Alessandro Cappabianca

altPiù che viaggiatore di terra (magari in treno: Singolarità di una ragazza bionda; o in auto: Viaggio all’inizio del mondo), de Oliveira, come pellegrino della memoria, sembra essere stato specialmente un regista-navigante, in armonia con il suo imprinting portoghese (enigma di Cristoforo Colombo: era davvero nato a Genova?) – quando non riteneva, ovviamente, come nel Quinto impero, di limitarsi per tutto un film ai pochi metri quadrati d’un palcoscenico, sul quale cogliere i movimenti più impercettibili degli attori e della mdp, a partire da una condizione di frontalità d’ascendenza teatrale. Allora re Sebastiao ci viene mostrato nel suo castello, prima della folle impresa africana, preda di dubbi e incertezze, avversato dalla maggior parte della Corte, beffeggiato dai giullari – e tutto questo dopo che l’impresa (la disfatta) africana era già stata mostrata in NON.

Ma le navi di solito vanno e vengono, nel suo cinema. Va la nave di Un film parlato, sia pure destinata al disastro, come quella di Fellini – già andavano, verso l’Oceano, i velieri e i bastimenti di Douro, faina fluvial. Vanno e vengono, dal Portogallo al Brasile, dal Brasile al Portogallo, le navi sulle quali, in Parola e Utopia, padre Vieira aveva attraversato trentacinque volte l’Oceano.
Non ho mai visto, purtroppo, il film Sermões, che Julio Bressane dedicò ad Antonio Vieira nel 1989 (ne scrive però nel volume Dislimite, edito da CaratteriMobili). Pare che, in esso, i sermoni del formidabile gesuita entrino in contrappunto con brani di film classici del cinema muto. Dal Portogallo comunque, nel 2000, de Oliveira risponde al regista brasiliano, in quel va e vieni alla Monteiro che tanto ci piace. Con soste a Roma, dove (nel film di de Oliveira) Vieira incontra Cristina di Svezia, predica alla sua presenza (negli intervalli d’un trattenimento musicale) e viene coinvolto, su istigazione della Regina, in una nuova versione della vecchia disputa tra Eraclito (filosofo che piange) e Democrito (filosofo che ride). Padre Vieira la risolve, argomentando che al mondo c’è ben poco da ridere e che in fondo anche Democrito piangeva, «benché in differente maniera» (ridere per non piangere, si dice tuttora).
Formidabile predicatore, padre Vieira. Formidabile argomentatore, ma non solo per la forza della sua retorica e la sottigliezza delle sue metafore. La retorica barocca, nel suo caso, si fa veicolo di verità e anelito di giustizia, nella veemenza delle argomentazioni in favore degli Indios, vessati dallo sfruttamento coloniale, e dei poveri, oppressi dalle ruberie dei ricchi. Allora ogni predica, ogni sermone, diventano come la fionda di Davide, che non si limita a smuovere l’aria, ma uccide i giganti.

altVero è che Vieira profetizzava anche cose in apparenza pazzesche, come l’avvento del Quinto Impero, e il ritorno dei fantasmi, prima di tutto quello del re Sebastiao, il cui corpo, sparito durante una battaglia in Africa, non fu mai più ritrovato – ma i fantasmi aleggiano davvero, nel cinema di de Oliveira, e del resto già cominciavano ad aleggiare nelle sperimentazioni di un altro gesuita, Athanasius Kircher, contemporaneo di Vieira, padre della lanterna magica e delle magiche ombre semoventi.

Nella profezia avverata del cinema, sono le ombre, sono i fantasmi, a organizzare le immagini sui fotogrammi bianchi trasparenti – come dice Bressane, le ombre sono la musica della luce.

Maria Joana, la bambina che chiedeva troppo, e sua madre Rosa Maria, l’emerita professoressa che ha o crede di avere tutte le risposte, debbono perciò (in Un film parlato) partire da Porto sulla nave diretta in India, durante una giornata nebbiosa, simile a quella in cui dovrebbe avvenire il ritorno del re Sebastiao (sì, il sognatore del Quinto Impero), ucciso in Africa durante la battaglia dei tre re, il cui corpo non fu mai ritrovato.

Nella nebbia che sale, rischia di non essere visibile neppure l’edificio dedicato a Vasco da Gama, che arrivò in India, dove anche madre e figlia sono dirette, sempre per mare, sia pure attraverso un diverso itinerario (l’apertura del canale di Suez ormai abbrevia il viaggio).

