individuo umano di fondersi con quella dell’animale attraverso un cerimoniale che comporta l’assunzione di un’interfaccia che riproduce una serie di contrassegni fissi e tipici in luogo di quelli accidentali, mobili e caduchi, del volto.

«In quanto individuo, è sottoposto a tutte le tribolazioni possibili e anche alla morte. In quanto tipo, appartiene ad una essenza mistica superiore, imperitura, indistruttibile, in forza della quale abbraccia in sé la molteplicità infinita degli individui della propria specie.» (Lévy-Bruhl 2013, p. 72)

Fra maschera e volto vi è una frontiera mobile; il costume è esso stesso una Maschera. Come spiega Eliade, «il costume transustanzializza lo sciamano trasformandolo, agli occhi di tutti, in un essere sovrumano, quale pur sia l’attributo predominante che viene al primo piano» (Eliade 2005, p. 191). La maschera, nelle regioni nelle quali si usa, attesta manifestamente l’incarnazione di un personaggio mitico.
L’arte primitiva sarà allora arte di forme frammiste. Ciò è particolarmente evidente nella celebre figura presente nella grotta detta dei Tre Fratelli, dove, nel miscuglio oscuro di una folla di animali, appare un uomo dalla testa di bisonte, itifallico, saltellante e danzante con in mano un arco musicale. Ma la grotta è celebre per l’inserzione di una seconda figura, che l’abate Breuil chiama “il dio dei tre fratelli” e Georges Bataille “l’uomo ibrido”. Si tratta dell’unica figura dipinta della grotta, prima incisa e poi colorata. Isolato dalla calca animale, ha le orecchie di un cervo e due grandi corna ramificate; l’organo genitale è accentuato: la maschera dei primordi comporta la nascita di un sentimento complesso e dualistico.

C’è un’incisione di Goya dal contenuto misterioso, sospesa fra la serie della Tauromaquia di cui costituisce l’ultimo “frame” e la serie successiva, detta Disparates. Al mondo ritualizzato e pericoloso della prima serie, segue l’orrore e la mostruosità della seconda. Al limite, nella “giunta” tra una serie e l’altra, il peculiare Modo de Volar di alcuni uomini mutanti che volteggiano su grossi deltaplani a forma di pipistrello; dalle ali spunta una testa di forma teriomorfa, che gli uomini volanti usano come maschera. È possibile che nell’immagine di Goya riaffiori il pensiero arcaico del cacciatore primitivo: i membri delle confraternite militari indoeuropee avevano come avatar animali da preda e si consideravano discendenti da un mitico Antenato Teriomorfo. Le iniziazioni militari implicavano sempre una trasformazione rituale in animale: divenire animale era il risultato di un antico rito guerriero di metamorfosi, il conseguimento di una nuova e più efficace capacità operativa.

«Rivestire la pelle di animale significa letteralmente divenire l’animale. L’uomo leopardo, allorché si avvolge nella pelle di leopardo, non è camuffato da animale, ma è effettivamente un leopardo, senza cessare di essere un uomo. Da quel momento egli ha l’istinto, la ferocia e la forza di un leopardo, qualità che immediatamente gli vengono a mancare se gli si strappa di dosso il rivestimento.» (Bruhl 2013, p. 181)

Da questi mitici antenati semi-umani, come attesta Lévy-Bruhl, nascono i gruppi totemici. Ecco quello che rappresentano gli uomini volanti nell’incisione di Goya: sono guerrieri-uccello che, attraverso la Maschera, hanno assimilato l’animale da preda2. Si procede dall’uomo all’animale; l’animalità è la destinazione finale dell’uomo: è l’uomo che si dissimula dietro la maschera animale, come negli antichi rituali sciamanici. Bataille aveva evidenziato molto bene i due termini del problema: da un lato il mondo animale, legato all’ordine intimo del mondo, dall’altro quello umano del lavoro, del pensiero e della regolamentazione dell’attività sessuale.


Il risultato è una composizione triadica. Nei due vertici bassi abbiamo la maschera maiuscola e l’agente, in minuscolo perché l’assunzione della maschera implica sempre una perdita di nitore mentale da parte dell’agente stesso. Il vertice è l’oggetto, che denomineremo ‘bucato’ poiché esso si compone come una superficie da attraversare e percorrere.
È Lévi-Strauss a raccontare un’esperienza di guarigione sciamanica, caratterizzata da una manipolazione psicologica dell’organo malato e della penetrazione degli spiriti ausiliari (i nelegan) dello sciamano all’interno del corpo della donna: il corpo cavo e i suoi recessi divengono la sede di una anatomia mitica e di una geografia affettiva (che identifica i punti di resistenza e di spinta) dove il mondo uterino è popolato di esseri fantastici (personificazione delle doglie), ostacoli materiali (fibre, sipari, corde, cioè le mucose dell’utero); all’impresa difficile lungo il canale dell’utero (o sentiero di Muu) segue la discesa e lo scioglimento finale3.

