Federico Rossin, passeur militante

L'arrivo del cinema fotochimico di Nicolas Rey al festival di Pesaro ha avuto quantomeno, fatto raro in questa «epoca malefica in stolto secolo», il valore di riaccendere gli animi e il dibattito, riuscendo a rinfocolare quella faziosità semidormiente e sonnacchiosa di noi critici, pacificati da legami di amicizie e convenienze professionali, che invece resta ancora una delle virtù redimenti del discorso possibile sul cinema, il suo valore dialettico.

Terminus For You (1996), Les Soviets plus l'électricité (2001), Schuss! (2005) e Anders, Molussien (2012) più l'ipnotica performance con tre proiettori Opera mundi ou le temps des survêtements (expanded, 16mm, bianco e nero) questo il novero di opere presentate nella retrospettiva curata da Federico Rossin.

Rossin, classe 1977, storico del cinema, critico, programmateur indépendant e formatore itinerante attivo tra Francia, Italia, Belgio e Portogallo, autore di saggi e articoli ecc. A dare una scorsa al suo curriculum ci si accorge di selezioni di film che per allure intima si apparentano a questa su Nicolas Rey, proposte sempre laterali insistenti sulle regioni di margine del linguaggio e dei meccanismi produttivi che informano il sistema cinema.  
Rossin indaga regioni di limes, tra sperimentazione, documentario e realtà cercando le possibilità di fuga dalla scontatezza dei generi codificati e dalle pastoie del sistema economico di produzione dei fondato sulla concentrazione di capitali. Da qui, come un montatore che selezioni i vari pezzi utili del girato, estrapola segmenti di cinema dialettico, problematico, con cui monta il suo film ideale, il suo palinsesto-discorso critico fatto di lacerti di cinema altrui. Una performance (critica) sulla performance (artistico-linguistica).

«Come curatore, ritengo la programmazione e il gesto di passeur già in sé come una forma di scrittura. Per me sono tutti essais, montaggi, etc» mi scriveva un giorno, riassumendo in poche parole il senso profondo di una operazione teorica, di critica cinematografica, che trova il modo di estrinsecarsi non attraverso il mezzo consueto e volatile del verbo, (lasciamo in volutamente secondo piano la mole di scritti e conferenze a sua firma), ma in una forma agentiva (l'organizzazione di una rassegna) che ha la stessa densità significante della parola scritta. Affascina questa idea barricadera e partigiana dell'allestitore di palinsesti-ideologo guidato da inoppugnabili ragioni etiche e di studio a schierarsi e sostenere attivamente una certa visione, quindi un'ideologia, del cinema. Un programmateur fazioso, nel senso positivo del termine, estraneo a quell'ideale di imparzialità cui per obbligo di forma si ispira il corrispondente modello istituzionalizzato, molto in voga all'estero, come da noi. Il “programmatore ufficiale” di sezioni o programmi di festival, proprio per l'intrinsieca carica di istituzionalità di cui si sente investito e per conferire un pondus di credibilità alla propria immagine pubblica, tende per lo più ad adottare, salvo sparute ma adamantine eccezioni, il modello di giustizia, equità e imparzialità che è proprio delle pubbliche istituzioni. Più un benevolo pater familiae del cinema che un salomonico selezionatore, la cui paternale ritornante è quella del «buon cinema» e della «qualità» al di là di ogni interesse personale o di parte, col corollario immancabile della necessità di attenzione verso i nuovi sguardi, orizzonti o frontiere della settima arte. La necessità tutta formale di creare un'immagine pubblica del selezionatore imparziale, ovviamente, si sbugiarda non appena si leggano in controluce le scalette o i programmi dei vari festival, in cui questo coacervo di idee del e sul cinema, gusti, credenze e competenze critiche personali (e nei casi meno nobili anche di convenienze e connivenze politiche, commerciali professionali o di casta) può essere letto agevolmente. Nulla di male, ovviamente, è la natura delle cose, il programmatore di palinsesti opera delle scelte, è allora che in qualche modo prende una posizione, diventa fazioso, oppure si rassegna a non scegliere veramente, media, rappresenta tutto e tutti all'insegna dell'imparzialità istituzionale ed equidistante.

Più proficuo dichiarare una Weltanshauung di parte, come implicitamente fa Rossin, stando così le cose, che in fondo significa solamente assumersi la responsabilità dell'inescludibile parzialità del nostro giudizio senza trincerarsi dietro il paravento dell'equidistanza istituzionalizzata.
A maggior ragione se, come nel caso suo, diventa motivo di esplorazione e reviviscenza di pezzi rari e resistenti di cinema, come questo Nicolas Rey, o Piavoli, o Królikiewicz e perfino Grifi.
Ben venga tanta faziosità, allora.

