Vanna Carlucci

altPersi il contatto con il mondo: vi nascevo allora in quel buio desolato. I contorni delle cose salivano alle pupille ma non arrivavano al cervello. […] La realtà era questo frammettersi del buio e del chiarore che, ecco, laggiù, ricompariva, o era questo fermarsi nel buio a contemplare la luce, non per un gioco di contrasti e nemmeno di fervori, ma per lo squallido vizio di una ripetizione emotiva? (Il mare verticale, G. Saviane)

C’è come una grande sfasatura originaria che sfalda i corpi per ricomporli in altri modi, in altri corpi o frammenti, luci che cadono nel buio, in una lotta che impone sempre una rivelazione e una sopravvivenza, nel cinema di Grandrieux. I paesaggi sono sfondi isolanti, luoghi che si disfano di una forma e la realtà diventa amplificata, out of focus, così da staccarsi dal quadro e dal corpo, così da rendersi disturbante e disturbata. D’altronde la m.d.p. non fa altro che flirtare con il reale perché «il cinema non è una questione di Immaginazione» (P. Grandrieux), lo sfiora (il reale) e lo fora accogliendone la lenta oscillazione, un movimento che diventa passaggio, una cosa brivido direbbe Sartre, che posandosi scuote ciò che l’occhio tocca, ciò che lo sguardo poi ricrea.

Il cinema di Grandrieux scava in un universo onirico che ci costringe ad una lenta discesa dove le cose si rabbuiano, e – quando troppo esposte – si sovraeccitano di luce e si muovono convulsamente per una ulteriore deformazione dell’immagine: le sue figure «appaiono nell’oscurità, come in un sogno» (P. Grandrieux) come in una dimensione prenatale, dove la ripetizione emotiva è data da questo mai darsi a vedere completamente in cui l’immagine ancora non emerge, non si racconta ma si presta a una logica della sensazione determinata dal ritmo convulso dei corpi, figure che si staccano e si isolano dal luogo che diventa sfondo di risucchio, spazio chiuso e, allo stesso tempo, illimitato campo operativo.

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Quello che accade è ciò che Deleuze ha definito, per la pittura di Bacon, una liberazione di forze (di isolamento, deformazione, dissipazione e accoppiamento). Il corpo allora si fa sorgente del movimento, uno spasmo, pulsazione, territorio tellurico che a tratti sembra uscire dall’oscurità prima di ricaderci dentro. Il buio diventa matrice entro cui poter intravedere una forma, diventa la possibilità di una manifestazione così come, per la pittura di Bacon, si è parlato di rivelazione.

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In Sombre ad esempio, non si è mai certi dell’evento narrato come del luogo ripreso o del corpo nella sua perfetta registrazione anatomica perché per Grandrieux non conta mostrare ma entrare dentro una ferita costantemente aperta (lo stesso significato di Meurtrière ad esempio è feritoia) ed ecco allora parti di corpi, lembi di pelle, carne che più che vedersi, si sentono nell’attrito con altri corpi, dentro un campo di forze oscure che dovranno essere colte, montate e tratte in salvo. Per Grandrieux questo entrare in fondo all’immagine può avvenire solo se si è disposti a liberarsi di certe sovrastrutture per tornare agli occhi ancora ciechi di un bambino, di chi cioè vede il mondo non attraverso una percezione oggettiva, «ma attraverso una sensazione intima e segreta che colora le cose di significati affettivi» (Galimberti 2009, p. 307) e questa sensazione ha a che fare col desiderio, con la sessualità, con la paura, con il trauma profondo di chi per la prima volta «si intenziona a un mondo che intorno gli sta per nascere» (ivi, p. 308): si tratta di ricucire (montare) delle fratture o, se vogliamo riprendere un termine baconiano, di mettere «la visibilità del grido, la bocca aperta come voragine d’ombra, in rapporto con forze invisibili [e cioè] rendere visibili le forze dell’invisibile» (Deleuze 2004, p. 122).

Ancora, nei suoi film si tasta, si tocca, si portano i corpi alla bocca, si cerca cioè di rinvenire a una percezione primordiale attraverso Figure indomabili che sono strettamente connesse anche ad una componente sonora che stacca i corpi dalla loro inerzia: parafrasando le parole del regista, si giunge a sfiorare per la prima volta il mondo anche e soprattutto più con il suono che con le immagini, come quando, nei primi mesi di vita, il bambino possiede solo occhi membranosi, bulbi che sfidano il buio e la luce e che vedono solo mostri senza forma mentre l’udito è già pronto ad acquisire ogni tipo di “rumore”. Perciò entrare in un film di Grandrieux significa soprattutto carpirne il suono: in ogni caso si tratta di movimenti (quello del suono e quello dello sguardo) in cui «la musica, considerata come una successione di percezioni, può accordarsi soltanto con un’altra successione di percezioni » (Mitry 2002, p. 217).

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Avremo così l’eco abissale degli elementi venir fuori dal grido/bocca di Alexi in Un lac, la febbre nei corpi che danzano sulla musica dei Bauhaus in Sombre, il canto angelico e doppio di Lena in Malgré la nuit a rimarcare una progressiva discesa nell’oblio, oblio che produce una disarticolazione del linguaggio filmico e che presuppone un nuovo modo di predisporsi ad esso. Se c’è una narrazione – pensiamo al suo ultimo lungometraggio o, ancora, ad Un lac, La vie nouvelle e Sombre –, questa ad un certo punto diventa secondaria perché ciò che emerge prepotentemente attraverso un uso eterogeneo del supporto (pellicola o digitale) e l’utilizzo di elementi formali che variano dalla sovraimpressione alla velocità dei fotogrammi passando per l’utilizzo di una camera termica, è il senso di perdita, il camminare ciechi e convulsi forse febbricitanti in un mondo che avvertiamo a pezzi e che ci disperde rendendoci solo tracce percepibili.

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Bibliografia

Deleuze G. (2004): Logica della sensazione, Quodlibet, Macerata

Galimberti U. (2009): Il corpo, Feltrinelli, Milano

Mitry J. (2002): Storia del cinema sperimentale, CLUEB, Bologna


Sitografia

Baldassarri L. (a cura di): Malgré la nuit: intervista con Philippe Grandrieux, «Lo Specchio Scuro»


Filmografia

Malgré la nuit (2015)

Meurtrière (2015)

White Epilepsy (2012)

Un lac (2008)

La vie nouvelle (2002)

Sombre (1998)