L’energia che circola all’interno del triangolo, assimilabile a un canale linfatico, è la libido, «ciò che lega il comportamento degli esseri tra loro e che darà loro ad esempio la posizione attiva o passiva» (Lacan 2007, p. 40). Il risultato è una sorta di composizione danzante dei tre termini.
La messa in scena di questo rapporto è quello che accade, ancora oggi, in un remoto angolo del New Mexico, nel mezzo di quelli che il viaggiatore occidentale descrive come altipiani massicci e rocciosi, assai estesi e stratificati orizzontalmente. Egli, lo studioso di paganesimo antico, osserva tutto. Osserva le forma delle case (con la scala che conduce sul soffitto) con gli interni accoglienti e spogli che custodiscono le ceramiche dalle complicate volute geometriche, la scopa di saggina e le bambole kachina, riproduzione fedele dei danzatori mascherati. Osserva le giovani native canefore, ninfe addomesticate (variante pueblo di quelle che aveva “fissato” in una delle Tavole del suo atlante, la numero 464) che si muovono ancheggiando indolenti con un recipiente di argilla sul capo. La prima danza alla quale assiste è quella delle antilopi, a San Idelfonso.
Si tratta di una danza di caccia, mimetica, che si basa su una misteriosa metamorfosi mimica e che ha bisogno del concorso simultaneo di due specie di danzatori, disposti in due file:la prima fila imita la postura degli animali, la seconda si muove sul posto, appoggiandosi a corti bastoni. Centrale è una figura femminile, che incarna la madre degli animali. Infilando la Maschera,

«i cacciatori si appropriano dell’animale in anticipo. Nella mimesi dell’aggressione […] nessuna finalità giocosa: si tratta di carpire magicamente alla natura, trasformando il suo essere, qualcosa che mai spererebbe di ottenere senza ampliare e modificare la sua condizione umana. In questa danza pantomimica l’imitazione è dunque un atto culturale, una perdita di sé, un consegnarsi fideistico ad una entità estranea.» (Warburg 1998, p. 29)
 
La Maschera permette al danzatore di entrare in connessione con il mondo animale, considerato come superiore (quella che Bataille definirà essere “l’animalità raggiante”).
Quindi assiste ad una seconda danza, di cui la prima era solo una preparazione (ma prima fotografa il vecchio cieco assiso su uno degli spalti rocciosi della piazza dove la danza verrà allestita) e si avvicina per osservare le maschere che, prima di essere utilizzate, vengono dipinte. A colpirlo è la loro spaventosa immobilità, i colori primari e la striscia bianca che taglia in diagonale la Maschera, sulla quale spiccano tre punti.

La danza kachina è una danza propiziatoria legata alle festività periodiche dei coltivatori che mostra decine di danzatori mascherati “in forma di bambola” che ruotano, in preda ad un movimento elementare che si traduce in monotone figure di danza, attorno a un pino nano adorno di penne, mentre i sacerdoti gettano sui danzatori farina consacrata. Al tramonto irrompono alcune figure che, come il fool nel teatro elisabettiano, si abbandonano ad una rozza parodia di quegli stessi movimenti5.
L’ultima danza il viaggiatore europeo non riesce ad osservarla di persona, ma si basa, per descriverla, su alcune fotografie6. La Maschera si riduce a un copricapo di piume intrecciate (tale da far pensare ad un uccello) e al colore che viene spalmato sul volto7: i danzatori e l’animale vivo formano una magica unità.
La danza mascherata hopi è “causalità danzata”. L’indiano oppone, all’oscura inafferrabilità dei fenomeni naturali, la volontà di comprensione, trasformandosi egli stesso, attraverso la Maschera e la danza, nella causa dei fenomeni stessi.

La Maschera è costruita per tenere a distanza la paura, e, nello stesso tempo, risponde a un segnale di allarme, ad una richiesta di aiuto: essa richiude l’agente in una sorta di cerchio, che da un lato mette al riparo, dall’altro rende permeabili.
Oggi, dice Warburg, l’uomo moderno «con il serpente di rame di Edison ha strappato il fulmine alla natura» (Warburg 1998, p. 65) e il fulmine è deviato direttamente a terra dal parafulmine. Oggi non abbiamo più bisogno di maschere che, con raffinate decorazioni, entrano in correlazione con l’elemento plastico del volto.
Nella contemporaneità si impone una maschera di diverso tipo, che, fatta “per il volto” ha la funzione di mascherare e di smascherare. È la maschera dell’altro.

La maschera dell’altro

In John Woo la maschera opera sui tratti del volto (pizzicati, accordati come le corde di uno strumento) che vengono declinati secondo quattro occorrenze: Calco (prelievo, sostituzione del volto proprio con il volto dell’altro), Dissimulazione (finzione, recita), Vertigine (volto spaventato o contratto durante un combattimento costituito da complicate volute – riappare il movimento danzato), Cecità (morte, il riconoscimento dell’altro non viene accolto). Loro lavorìo simultaneo. L’assenza della maschera (la sua polverizzazione) in John Woo è data dall’innamoramento. Ma anche questo può essere, ancora, una maschera. La struttura triadica analizzata in precedenza subisce quindi delle modifiche:

Alla maschera minuscola si contrappone, come vedremo, un agente maiuscolo. L’oggetto, infine, si comporterà come una superficie invece che come cavità.

La maschera minuscola è in un certo senso, un anti-ritratto animato e completamente superficiale, fedele fino all’allucinazione e alla lettera (è infatti, la porzione superiore del volto)8.