Nicolas Rey: fotochimica antagonista

Autrement, la Molussie è una trasposizione filmica sui generis del distopico La Catacomba Molussica, opera narrativa  di Günther Anders. Il film non mette in scena alcuno dei personaggi o delle situazioni presenti nel romanzo, ma alcuni suoi brani sono recitati dal regista Peter Hoffmann. Immagini dalla grossa grana, particolarissime per la qualità cromatica fredda, che evoca più sospensione che agghiacciamento, lunghi quadri statici di campi, autostrade, paesaggi non abitati da essere umano, si alternano a interni metropolitani popolati da figure indefinite, aperte a una infinita interpretabilità e squarci sulle architetture urbane. L'audio non racconta quasi mai la stessa storia dell'immagine e casuali sembrano anche essere i salti da una situazione all'altra che il montaggio ci impone. A questo si aggiunga il fatto poco comune di una struttura del tutto aleatoria, che ogni volta si genera diversamente attraverso un meccanismo di scelta casuale dell'ordine di proiezione dei vari rulli di pellicola che lo compongono.
Invece di tentare la strada solita dell'analisi minuta del testo, cercherei, in questo caso, di estrapolare alcuni concetti guida direttamente dalle asserzioni fatte da Nicolas durante la nostra chiacchierata pesarese.

«La forza dell'ideologia è quella di fingersi trasparente, di far credere che tutto rientri nell'ordine naturale delle cose. Straub citando Brecht nel periodo di Rapporti di Classe sosteneva che fosse necessario fare film che mostrino quanto il mondo sia strano, innaturale. È quell'effetto di distanziamento, di straniamento teorizzato da Brecht, rispetto a un mondo (il capitalismo ne è un esempio) che non rientra assolutamente nell'ordine naturale delle cose». (Il Manifesto, 24 luglio 2017)

Rey intende la strategia di occultamento dell’ideologia secondo quell'accezione negativa e marxiana di “falsa coscienza”, di rappresentazione emica della società da parte del ceto dominante e di imposizione tacita del suo quadro valoriale. Questa ideologia per perdurare necessita di rendersi trasparente, cioè di occultare le strategie e i percorsi del condizionamento che esercita sulla società, di far credere cioè che questo condizionamento non esista, e che tutto rientri nell'ordine naturale delle cose. Quando poi citando Straub, dichiara la necessità di fare film che smascherino le incongruenze del reale, Rey sta implicitamente ammettendo sia che i film hanno un ruolo nelle strategie di manifestazione\occultamento delle ideologie (con la minuscola, nell'accezione più gramsciana di “visioni del mondo”), e dell'Ideologia (con la maiuscola) marxianamente intesa, sia che, normalmente questo ruolo del medium cinematografico si esplicita nella direzione dell'occultamento.

«Film radio e settimanali costituiscono un sistema», scrivevano  Horkheimer e Adorno nel '47, riflettendo sul ruolo dei media audiovisivi  nel sistema cosiddetto della “industria culturale”, tema attualissimo in quest'epoca di digitalizzazioni e virtualizzazioni delle infosfere: «Ogni settore è armonizzato in sé e tutti fra loro [...] Film e radio non hanno più bisogno di spacciarsi per arte» (Horkheimer, Adorno 1966, pp. 130-131).

Questo tipo di attenzione per le implicazioni ideologiche e strategiche del film ci chiarisce, a un livello per ora generale, una delle tendenze di fondo dell’approccio di Rey al cinema, che sarà probabilmente critico e riflessivo, volto a una disamina razionale e non asservita della realtà, piuttosto che all'intrattenimento o al racconto di storie.

Richiamandosi a Brecht, Rey chiarisce che la chiave di volta del dis-occultamento è la produzione di un effetto straniante,  cioè l'introduzione di un qualche tipo di distanziamento dello spettatore; una discontinuità fenomenologica relativa alle modalità di manifestazione, tra mondo reale forme estetiche della sua rappresentazione. È infatti solo quando queste (la rappresentazione teatrale, il film) introducono un qualche grado di difformità rispetto a ciò che lo spettatore ritiene la norma, il modo normale di manifestarsi e di apprendere il mondo, che si può interrompere il flusso di emozioni dovute all'immedesimazione e aprire uno spazio per la riflessione critica.

