Il cinema, da sempre, è affascinato dall'apocalisse: non tanto come concetto che induce a un confronto con la fine – essenziale nella dialettica vita/morte, prima/dopo che si viene a instaurare con un dispositivo che registra immagini già “passate” nell'atto di essere filmate e quindi da riportare alla vita – quanto per la sua implicita capacità di farsi fonte di visioni.

La conclusione di tutto come ricettacolo di possibilità insomma, che, nel mistero del momento ultimo del mondo, si svela quale sintesi di immagini definitive perché terminali e dunque, potenzialmente, infinite. Il cinema e l'animazione giapponese di questo dualismo hanno fatto tesoro, in simbiosi con l'approccio shintoista che lega la vita ai cicli di rigenerazione e rinascita di una natura che può essere al contempo divinità da celebrare o entità da temere nelle sue manifestazioni, per l'appunto, apocalittiche. Una natura, insomma, che ha in sé tanto i germi della distruzione, quanto quelli della ricostruzione e che pertanto può porsi tanto in legame di continuità con l'azione umana, quanto in rapporto di riequilibrio per le deviazioni causate dalla stessa.

Il mondo futuro immaginato da Hayao Miyazaki nel 1978 nella serie animata Conan il ragazzo del futuro, è stato perciò devastato dalla guerra, che ha avuto come maggiore conseguenza la riconsegna del pianeta alle acque: lo spostamento dell'asse terrestre ha causato maremoti e tsunami che hanno sepolto le terre emerse. In questo contesto va in scena l'ultima sfida del mondo, che è anche quella della sua rigenerazione: quella cioè fra i cascami della vecchia civiltà industriale (il sito urbano di Indastria, quasi un'appendice delle visioni futuribili dei decenni precedenti, iper-meccanizzate e classiste, da j'accuse alla Metropolis langhiana) e quella del ritorno a una vita rurale e di prossimità di High Harbour, dove si è realizzata l'armonia shintoista tra le persone e fra gli umani e la natura.

Aspetto ancora più importante, però, è come quest'epoca terminale sia ricettacolo ideale per una generazione giovane che ha sviluppato inedite capacità di rapportarsi alla vita: Conan, il ragazzo dalle capacità sovrumane, per forza e resistenza in acqua, e Lana, che può comunicare telepaticamente con uccelli e altri umani a distanza. La fine, insomma, altro non è che il segnale di un possibile nuovo stadio evolutivo. Se Conan è ancora legato comunque a un immaginario naturalista abbastanza essenziale, è con le opere successive che Miyazaki prosegue il suo discorso, dando forma a iconografie ancora più potenti. Lo scenario tossico di Nausicaa della valle del vento, che ha trasformato gli insetti nei giganteschi “Ohmu”, è un altro mondo post apocalittico che può ritrovare il suo equilibrio solo accettando la coesistenza con quelle nuove forme di vita dall'aspetto repellente, con il guscio chitinoso, i mille occhi e le antenne che avviluppano il corpo di Nausicaa per comunicare con lei.

Quando invece il contesto si sposta nei territori del fantasy puro, come accade nel successivo Il castello nel cielo, l'ideale edenico rappresentato dall'isola volante di Laputa non può prescindere da un'idea di decadenza dell'umanità: l'isola è infatti un rinnovato giardino che è sorto solo a fronte dell'estinzione dei suoi abitanti, la cui assenza ha lasciato campo libero alla natura, governata da malinconici e sgraziati robot che si occupano della manutenzione e capiscono il valore di un fiore. Al contempo, però, quel luogo di sogno è anche l'ultima arma definitiva cui l'umanità della terra brama per il controllo totale. Ancora una volta, solo il legame tra due bambini – che simboleggiano un nuovo futuro – potrà permettere al castello di liberarsi dei suoi cascami di morte per continuare a volare sotto forma di eterno albero della vita.

Altri autori coevi pure indagano il concetto dell'evoluzione sulla traccia fornita dal rapporto tra uomo, mondo e tecnologia, considerando anche gli scenari mutati che l'immaginario corrente sta ponendo in essere dopo la conquista della Luna: nel 1969, il professor Gerard O'Neill, fisico dell'università di Princeton, progetta con i suoi studenti dei cilindri spaziali da adibire a future colonie umane. Tre anni dopo, Yoshiyuki Tomino nella serie Mobile Suit Gundam, racconta una guerra totale fra la Terra e le suddette colonie, che reitera la dinamica di guerra su scala spaziale e che, tra gli incredibili scenari di distruzione che si vengono a creare, diventa anche il contesto privilegiato per inserire nel paradigma dell'umanità un nuovo stadio dell'evoluzione, i Newtype, nuovo tipo di spazionoidi che si sono adattati alla vita fuori dal pianeta natale, manifestando capacità e riflessi superiori.