Ne La congiura della pietra nera (John Woo, Su Chao Pin, 2010) il chirurgo descrive minutamente le modalità operative dell’innesto: in un certo senso la maschera minuscola fiorisce a spese del volto proprio dopo il lavorio di alcuni insetti che divorano i tratti del volto, il taglio del bisturi e la ricucitura finale con un sottilissimo filo d’oro.

In Face/Off (1997) si trattava, invece, di adattare una sagoma morfogenetica, che internamente riproduceva il viso dell’agente, esternamente quello del villain Castor Troy.
In John Woo il mascheramento mette in crisi lo stabilizzarsi della realtà, la costituzione dell’altro in quanto tale, ossia in quanto parlante: è il calco.
Questo è molto evidente nella sequenza iniziale di Mission: Impossible II (2000): Vladimir Nekhorvich, biologo molecolare russo, è convinto di trovarsi di fronte a Ethan Hunt: si tratta in realtà del villain mascherato, che ne ha assunto le sembianze: l’oggetto è così sempre situato in una posizione pericolante, di angoscia e di dubbio.
Lo stesso accade in Face/Off: quando il villain si sostituisce al poliziotto e il poliziotto al villain, i rapporti personali di entrambi subiscono una serie di modifiche.
Ne La congiura la donna, dopo aver indossato la maschera, invece, paradossalmente “smette di fingere”: l’incognito è, in realtà, conquista della trasparenza e possibilità di abbandonare il passato, l’antica via della spada per la vita coniugale.

La maschera minuscola, implica allora in primo luogo una maggiorizzazione del ruolo dell’agente: se la maschera di John Woo è la testa dell’altro innestata su di sé e questa viene acquisita solo a patto di liquidarsi completamente per assumere l’altro su di sé, è pur vero che questa liquidazione è solo apparente: l’agente che indossa la maschera dell’altro è, nello stesso tempo, agente, attore e spettatore: questo è particolarmente evidente nella sequenza di Mission: Impossible II (2000) dove, indossando la maschera di Hunt, il villaindice alla ragazza di continuare nella “parte”, simulazione dell’innamoramento nel covo di questi. In quanto spettatore, critica, emette una sanzione, e se nello stesso tempo (appunto) agisce, in quanto sa, agisce sapendo, è dotato di un sapere superiore che lo assimila allo spettatore avveduto sulle trame dell’azione.
Mentre compie un’azione che lo vede implicato come altro, egli inoltreassiste allo spettacolo (dell’amore della ragazza per Hunt, ad esempio): da qui il surplus euforico-disforico che prova.

L’azione diventa allora una sorta di esibizione basata sulla contraffazione: colui che conduce il gioco non è più solamente colui che vediamo agire, ma l’altro, l’io per così dire, sottopelle (al contrario della Maschera maiuscola o di primo tipo, dove era la Maschera, come si è visto, a condurre il gioco, a portare a termine l’operazione). Il risultato è allora un rapporto complesso fra il soggetto nascosto (l’agente) e il soggetto esposto (la maschera minuscola, ciò che essa raffigura).
In Woo la maschera è assimilabile a uno schermo che però proietta una sorta di interferenza, che inibisce il riconoscimento e dove liquidata è ogni somiglianza, che, non avendo nulla a che fare col riconoscimento «consiste nel mostrare un’altra cosa rispetto alla corrispondenza dei tratti. Essa mostra la vita o il vivo dello spirito» (Nancy 2002, pp. 33-34).

L’unico modo per attestare l’identità dell’altro sarà allora, o il gruppo sanguigno (Face/Off; Sean Archer che, per dimostrare la sua identità alla moglie, si taglia con i cocci della cornice che custodisce la foto del figlio ucciso da Castor Troy) o il dettaglio (non è lì che è nascosto il buon Dio?) che può essere sia fisico (in Mission: Impossible II è il dito fasciato che tradisce la presenza, sotto la maschera che lo contraffà con le sembianze di Ethan, del luogotenente del villain) sia quella che si potrebbe definire “piccola traccia mnestica” (Sean-Castor racconta alla moglie il loro primo incontro, dettagliando a proposito del dente di lei, rotto a causa di un “seme di segale”... è come se la verità sbocciasse fuori da un piccolo particolare insignificante).
In La congiura intervengono altre modalità di riconoscimento: l’aura (al posto del sangue) e la spada.

Altra occorrenza è la dissimulazione, dove è il volto stesso a diventare una maschera, altrettanto irriducibile (solo ancora più minuscola) di quella precedente. Ma se il volto è diventato mascheraallora l’esistenza è un susseguirsi di incontri che possono mutarsi in agguati mortali e il mondo diventa assolutamente privo di appigli. Questo è evidente già dalla primissima sequenza di La congiura della pietra nera, dove la protagonista uccide un bambino che, si scopre subito, era in realtà un assassino che nascondeva sotto la manica un’arma mortale.
Ciò è evidente anche nella sequenza dell’incontro fra il villain e la ragazza9 in Mission: Impossible II dove la giovane deve fingere di essere ancora innamorata di lui. Woo realizza la messa in scena con un raffinato meccanismo di campi e controcampi, che prosegue nelle sequenza successiva, quando il villain chiede alla ragazza di indossare un magnifico abito rosso. Lei sorride, poi si gira (e la mdp la segue in questa torsione rapidissima che è anche mutare repentino degli affetti): per un attimo, di spalle, la serie montante del sorriso “tiene” ancora, come se occorresse del tempo per farlo sciogliere sul meccanismo meccanico del volto. Quindi assume la fisionomia che le è propria, cioè quella di melanconia e chiusura.