Il ritorno di re Sebastiao è una credenza popolare, un mito, spiega giustamente la professoressa. «Ma cos’è un mito?» chiede la bambina. Una storia immaginaria, certo, basata però su elementi veri. Il fantasma di Sebastiao, per de Oliveira, non fa che tornare, già da No, la folle gloria del comando. Non solo appariva (e scompariva) nella battaglia di Alcazarquivir (quella dei tre re), ma appariva anche al tenente Cabrita (L.M. Cintra), moribondo in ospedale dopo lo scontro a fuoco con i guerriglieri angolani. Non appare su un cavallo bianco, come vorrebbe la leggenda, ma a piedi, con elmo, spada e corazza: solo che la corazza sanguina.

Dal principio verso la fine, dalla fine verso il principio, ugualmente risuona il NON, terribile parola, che esclude l’esaudimento di desideri e aspirazioni, così come il proseguo della vita stessa, frustrando ogni aspettativa, nella saldatura inesorabile del suo circolo. Palindromo, ma palindromo della negazione e del divieto, come padre Vieira bene evidenziava.

E tuttavia c’è NON e NON, c’è no e no. I cortigiani, i consiglieri pavidi, preoccupati solo di non correre avventure, seguaci di quello che Nietzsche avrebbe chiamato “nichilismo passivo”, erano contrari all’impresa africana di Sebastiao, in nome del quieto vivere e del non far niente (il tragico è che avevano ragione) – Sebastiao guarda più lontano, intravvede altri valori ed è disposto a rischiare per trasvalutare quelli presenti, inadeguati (nichilismo, sì, ma “nichilismo attivo”): il prezzo da pagare sarà il disastro militare e, per lui, la morte.

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Cosa si racconta in Non? Una storia secolare, non solo portoghese, ma anche europea, fatta di funeste ambizioni, utopie frustrate e illusioni infrante: fin dall’inizio del film, con una carrellata lentissima attorno a quell’albero, sullo sfondo del cielo, che sembra mettere in moto, illusoriamente, l’albero stesso, mentre nella colonna sonora crediamo di sentire un’eco lontana di cannonate, quando si tratta solo di un pezzo musicale basato su percussioni.

Poi de Oliveira, sulla scorta dei Lusiadi di Luís Vaz de Camões, fa sbarcare Vasco da Gama sulle coste d’una terra che dovrebbe essere l’India, ma è un paese di sogni e incantamenti, avvolto nelle nebbie del mito, dove amorini nudi colpiscono con frecce dorate i petti dei soldati portoghesi e delle ragazze locali, per provocarne il reciproco innamoramento, e bianchi cigni volanti trasportano una conchiglia, dalla quale discende una sorta di Regina delle Fate, a offrire ai nuovi arrivati il cibo e il vino dell’accoglienza.

Ma il tenente Cabrita e i suoi soldati non sono nella terra del sogno. Al servizio, volenti o nolenti, di un imperialismo anch’esso al tramonto, se vedranno fantasmi, in punto di morte, saranno fantasmi insanguinati.

All’inizio di Le soulier de satin di de Oliveira (dal dramma di Claudel), nell’atrio del teatro, mentre si intravede al di là delle porte a vetri la gente in attesa di entrare per assistere alla rappresentazione, un presentatore, rivolto alla mdp, dice: «L’ordine è il piacere della ragione, ma il disordine è la delizia dell’immaginazione».

Prima che faccia cenno agli inservienti di aprire le porte, ci accorgiamo che zoppica leggermente.
Ricordiamo che Don Rodrigue (M.L. Cintra), nel corso delle sue avventure come viceré delle Americhe, sarà ferito a una gamba, che gli verrà amputata e sostituita con una gamba di legno; ma ricordiamo pure che Donna Prouhèze, sposata senza amore ad un uomo anziano, dopo aver scritto la famosa lettera a Rodrigue, di cui è innamorata, lascia come pegno una delle sue scarpine di raso accanto alla statua della Vergine, perché la aiuti a proteggere l’onore della casa contro se stessa, e non manca di chiosare: «Proteggetemi Voi, perché appena non Vi vedrò più, mi lancerò verso il Male [ossia verso Rodrigue, nda] anche con un piede zoppo».