Interessa notare, in questi casi, come l'evoluzione non contempli necessariamente una mutazione del corpo, non ancora protagonista unico dello scenario privilegiato, come accadrà un decennio dopo con le opere drammatiche di Katsuhiro Otomo (in animazione) o Shinya Tsukamoto (nel cinema live action) o ancora più di recente con l'Inu-Oh di Masaaki Yuasa, che si fa portatore di una gioiosa mutazione che diventa paradigma di una narrazione gender-fluid. Tanto Conan quanto i piloti di Gundam sono invece persone dall'aspetto normale, che riconducono la loro differenza a dinamiche interpersonali comunque sempre molto “terrene”: entusiasmo e altruismo oppure solitudine e problematicità con l'altro sesso.

Raggiungere il gradino successivo non comporta inevitabilmente conquistare una pienezza del vivere. La drammaturgia che ne consegue, può perciò permettersi di giocare nel rapporto tra l'infinitamente grande e il piccolo: quando Tetsuro inizia a manifestare i segni della mutazione corporea provocati dal progetto Akira, l'unica sua preoccupazione sarà comunque risolvere il conflitto di sudditanza psicologica che lo ha sempre legato al suo amico/rivale Kaneda. La possibilità di manipolare la carne e la materia stessa di cui è fatto il mondo, per guidare così l'umanità verso un nuovo percorso, per Katsuhiro Otomo diventa insomma secondaria rispetto al conflitto di una drammaturgia squisitamente interiore che è quella dell'uomo comune alle prese con il proprio microcosmo.

Non stupisce perciò che la lotta per ricomporre un mondo desertificato, nella serie Ken il guerriero (diretta da Toyoo Ashida a partire da un manga di Buronson e Tetsuo Hara), si articoli secondo i più puri dettami della soap-opera. I maestri delle più antiche arti marziali del mondo, manifestano capacità sovrumane, riescono a intervenire sui corpi (spesso giganteschi) degli avversari con la stessa capacità manipolatoria con cui la Cosa carpenteriana riduce la carne a puro territorio di esplorazione e reinvenzione continua. Ma la loro lotta per il futuro è “solo” una diatriba tra fratelli, la cui divisione è stata l'autentica causa della catastrofe globale, in una visione dove la cosmogonia e i legami di sangue sono tutt'uno. Una storia di distruzione e morte che, al fondo, è una storia d'amore come tutti i retroscena dei personaggi infine rivelano.

La maniera peculiare con cui cinema e animazione giapponese elaborano il conflitto tra la fine e il principio, è scritta nella natura stessa di un'industria abile a rivisitare dall'interno gli immaginari figurativi occidentali, attraverso l'arma del sincretismo culturale e della trasversalità, tipica di una civiltà che pur nella fermezza della propria identità, ha da sempre dovuto confrontarsi (in modo anche traumatico) con il resto del mondo, tra i cannoni del Commodoro Perry e le bombe di Hiroshima e Nagasaki.

Accade perciò che, nel 1974, il tentativo di mettere in scena le profezie di Nostradamus, ci consegni uno degli oggetti filmici più anomali del periodo: Catastrofe, di Toshio Masuda, è una sarabanda di ambienti naturali ostili, rifrazioni della luce che trasformano i cieli in enormi specchi, corpi che danzano davanti a soli di potenza nucleare, giovani biker che praticano il suicidio di massa, mentre la guerra totale trasforma gli hibakusha (i sopravvissuti alla furia atomica) in spettri che sembrano gli yokai della serie animata Bem il mostro umano, del 1968.

Opera quest'ultima, che nel gioco di apparenze tra folklore e modernità, ipotizza l'esistenza di tre sfortunati eroi che bramano un posto tra gli uomini mentre li proteggono tanto da demoni e vampiri quanto da umanissimi (e perciò feroci) invidui che sembrano usciti da un gangster movie occidentale. Tre figure che inseguono lo yokai boom del periodo, conseguente soprattutto il successo delle opere di Shigeru Mizuki, mangaka e grande ricercatore delle figure autoctone del folklore, ma che sulle ceneri di quello scenario costruisce un immaginario figurativo differente.

La sintesi la traccia l'icona per eccellenza, il Godzilla della Toho, incarnazione dell'incubo nucleare, eppure vittima suo malgrado di quell'incubo e creatura che andrebbe compresa nella tenacia con cui è riuscita a sopravvivere alla bomba che l'ha trasformato in kaiju, così come l'ha mirabilmente raccontata Ishiro Honda nel capostipite del 1954. Nello splendido Shin Godzilla, del 2016, Hideaki Anno ne rielabora l'aspetto, trasformandolo in un gigante sfigurato che passa per differenti stadi evolutivi (l'ultimo dei quali, solo suggerito dal finale, sarà forse quello di ricettacolo di una nuova umanità?).

A lui si contrappone una realtà che cerca di fronteggiarlo solo attraverso gli stanchi rituali delle attività politiche e militari, del tutto inefficaci a capire la complessità di quello che ha davanti – a farlo, in un colpo di genio puramente metanarrativo sarà lo scienziato interpretato proprio da Shinya Tsukamoto. Il finale, comunque, sa più di precario ristabilirsi dello status quo, ma nel frattempo una delle grandi icone della fine e del principio ha compiuto il suo ulteriore passo nella modernità, senza perdere le caratteristiche che lo hanno reso unico nel tempo

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