Le categorie del riconoscimento, in virtù della maschera, vanno in tilt: l’oggetto perduto e poi ritrovato (che crediamo nella medesima posizione nella quale lo avevamo lasciato) non è, in realtà, lo stesso oggetto, e sarà colto altrove rispetto a dove era stato cercato. La prospettiva platonica che fonda ogni apprensione dell’oggetto sul riconoscimento, la reminiscenza di un tipo in qualche maniera preformato qui si imbatte in uno scacco, dove la ripetizione (lei è di nuovo qui) è impossibile da appagare, e il principio di realtà si oppone con quello di piacere: in Woo la maschera rende la realtà porosa perché lavora fino a inibire l’appiglio più naturale, quello del riconoscimento (“questo sei tu”).
La sequenza dell’incontro permette di riflettere anche sullo statuto dell’oggetto, che in Woo diventa non più cavità da attraversare (l’oggetto, appunto, “bucato”), ma superficie sulla quale indugiare (in Woo l’altro è una superficie: se fosse possibile penetrare al di sotto di esso, della maschera, l’inganno sarebbe automaticamente svelato): allo sguardo che «non prende di mira nessun oggetto…lo sguardo non è in fondo un rapporto con l’oggetto» (Nancy 2002, p. 57) ed è rivolto «verso un fuori indeterminato» (ivi, p. 56) seguirebbe la vista, che scruta una superficie. La sequenza è assimilabile a una scena di sarcofago: l’incedere di lei verso il villain è una ripresa dell’incedere della ninfa: grande rilievo viene dato dal regista alla “ventilata veste” e ai crini e agli accessori che si muovono pateticamente per il concorso del refolo di vento e del movimento ondeggiante del corpo della donna.

Calco e dissimulazione sono evidentemente intrecciati. È in seguito al calco della maschera che Sean Archer e Castor Troy dovranno simulare, fino all’eccesso (la preghiera davanti alla tomba del bambino ucciso da Castor stesso, e l’abbraccio del figlio di Castor da parte di Sean, come se fosse suo figlio). Analogamente, il personaggio maschile de La Congiura, dissimulerà per tutto il tempo i sentimenti di vendetta che nutre verso sua moglie: la maschera consente la dissimulazione di ogni movente; dopo l’agnizione finale ogni sua azione muterà di posto.
Altro aspetto è la vertigine: sono i tratti spaventati o contratti, ad esempio nella caduta del burrone dopo il giro della morte con le auto sportive in Mission: Impossible II che, presi nel vortice serpentino, si rapprendono in preda ad angoscia e paura; nello stesso tempo è il volto impegnato nel combattimento. È la vertigine, descritta da Karl Jasper, che ai bordi di un ripido abisso spinge il soggetto a precipitarsi in esso, mentre esso, nello stesso tempo, rabbrividendo, retrocede. Per il filosofo la vertigine era un termine di paragone adeguato per indicare la volontà di distruzione che si incontra nel movimento della coscienza assoluta, l’incanto di una voce seducente che sussurra: tutto deve andare in rovina.

La vertigine è il movimento che coglie il volto e il corpo durante quegli epifenomeni complessi che sono i combattimenti, e dove la maschera ritrova la sua connessione con il movimento danzato.
Si pensi alla celebre sequenza della sparatoria in Face/Off, dove ognuno dei due avversari, diviso da un doppio specchio, finisce per sparare sul proprio riflesso10 operando una serie di movimenti danzanti. Ma è con la ripresa del classico film wuxia11 de La congiura della pietra nera che maschera e passo danzante sembrano saldarsi di nuovo in una unità indissolubile.
Il movimento danzato dei corpi si fonde con quello degli accessori. La spada di Pioggia Lieve è guizzante come un serpente e, come il nome dell’eroina, saldata alla vita elementale e all’elemento acquatico (la sua tecnica di combattimento è detta dell’ “acqua sferzante”, ed è così raffinata che i corpi delle vittime sembrano tagliati da una pioggia sottile).  
La polverizzazione della maschera sarebbe data dall’innamoramento. Ma anche quello, come accade ne La congiura della pietra nera, si può simulare.