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L’esorcismo funziona, perché la lettera di Prouhèze non raggiungerà Rodrigue altro che dieci anni dopo, al termine d’un viaggio compiuto con passo zoppicante. Troppo tardi perché si compia il peccato, ma in tempo perché un’altra lettera (della figlia di Prouhèze) giunga in compenso a Rodrigue, consolandolo della sua sopravvenuta condizione di schiavitù.
Legato all’albero della nave, in catene, Rodrigue può così ricollegarsi alla sorte di suo fratello (il gesuita) che avevamo visto all’inizio legato all’albero di un’altra nave, squassata dalla tempesta e in procinto di affondare, mentre ringraziava Dio per il destino che ha voluto riservargli.
Ma torniamo al presentatore dell’inizio. A un suo cenno, dicevamo, le porte vengono aperte e la gente entra. È un pubblico di giovani, in jeans e magliette (a me ricorda un po’ quello con cui si apriva Scarpette rosse, altro film di calzature fatidiche), che si inoltra a prendere posto in platea, inquadrato da un carrello all’indietro. Indietro nello spazio, ma anche nel tempo, poiché nel palco d’onore sono già insediati alcuni personaggi vestiti con sfarzosi costumi cinquecenteschi. Uno di loro, seguito dalla mdp, scende in platea, sale sul palcoscenico e ordina «Silenzio!». Comincia a parlare, mentre un enorme schermo cinematografico si illumina accanto a lui, mostrando il gesuita legato al relitto della nave. Lo schermo ingrandisce sempre di più, fino a far scomparire il teatro e a coincidere con lo schermo del film, con lo schermo totalizzante della nostra visione di spettatori cinematografici.

Il passaggio dal teatro al cinema sembra dunque avvenire naturalmente; in realtà, il “teatro” era già cinema (il cinema di de Oliveira) e il cinema porta con sé, mostrandole in filigrana, le stimmate del teatro, ma d’un teatro particolare (il teatro di de Oliveira) reinventato attraverso il cinema. «Bisogna creare un teatro, per poter filmare» ha scritto de Oliveira (a proposito di Mon cas – O meu caso, da José Regio), e si tratta appunto d’un teatro che è possibile soltanto nel cinema: teatro come meta-scena, attraverso cui riflettere sullo statuto del cinema, ma anche viceversa.

altEsiste certamente un versante “teatrale” del cinema di de Oliveira, ma se la dimensione del teatro è lo spazio e quella del cinema è il tempo, il cinema “teatrale” di de Oliveira è assolutamente non teatrale, perché riduce lo spazio a una sola superficie, a un solo piano frontale senza profondità, in cui tutto accade.

Gli sfondi stanno subito dietro gli attori, ma gli attori, come figurine dei tarocchi, non si integrano con gli sfondi: gli stanno davanti (di poco, senza effetti di profondità) denunciando malgrado tutto la loro eterogeneità di corpi viventi (veri) rispetto al fondale dipinto (finto). Se parlano (e parlano quasi sempre) lo fanno senza guardarsi, rivolti frontalmente alla mdp. Dunque, che razza di teatro è? Se è teatro, non è teatro filmato, ma filtrato attraverso quel dispositivo antivolume che è il cinema: gioco di figurine viventi, che rinuncia, in questo caso, anche all’illusione della profondità di campo.

Tutto si affaccia (quasi) sullo stesso piano frontale – con l’eccezione, in Le soulier de satin, d’un solo controcampo (“metafisico”), quando la mdp scivola dietro la statua della Vergine e inquadra da quel lato la deposizione della scarpina di raso da parte di Donna Prouhèze, come pegno d’onore e d’amore. D’altra parte, se è esatto parlare di messa tra parentesi del volume, non lo è altrettanto identificare questa messa tra parentesi con la pura e semplice riduzione a un solo piano. In realtà, i piani sono sempre almeno due, per quanto ravvicinati (piano degli attori-piano del fondale), ma lo stesso piano degli attori, seppure spazialmente unico e orientato frontalmente, sembra essere in qualche modo doppio.

