In attesa dei cinquant’anni dalla prima di Nostra Signora dei Turchi, un semplice invito a rivedere il cinema di Carmelo Bene.

Fare il punto sull’opera multiforme di Carmelo Bene è un’impresa non impossibile ma titanica, come titanica è stata la sua intenzionalità artistica. Da molte parti del mondo si lavora a uno studio sistematico di questo insieme di opere riunite sotto una firma d’autore, nel teatro, nel cinema, nella poesia, in una visione sincretica delle arti che è soltanto apparentemente novecentesca, ma che in realtà sembra prefigurare il secolo successivo, soprattutto se si guarda alla sua inclinazione transmediale, alla sua volontà di far esistere lo stesso testo molte volte, su più supporti, per pubblici differenti.
A quindici anni dalla scomparsa di Carmelo Bene, abbiamo di fronte due opzioni non alternative per rendere merito alla sua generosità autoriale: la prima è intraprendere la strada dello studio multidisciplinare permanente, in una cornice istituzionale capace di sollecitare i contributi di studiosi di spessore; il formato ideale non sarebbe tanto quello del singolo convegno, ma di un forum digitale flessibile che faccia anche da archivio della letteratura sull’artista, dialogando per esempio con il Centro Studi Carmelo Bene recentemente fondato a Campi Salentina, paese d’origine dell’artista.

La seconda strada, che non esclude affatto la prima ma anzi è forse una corsia preferenziale dello stesso tracciato, è cominciare o continuare a fruire delle opere, riattivarle attraverso la lettura e la visione, calandole nel presente dell’utenza, mettendole al pari dei consumi culturali dell’oggi; è l’opzione che con notevole lungimiranza preferì il BIF&ST cinque anni fa per celebrare il decennale della morte di Carmelo Bene, rimettendo in circolazione i suoi film grazie alla Cineteca Nazionale. Dunque questo della re-visione è un esercizio non soltanto possibile ma estremamente gratificante per la ricchezza inesauribile dei contenuti: è un cinema che si esprime per linee oblique, aprendosi a una semiosi illimitata, per cui ogni visione della stessa opera sembra generare un senso differente. Questo ci consente una grande libertà spettatoriale ma ci mette di fronte alla necessità e al rischio dell’interpretazione: è il motivo per cui molti testi di esegesi del cinema beniano sembrano assai più oscuri dei film stessi.
Carmelo Bene scelse di esprimersi con il mezzo cinematografico a partire dal 1967, senza rinnegare altre forme espressive, ma con il preciso intento di rovesciare il segno del proprio stile al contatto con lo specifico del medium. Su questa scelta, l’artista ha dichiarato: «Perché il cinema? Si è sempre maldestramente equivocato, prima ancora ch’io mi filmassi o filmassi l’impossibilità di filmare altro dal set, già ai miei esordi teatrali, che io battessi una strada avanguardistica dell’immagine di contro alla parola. A sconfessare questo ci provai con cinque film in cui il silenzio è sovrano e il logos decisamente estromesso. Cinema: regno dell’immagine».

In sostanza, i film di Carmelo Bene non intendono essere una prosecuzione del teatro in altra forma, ma vogliono proprio essere cinema, un cinema spinto al massimo delle sue possibilità, sfruttato, spremuto: come in tutte le esperienze di avanguardia, l’artista prova a forzare le strutture e a vedere cosa accade. Il grande artista teatrale prende il cinema, e si impadronisce di quello che nel teatro non c’è: il montaggio dell’immagine e del suono, il missaggio, il primo piano, la tensione costante tra campo e fuori campo, la luce e il colore. Carmelo Bene si appropria di tutto ciò, grazie anche alla collaborazione di professionisti abili e duttili come Mario Masini, e spinge il dispositivo oltre le convenzioni. Fuori dal teatro e dentro il cinema c’è anche il mondo reale, percepito da una sensibilità abnorme: si pensi al prologo di Nostra Signora dei Turchi, in cui sinuosi movimenti di macchina, ottiche e filtri distorcono ad arte la percezione dell’architettura moresca. Ma fuori dal teatro c’è anche la storia del cinema e le complesse relazioni con altre poetiche dell’immagine che i film di Carmelo Bene senza dubbio intrattengono: Hermitage e Capricci con Godard, per esempio. Proprio sulle relazioni con Godard, l’eccellente ricerca di Giulia Raciti (Il ritornello crudele dell’immagine, Mimesis 2018) cita Giuseppe Bartolucci, secondo cui «citare Godard per Bene non è tanto un risalire alla frantumazione della vicenda e del personaggio, l’una e l’altra da lui perseguite assai bene in teatro per tanti anni, quanto rendersi consapevole all’interno del movimento dell’immagine di una libertà di fruizione che è anche libertà di produzione».

Alcune formule d’uso comune hanno banalizzato il rapporto con l’opera di Carmelo Bene; ne segnala una Emiliano Morreale nell’introduzione alla preziosa antologia Contro il cinema: «Bene è stato troppo spesso frainteso come provocatore». Simmetriche ai fraintendimenti semplificatori sono le teorie del genio. Si ha talvolta la sensazione che finora la comprensibile esaltazione critica della sua opera cinematografica abbia puntato tutto sull’argomento dell’unicità assoluta, fuori da un tempo che non sia esclusivamente quello dell’artista: così facendo però si perde la dimensione storica del cinema beniano. Come si può comprendere, per esempio, un film immenso come Salomè senza metterlo in relazione con il cinema coevo dell’armeno Paradzanov? Le composizioni frontali, piatte, bizantine di alcune inquadrature dei film dei due cineasti sembrano dialogare fra loro. Né si può guardare lo stesso Salomè senza individuare una relazione profonda con il cinema delle origini; è come se Carmelo Bene riportasse il set cinematografico alla sua strategia creativa di base, quella orientata da Georges Méliès alla meraviglia. Altre fascinazioni per la storia del cinema si ritrovano in un altro capolavoro come Un Amleto di meno, con rimandi alla scuola sovietica e di nuovo a Godard; senza contare che film come questo sono impensabili fuori dallo spirito del tempo, e se forse è vero che Nostra Signora dei Turchi era un film “antisessantotto” (secondo Carmelo Bene), è altrettanto vero che il ripresentarsi di Amleto nel cinema giovane a cavallo tra i ’60 e i ’70 è un sintomo di ribellione, basti pensare all’inquieto Hamlet di Tony Richardson del 1969. Non mancano certo solidi studi sull’opera di Carmelo Bene cineasta: i testi di Goffredo Fofi, Jacques Aumont, Cosetta Saba, Jean-Paul Manganaro (per citarne solo alcuni), esattamente come i film, vanno riletti e rimessi in circolo. A partire da Deleuze, che trovò nel cinema di Carmelo Bene una manifestazione della coalescenza di passato e presente a cui attribuiva lo statuto del cristallo, sintetizzando in questo modo il suo percorso cinematografico: «…montare una cinepresa sul corpo acquista un altro senso, non si tratta più di seguire e inseguire il corpo quotidiano, ma di farlo passare attraverso una cerimonia, di introdurlo in una gabbia di vetro o di cristallo, di imporgli un carnevale, una mascherata che ne fa un corpo grottesco, ma ne estrae anche un corpo grazioso o glorioso, per giungere infine alla scomparsa del corpo visibile».

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