La cecità infine, è quella della maschera vuota, ondeggiante in una sorta di liquido amniotico preparato in vitro (Face/Off), simile a un lembo di muleta o a un tragico resto informe. Residuo, povera cosa, è ciò che resta di ciò che veniva avanti e che non ha più nulla da rivelare se non, in un ultimo sussulto, la fisionomia di colui che nasconde. Reso impossibile ogni richiamo, «ciò che richiama la presenza […] fa ritornare dall’assenza e rammemora nell’assenza. È così che il ritratto immortale: rende immortali nella morte» (Nancy 2002, p. 42), possibilità di conservare l’immagine di una persona che si è allontanata), quando l’agente si toglie la maschera non rimane che l’immagine svuotata, simile a quella che Michelangelo lasciava pendere dal pugno di San Bartolomeo (e che celava il suo autoritratto): si tratta di un resto familiare divenuto illusorio, estremo destino della maschera-calco: inutile sia a raccogliere il destino del corpo assente (la spoglia), sia (appallottolata com’è) a promuovere una certa possibilità di reminiscenza (qualità essenziale del frammento è il fatto che si riesce a risalire alla totalità), essa assomiglia, una volta gettata via, a quelle parti del tutto a-significanti che rimandano al basso corporeo: le viscere, la chioma, i rifiuti.

La Tavola. La maschera e il volto



La Tavola vuole essere, ancora una volta, una sorta di applicazione empirica, con materiali diversi, di quanto esposto nel corso del saggio. La direzione di lettura che segue è per bande, e va dall’alto verso il basso e da sinistra a destra. Naturalmente bisognerebbe, di fronte ad un organismo di questo tipo, che lo sguardo si animasse lasciandosi andare al gioco delle approssimazioni successive, delle “prese” multiple e delle relazioni secondarie. Centrale è il valore ideogrammatico dell’immagine e la sua possibilità di mutare di senso a seconda dell’immagine alla quale viene accostata.

L’incipit mostra la Maschera alla fine dello scalone di Jade (Friedkin, 1995). La mdp, impegnata in un complesso piano sequenza, dopo essersi avvicinata scarta a sinistra e si immette in una stanza dove è stato commesso un omicidio: la vittima è stata appesa e scorticata. È come se la maschera (che replica quella famosa di Agamennone), con la sua imperturbabilità, celasse sotto-dentro di sé la scena criminosa e arcaica. Dalla convessità di fig. 1 si passa all’esperienza concava della grotta, sulle cui gibbosità sono incise o dipinte le due immagine che seguono. Nella fig. 2 la Maschera viene indossata dall’ominide primitivo. L’uomo, con la Maschera a becco di uccello, probabilmente in trance, attende dal bovide dal ventre aperto il nutrimento rigeneratore. «L’uomo appare con la testa di uccello, e, per intensificarne l’ideogramma, un uccello è stato appostato più in basso, al suo fianco» (Villa 2005, p. 14). Montaggio di montaggio, la maschera, l’uccello e il bovide, l’animalità e la sua simulazione  operativa sono disposti uno accanto all’altro; il corpo dell’ominide, morto-vivo, incarna la duplice polarità energetica di Maschera, e la sua funzione di interfaccia per entrare in un mondo altro, extra-quotidiano, quello del sacrificio e della sua vertigine. La fig. 3 dalla grotta palermitana dell’Addaura mostra, invece,

«la rappresentazione di un sacrificio umano, forse per autostrangolamento, e con allestimenti rituali di carattere acrobatico funerario. Il sacrificio umano si configura come eseguito su un corpo umano, che può probabilmente essere un cadavere […] le due figure umane, soggetto e oggetto del sacrificio, si presentano, forse, come ittiomorfiche […] qui si tratterà di un uomo pesce.» (ivi, pp. 13-14)

Si tratta di una sorta di macabro ballo su un corpo vittimale. Segue il ballo di Manet (fig. 4): se si osserva l’angolo sinistro, la giovane (ma è davvero tale?) sorride in maniera stereotipa, mentre l’uomo dietro di lei che si regge il mento con la mano guantata (sul viso grigio gli occhi si riducono a due lingue di nero e i baffetti, posticci,sembrano incollati a bella posta), non sembra indossare anch’egli una maschera? Fino alla maschera più irriducibile di tutte, quella del tempo.

«Al primo momento non capii come mai stentassi a riconoscere il padrone di casa, gli invitati, e ciascuno mi desse l’impressione di essersi messo una maschera, generalmente con i capelli incipriati, che lo cambiava completamente. Il principe aveva ancora, nel ricevere, quel fare bonario da re da favola […]. A dire il vero, lo riconobbi solo con l’aiuto di un ragionamento, traendo dalla somiglianza di alcuni tratti, che si trattava della stessa persona…il suo viso dava l’impressione d’essere indurito, bronzeo, solenne…arrivata a questi livelli, l’arte del travestimento diventa qualcosa di più, una trasformazione completa della personalità.» (Proust 1995, pp. 279-281)

L’elemento che, operatore della più radicale delle dissimulazioni, può mutare definitivamente il volto in maschera minuscola è allora, il tempo: «il tempo, che di solito non è visibile, e per diventarlo cerca dei corpi e, ovunque li trovi, se ne impadronisce per proiettare su di esse la sua lanterna magica» (ivi, p. 284). Spostarsi dalla fig. 4 (dove la maschera cela il trascorrere del tempo) e quelle superiori, cerimonie primitive di morte-rinascita dove l’uomo assume sembianze animali implica il ricorso ad una giunta impossibile, che riconduce il tempo perduto della prima a quello rinnovato ritualmente delle seconde.