Brecht riteneva che «quando il rapporto tra palcoscenico e pubblico si stabiliva sulla base dell’immedesimazione, lo spettatore poteva vedere solo quello che vedeva l’eroe del dramma e poteva provare solo le emozioni e i sentimenti suggeritegli dall’atmosfera delle situazioni sceniche. Le percezioni e i sentimenti dello spettatore si uniformavano a quelle dei personaggi in scena e il teatro non consentiva reazioni sentimentali proprie. Usando la tecnica dello straniamento lo spettatore è posto di fronte alla scena in modo critico e su essa opera una riflessione, delle considerazioni libere e non più guidate dall’autore» (Brecht 1975).

Applicando questo discorso al film, si avrà che sintantoché questo non si  discosta dal reale per modalità di manifestazione, e quindi di apprensione, le emozioni che inscena saranno vissute come reali, assorbendo interamente l’attenzione dello spettatore, e che quindi dovrà  intervenire una qualche forma di frattura della continuità realtà-rappresentazione filmica per distoglierlo da tale immedesimazione emotiva coi personaggi, permettendogli di liberare energie intellettive da utilizzare per una qualsivoglia forma di apprensione critica della realtà che vede rappresentata.
Dirimenti saranno le modalità di manifestazione del film, la forma filmica, a tutti i suoi livelli, da quello della recitazione e della direzione a quelli che dominano il montaggio, il suono e la luce, e tutti quei sottocodici del linguaggio cinematografico che possono essere sfruttati per creare le suddette discontinuità mondo\rappresentazione.

Da tutto ciò, ovviamente, emerge una lettura di taglio ideologico della classica querelle sul naturalismo-antinaturalismo della forma rappresentazionale, in cui le forme di rappresentazione mimetiche, che si danno cioè attraverso modalità di percezione e di senso uguali a quelle del reale,  evitano l'attivazione critica dello spettatore, lo divertono e lo distraggono, risultano funzionali alle sommerse necessità di guida del consenso da parte dell'Ideologia dominante, il capitalismo industriale, mentre quelle stranianti, antinaturalistiche,  in discontinuità col reale, lavorano nel senso opposto.

I conti tornano quando pensiamo che la stragrande maggioranza dei film commerciali, per lo più prodotti attraverso il sistema di finanziamento basato sulla concentrazione elitaria dei capitali, puntano alla mimesi perfetta del reale e sono tanto più apprezzati dal pubblico come da un certo tipo di critica allineata, quanto più intensa è l'impressione di realtà che restituiscono, la croyance che suscitano nella diegesi e nei fatti rappresentati.  
Nulla di nuovo, per carità, «L’immedesimazione è un pilastro fondamentale dell’estetica dominante» si leggeva già in quegli Scritti Teatrali di Goethe, che addirittura ritrovava in Aristotele i prodromi della questione mimetica «Già nella grandiosa Poetica di Aristotele si descrive come la katharsis (la purificazione spirituale dello spettatore) venga provocata per mezzo della mimesis» (Brecht, op. cit).

Il film mimetico, che attraverso la catarsi, l'irriflessività indotta dello spettatore, al giorno d'oggi diventa uno strumento di autorispecchiamento e propaganda muta del capitalismo, che quei film finanzia e produce, e della sua ideologia, che nel cinema si attualizzano in quella forma di organizzazione industriale della produzione e distribuzione delle pellicole che chiameremo, con dicitura squisitamente adorniana, “industria culturale”.
Nell'esegesi dei film di Nicolas Rey, che nel brano citato direttamente a Brecht si richiama, dunque, si dovrà tener conto di questa dimensione ideologica e polemica dei fatti inerenti la forma, che dovranno essere interpretati, prima ancora che alla luce di considerazioni di tipo stilistico, estetico o linguistico, in ragione della sua volontà di attivazione del senso critico spettatoriale e di demarcazione degli aspetti contraddittori del reale. Il suo antinaturalismo non è estetico, è innanzitutto critico e ideologico. Le dis-sincronie suono e immagine, i deragliamenti e gli avvitamenti della visione, l'estetica fotochimica con la caratteristica grossa grana, che di primo acchito ci rendono enigmatici i suoi lavori, acquistano un senso diverso, se pensati nella loro strategicità ideologica e critica. Sono meccanismi di spezzamento della continuità realtà-film, incongruenze con lo statuto ordinario del reale, tese a suscitare nello spettatore ciò che Benjamin avrebbe definito un piccolo “shock”, un senso di estraneità, che gli permetta di liberarsi dalle pastoie emozionali dell'immedesimazione e attingere al proprio pensiero critico.