Pur posti sullo stesso piano (spaziale), insomma, i personaggi difficilmente si guardano, si incontrano, si toccano – è come se il piano dell’attore A non coincidesse con quello dell’attrice B, e viceversa, ma i due piani (restando due) si limitassero a giustapporsi (senza coincidere), come due lastrine trasparenti di vetro che scorrono l’una sull’altra. Per questo, Prouhèze e Rodrigue non possono incontrarsi mai, neppure quando sembrerebbero vicinissimi (nello stesso castello) e neppure quando compaiono insieme (una volta sola) nella stessa scena (che è poi quella dell’addio definitivo, in cui la figlia di Prohuèze prende il posto della madre nel cuore di Rodrigue). Non si tratta tanto di teatro, dunque, quanto d’un gioco di lastrine di vetro dipinto, un po’ da lanterna magica, la cui suggestione, d’altra parte, solo il cinema può efficacemente evocare.

Con queste precisazioni, allora, possiamo capire la sicurezza con la quale un giovane “direttore di scena” (quasi lo spirito del teatro) si presenta più tardi, accompagnato da un banditore con tamburo, nel quartier generale degli spagnoli a Cadice (che veramente ha tutto l’aspetto di una sartoria teatrale) e ordina agli inservienti di sbrigarsi a portar via gli arredi (un grande specchio, un riflettore): «Suvvia, zotici! Il pubblico si impazientisce! È teatro!».

È teatro, ma anche cinema: «Teatro. Cinema. È la stessa cosa!».

«Ecco il castello di Don Rodrigue. Rodrigue è molto malandato. Morirà…No, o la commedia sarebbe finita. Guarirà».

Poi rimanda indietro un’attrice presentatasi in scena con troppo anticipo.

Ora è sera, c’è chiaro di luna: «Fate scendere i proiettori, lassù!…Perché a teatro possiamo manipolare il tempo come una fisarmonica. Le ore durano e i giorni sono fatti sparire».

A teatro, o meglio nel teatro di Claudel reinventato da de Oliveira – che è quanto dire, al cinema.

È nello spirito di questo teatro, che un semplice scorrere di quinte, invece d’uno stacco di montaggio o una dissolvenza incrociata, può introdurre un cambio di scena; e la strada che porta al Santuario di San Giacomo di Compostela, la Via Lattea, può incarnarsi in un’attrice e parlare con la sua voce (come più tardi la Luna, esperta manipolatrice di ombre sui muri)…Così, non è altro che un’attrice anche la Regina Maria di Scozia, che vediamo davanti a uno specchio, impegnata a truccarsi, falsa-regina, trappola predisposta dal Re per ingannare Rodrigue.

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Anche il mare è un mare finto, da teatro, ma cela forse nelle sue false profondità il segreto della messinscena deoliveriana e del rapporto stesso cinema/teatro. Lo solcano due barche di pescatori, impegnati a pescare, sotto la guida di un professore di ittiologia, uno strano pesce rarissimo, che pochi hanno mai visto: è un pesce con un solo occhio, senza bocca, nel petto ha due ruote che girano …Non sembra che il professore stia descrivendo una macchina da presa? Il cinema è lì sotto, nella profondità delle finte onde, ma dopo tutto, non s’è mai veramente nascosto. Quello strano pesce, de Oliveira (con pochissimi altri) lo aveva già identificato da tempo, lo aveva pescato, ci lavorava e ha continuato a lavorarci fino all’ultimo.


Filmografia

Douro, Lavoro fluviale (Douro, Faina Fluvial) (Manoel de Oliveira 1931)

E la nave va (Federico Fellini 1983)

Il quinto impero – Ieri come oggi (O Quinto Império – Ontem Como Hoje) (Manoel de Oliveira 2004)

La scarpina di raso (Le Soulier de Satin) (Manoel de Oliveira 1985)

Mon cas (O Meu Caso) (Manoel de Oliveira 1986)

No, la folle gloria del comando (Non, ou A Vã Glória de Mandar) (Manoel de Oliveira 1990)

Parola e Utopia (Palavra e Utopia) (Manoel de Oliveira 2000)

Scarpette rosse (The Red Shoes) (Michael Powell – Emeric Pressburger 1948)

Sermoni – la storia di Antonio Vieira (Sermões – A História de Antônio Vieira) (Júlio Bressane 1989)

Singolarità di una ragazza bionda (Singularidades de uma Rapariga Loura) (Manoel de Oliveira 2009)

Un film parlato (Um Filme Falado) (Manoel de Oliveira )

Viaggio all’inizio del mondo (Viagem ao Princípio do Mundo) (Manoel de Oliveira 1997)


Bibliografia

Bressane J. (2014): Dislimite, CaratteriMobili, Bari.

Camões L. V. (1821): I Lusiadi.