Ma la fig. 4 è anche tangente alle ultime tre, che mettono in scena il rapporto dialettico fra maschera e volto: nella festa dei morti di Eisenstein (figg. 6, 7; ¡Que viva Mexico!, 1931, sequenza della Vasilada), la morte viene irrisa in una irruente e festosa affermazione della vita:

«Danza la gente con le maschere della morte…nel pieno del carnevale, le bianche maschere volano via dai volti. Dietro di esse le facce allegramente ridenti, aperte in un largo sorriso, di peones, bambini, operai proletari. Ma ecco che cadono anche le maschere dai volti del vescovo, del presidente, del proprietario terriero […]. Ma sotto le maschere non ci sono volti sorridenti. Anzi: non ci sono affatto dei volti. Al posto della maschera ci sono dei veri teschi ossuti.» (Eisenstein 1985, p. 63)

Segue quella dell’evocazione degli dei astrali in Inauguration of the Pleasure Dome (fig. 5; K. Anger, 1954, dal poema di Coleridge Kubla Khan: nel frame ri-appare il mascherone messicano).
La fig. 8, che apre la banda centrale, dallo stesso film, mostra la veranda vuota, parquet lucente apparentemente invalicabile, sgombro set ideale pronto a riempirsi di fantasmi (mascherati). Nei due frame la mascherata diviene evocazioni spettrale, cerimoniale di iniziazione, tutta tesa verso il polo, magico, del maleficio. In Anger lo sciamano diventa mago: nel film, che inizia con una vestizione, gli agenti sono affetti da vere e proprie trance nervose, crisi isteriche o stati catalettici.
La banda destra è dedicata al volto e ai suoi tic, all’anamorfosi e al calco.

La fig. 14 è l’opera di Munch Occhi negli occhi (1894), in ideale correlazione con la banda superiore di fig. 10: è la messa in scena più efficace di quei particolari effetti di maschera minuscola che abbiamo definito “dissimulazione” e “cecità”, maschera che guarda un’altra maschera: in mezzo, a segnalare l’impossibilità del congiungimento, il fusto dell’albero, che qui da simbolo arborescente di vita muta di segno per tramutarsi in ostacolo che immette i due in un cono d’ombra. La fig. 15 è tratta da Essi Vivono di Carpenter: dietro la maschera del volto, grazie all’ausilio di lenti speciali, è possibile individuare la presenza di un host malvagio. Lenti che impediscono il gioco del calco e la sua inibizione del riconoscimento. Seguono (figg. 16, 17) due anamorfosi: la prima, esito estremo della maschera minuscola (Holbein, Gli Ambasciatori, 1533), mostra un oggetto allungato e biancastro: la maschera minuscola si muta nel suo opposto difforme, l’organo genitale. La seconda anamorfosi mostra un corpo acefalo, il cui volto è mutato in una traccia monocroma e scancellata (Alessandro Saturno Martinelli, matita e grafite, 2013): raffigurazione medusea questo collo-vedovo mostra il momento della castrazione. La decapitazione è un atto estremo che nel momento in cui sembra liquidare ogni possibilità di mascheramento, trasforma in realtà il resto del corpo, acefalo e irrigidito, in una maschera senza espressione, tratti, rivelazione, parola.

Segue la ricomposizione del volto nella maschera mortuaria: essa si pone come rovesciamento della maschera minuscola essendo il calco dell’opera della morte. La maschera è quella di Brunelleschi, uno degli inventori della più grande maschera adoperata dall’occhio dell’occidente: la prospettiva12. La maschera mortuaria è una sorta di maschera minuscola raffreddata, pietrificata, a metà tra la morte del pallore marmoreo e la vita della riproduzione esatta dei tratti, tra superficie e profondità, ideale e transeunte.
Le due immagini della banda centrale in basso in b/n (figg. 11, 13) mostrano il volto che diventa maschera che si solleva (Georges Franju, Occhi senza volto, 1960), volto-lembo, in una procedura di sollevamento-sostituzione che ricorda quella di Face/Off. Al centro, il frame da The Act of Seeing with One’s Own Eyes (fig. 12, Stan Brakhage, 1971), che mostra una faccia senza volto. Ecco che la maschera minuscola svela qui il suo retroterra, la “faccia che non si vede mai”, passando al di sotto, nel luogo dove qualunque riconoscibilità crolla, la visione della carne interna, mobile, intestina:

«C’è qui un’orribile scoperta, quella della carne che non si vede mai, il fondo delle cose, il rovescio della faccia, del viso, gli spurghi per eccellenza, la carne da cui viene tutto, nel più profondo del mistero, la carne in quanto sofferente, informe, in quanto la sua forma stessa è qualcosa che provoca l’angoscia. Visione di angoscia, identificazione di angoscia, del tu sei questoTu sei questa cosa che è la più lontana da te, la più informe.» (Lacan 1991, p. 193)

(Per rovesciamento, di fianco, l’immagine della Maschera lorda di sangue, conservata dentro una busta di plastica e utilizzata come prove indiziaria in Jade).
L’explicit è come se ricomponesse l’apertura delle immagini precedente dentro-sotto una colata di marmo: ma, come attesta Didi-Huberman, il marmo

«attraversa in effetti la storia come una sostanza miticamente dotata di quelle stesse potenzialità di sintomo che per un altro verso abbiamo attribuito […] all’incarnato. Non che il marmo […] possa vantarsi di replicare perfettamente le qualità ottico e tattiche di un corpo. Anzi. È proprio perché mostra qualità antitetiche rispetto al vivente che si presta a quel compromesso arresto che è richiesto […] dalla strutturazione feticista dell’adorazione di un oggetto.» (Didi-Huberman 2008, p. 88)

La testa cicladica e l’opera di Giacometti intitolata Tete qui regarde (1928) segnano anche una diversa, ulteriore liquefazione del volto, liquidazione-purificazione della fisionomia che nell’opera di Giacometti inverte il rilievo dei tratti del viso a favore di due segni cavi, come impressi nella cera o nella materia intenerita, che non rimandano a niente.

Le due opere al centro della fascia centrale, infine. Quella più in basso è il frame del Mese di Aprile a Palazzo Schifanoja, a Ferrara, di Francesco del Cossa (1469-1470). Si tratta, in effetti, di un montaggio nel montaggio; l’affresco è diviso in tre bande, che mostrano una riflessione quasi pre-shakesperiana sull’altro e il suo sguardo. Nella fascia superiore è rappresentato il trionfo del dio del mese. Qui Venere assisa sul suo cocchio trainato da cigni, è di fronte a Marte che, in armi, è inginocchiato davanti a lei. Ognuno fissa la maschera dell’altro, maschera minuscola e dissimulatrice; nel contempo, i giovani che, ai lati, compongono la scena intrecciandosi in amorosi gesti, posseduti, subiscono l’influsso della dea. Nella fascia inferiore lo scambio di sguardi è ricondotto alla sua variante mondana: il duca Borso d’Este, impegnato nella lunga esplorazione dei dintorni del suo territorio, si imbatte nel buffone di corte. Qui il regnante si specchia nel fool, nel suo doppio difforme. La fascia centrale è occupata dai decani, forze notturne e ctonie, demonizzazione orientale e astrologica del pantheon olimpico, che simulano sia il nascere e il tramontare di una stella in una determinata porzione di spazio celeste, sia l’irruzione di forze inconsce.

L’opera di Picasso del 1907 Les damoiselles d’Avignon può essere letta come un ideale percorso cinematico di un unico volto e della sua mascherata: da maschera minuscola (facies nigra prima, poi cavità che si ispessiscono e diventano cave, come a voler mostrare la presenza di un volto secondo e celato) a Maschera maiuscola (anamorfizzata prima, nella figura inginocchiata, quindi maschera africana a funzione cultuale innestata sul corpo proprio); ma il tutto può anche essere letto all’inverso, in un processo contrario di spoliazione successiva. L’immagine precubista di Picasso funziona come in una Maschera del basso Kuskokwim, dove la faccia interna è nascosta da piccoli sportelli che, a un dato momento, si aprono per indicare il prodursi della metamorfosi.
Ecco allora chei due termini dell’inizio sembrano trovare una loro (paradossale) unità. Maschera maiuscola e maschera minuscola sono una il destino dell’altra e rappresentano, in un certo senso, le due opposte “fortune” del volto. Che o segue la retta della morte e della rinascita, o quella, di senso contrario, che insegue la vita e il suo tumulto, e quindi, anche la caducità e la morte.


Note

1 Non deve stupire l’associazione di un materiale a prima vista tanto dissimile. Come si vedrà, i film di Woo presi in esame, dietro l’apparente semplicità del meccanismo dell’action, offrono una interessante analisi sul rapporto con l’altro, la contraffazione e il segreto; di contro, gli hopi furono una delle poche tribù (insieme a quelle artiche e indiane) ad utilizzare maschere in maniera pervasiva: Eliade ammette infatti che l’uso della maschera nello sciamanesimo non è così diffuso come si crede. La maschera Hopi è tuttora utilizzata, in danze che mescolano l’antica efficacia con il richiamo turistico. Si tratta quindi di due dispositivi contemporanei. Si è scelto di analizzare solo John Woo per questioni di lunghezza. Altri autori che fanno un largo uso della maschera minuscola, sono, ad esempio, il Carpenter di Essi Vivono (1988) che diventa interfaccia da porre davanti allo sguardo dello spettatore in Fantasmi da Marte (2001), oltre ad Hitchcock e Welles (dei quali accenneremo in specifiche note a margine). In letteratura, è quasi banale citare i casi di Poe, Lovecraft (La maschera di Innsmouth), ma anche Faulkner (La paga del soldato è un romanzo che si basa tutto sulla maschera minuscola e i suoi effetti). Insomma l’excursus non ha alcuna pretesa di essere totalizzante, ma solo richiamare due tipi singolari di maschera.

2 Non a caso l’incisione si trova allora al termine della serie della Tauromachia: quest’ultima può essere infatti considerata come la versione moderna di un sacrificio rituale, dove, analogamente agli uomini volanti di Goya che dominano l’elemento aereo, il matador riesce a dominare la natura animale del toro e ad assimilarne le qualità in seguito ad un’azione complessa.

3 Recita il canto propiziatorio: «I nelegan si mettono in cammino, i nelegan camminano in fila lungo il sentiero di Muu, fino alla bassa montagna» e, anche: «i nelegan aprono occhi luminosi nell’ammalata».

4 Che si intitola Ninfa canefora frettolosa nella cerchia Tornabuoni. Domesticizzazione della Ninfa.

5 Warburg nota subito la radice sanguinaria della danza e la associa ai riti aztechi di vegetazione, dove una giovane donna, dopo essere stata adorata per 40 giorni, come dea del mais, viene sacrificata, e un sacerdote si riveste della sua pelle. Il rituale è narrato anche da Frazer, nel capitolo del Ramo d’oro dedicato ai sacrifici messicani.

6 L’impresa riuscirà a D. H. Lawrence, due decenni più tardi; la danza era a metà fra evento rituale e esibizione per turisti. A proposito dello sguardo degli hopi scriverà: «I loro occhi non vedono quello che vediamo noi. E non possono accettarci. I guardano con lo sguardo fisso dei coyote: tra di noi si apre il baratro della reciproca negazione» (Lawrence 1993, p. 109). L’Hopi e l’occidentale indossano due maschere “minuscole” che li disconoscono l’uno all’altro.

7 E che per Eliade costituisce una maschera vera e propria.

8 In un ritratto di questo tipo, infatti, non ritroviamo al lavoro neanche uno dei tre tempi (somiglianza, richiamo, sguardo) individuati da Nancy ne Il Ritratto e il suo sguardo. Al massimo si potrà parlare, come vedremo, di inibizione al riconoscimento, residuo e vista.

9 Insieme all’altra sequenza mostrata in precedenza, esse mettono in luce il milieu hitchockiano che sta dietro MI2: il riferimento è, naturalmente, a film come Il delitto perfetto (1954) e Notorius – L’amante perduta (1946, di cui MI2 è una sorta di remake apocrifo): nel momento in cui il soggetto simula, non si pone nello stesso tempo nella duplice posizione di colui che agisce e di colui che sanziona, di colui che simula provando il contrario e, quindi, mandando in tilt le categorie del riconoscimento?

10 Dopo Hitchcock, l’omaggio è a un altro cineasta che ha fatto largo uso della maschera minuscola: Orson Welles (e al suo film La Signora di Shanghai, 1947).

11 Genere che John Woo aveva già sperimentato con il precedente La Battaglia dei tre regni.

12 Era anche un creatore di schermi a funzione illusiva: in un esperimento dispose su un trespolo ad una distanza calcolata una tavola dipinta con una riproduzione mimetica del Palazzo della Signoria che nascondeva, come una maschera, lo stesso palazzo, dando l’illusione, a chi lo guardava con un occhio solo, di vedere l’edificio dal vivo.


Bibliografia

Deleuze G. (1989): L’immagine tempo, Ubulibri, Milano.

Didi-Huberman G. (2008): La pittura incarnata. Saggio sull’immagine vivente, Il Saggiatore, Milano.

Eisenstein S. M. (1985): Teoria generale del Montaggio, Marsilio, Venezia.

Eliade M. (2005): Lo Sciamanesimo e le tecniche dell’estasi, Edizioni Mediterranee, Roma.

Lacan J. (1991): Il seminario. Libro II, Einaudi, Torino.

Lacan J. (2007): Il Seminario. Libro IV, Einaudi, Torino.

Lawrence D. H. (1993): Mattinate in Messico, Lindau, Torino.

Lévy-Bruhl L. (2013): L’anima primitiva, Bollati Borighieri, Milano.

Lévi-Strauss C. (1990): Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano.

Nancy J. L. (2002): Il ritratto e il suo sguardo, Raffaello Cortina Editore, Milano.

Paas-Zeidler S. (a cura di) (1980): Goya. Caprichos, Desastres, Tauromaquia, Disparates, Editorial Gutavo Gili, Barcelona.

Proust M. (1995): Il Tempo Ritrovato, Mondadori, Milano.

Villa E. (2005): L’arte dell’uomo primordiale, Abscondita, Milano.

Warburg A. (1998): Il rituale del serpente, Adelphi, Milano.


Filmografia

Essi Vivono (They Live) (John Carpenter 1988)

Face/Off – Due facce di un assassino (Face/Off) (John Woo 1997)

Fantasmi da Marte (Ghosts of Mars) (John Carpenter 2001)

Il delitto perfetto (Dial M for Murder) (Alfred Hitchcock 1954)

Inauguration of the Pleasure Dome (Kenneth Anger 1954)

Jade (William Friedkin 1995)

La Battaglia dei tre regni – Parte 1 (Chi bi) (John Woo 2008)

La Battaglia dei tre regni – Parte 2 (Chi bi Part II: Jue zhan tian xia) (John Woo 2009)

La congiura della pietra nera (Jian yu) (Chao-Bin Su 2010)

La signora di Shanghai (The Lady from Shanghai) (Orson Welles 1947)

Mission: Impossible II (John Woo 2000)

Notorius – L’amante perduta (Notorius) (Alfred Hitchcock 1946)

Occhi senza volto (Les yeux sans visage) (Georges Franju 1960)

¡Que viva Mexico! (Grigori Aleksandrov – Sergei M. Eisenstein 1931)

The Act of Seeing with One’s Own Eyes (Stan Brakhage 1971)