«Il risultato finale, deve essere “fabbricato”» mi diceva Nicolas riferendosi all'unità cronologica e di senso tra suono-immagine che lui non dà né per scontata né per naturale «letteralmente costruito da me, dalla mia volontà. Penso che sia possibile pensare alla costruzione audiovisiva come all'assemblaggio di due elementi che restano indipendenti. Una volta che questa natura di costruzione appare chiara anche allo spettatore credo che sia possibile inventare anche cose che escano dalla convenzione e lo coinvolgano in maniera più intensa» (ibid.).

Il cinema di Rey rifugge la scontatezza delle convenzioni rappresentative e tecniche del cinema mimetico e a-problematico, e rimette in discussione anche quegli elementi del fare cinema che diamo per scontati. Anders, Molussien è un film diverso ad ogni proiezione, perché i vari rulli di pellicola in cui è contenuto sono proiettati in ordine casuale col metodo dell'estrazione a sorte: la mdp è a tratti montata su dispositivi che generano movimenti casuali e incontrollabili. L'irruzione perturbante del caso ci costringe, quasi, a interrogarci criticamente su quella nozione forte di volontà del regista che secondo la concezione convenzionale è il fondamento stesso del film, e la sua mutevolezza, inevitabilmente, pone domande sul concetto scontato che abbiamo del film come di una struttura chiusa e razionale, che si ripete identica a sé di volta in volta. Nelle lunghe inquadrature fisse e asincrone di paesaggi o autostrade siamo costretti a ricercare criticamente pratiche di senso alternative, perché molti dei riferimenti consueti, il nesso di causalità diretta tra le immagini e i suoni e la “normale” relazione di sincronicità che le lega il movimento di macchina come espressione intenzionale del regista nella guida dell'attenzione spettatoriale, saltano completamente e non ci sono utili nei processi di attribuzione del senso alle immagini.

Nemmeno il dispositivo tecnologico più scontato del cinema, la macchina da presa, si salva dalla furia critica di Rey. Nell'immagine del film industriale si tende a valutare, del risultato finale, solo la componente soggettiva, quelle qualità di organizzazione spaziale e prospettica, di colore e luce che dipendono dalla “creatività” del regista e del direttore della fotografia, qualità ottico fotografiche  che vengono apprezzate senza tenere conto del fatto che queste si esplicano all'interno di un range di possibilità ben delimitato, e dipendente dal tipo e dal livello delle tecnologie impiegate nella sua realizzazione. Il grado di definizione d'immagine, la risposta cromatica consentita sia dai dispositivi di ripresa che da quelli di riproduzione, la fedeltà della ripresa audio, la lunghezza focale consentita dalle lenti di ultima generazione, l'assenza o la presenza di grana, rumore ecc... dipendono dal livello tecnologico raggiunto dagli apparati impiegati. Il sistema industriale della distribuzione di immagini, attraverso la produzione di un numero elevatissimo di copie dell'originale e alla loro capillare diffusione sul territorio provvede poi ad educare lo sguardo degli spettatori, facendo tacitamente di queste possibilità tecnologicamente indotte uno standard di qualità visiva,  la norma del vedere in quella specifica era della tecnologia cinematografica. Uno spettatore medio dei giorni nostri, educato visivamente alle meraviglie iper mimetiche del digitale, troverebbe del tutto insoddisfacente il grado di fedeltà delle riproduzione della realtà consentito dal 16mm, nel periodo della sua massima diffusione  invece, faceva furore.

Nel discorso di Rey, al contrario, quello dell'accesso alle tecnologie di produzione e del loro livello tecnologico è uno snodo problematico fondamentale nel determinare tanto la dimensione etica del suo approccio al cinema, quanto le qualità iconiche delle sue inquadrature, che non soggiacciono più agli obblighi estetici derivanti dall'uso delle tecnologie industriali.

Il discorso da farsi a monte è extrafilmico, riguarda l'etica e le scelte politiche dell'uomo, prima ancora di quelle estetiche dell'artista. Il nostro regista ha una sana estrazione demoproletaria e dunque, a differenza dei colleghi del circuito commerciale e industriale, non ha alle spalle alcuna grossa produzione in grado di garantirgli l'accesso alle costose apparecchiature, né alle ancor più costose campagne di promozione e distribuzione che sono invece il pilastro portante di “quell'altro” cinema. Per sottrarsi alle limitazioni elitarie implicite in questo sistema di produzione e riuscire a fare comunque i propri film, allora, Rey ha pensato bene di improntare una pratica di recupero, restauro ed eventualmente modifica (è un ingegnere) di apparati fotochimici dismessi dalla grande produzione industriale, trovando una via di accesso ai mezzi di produzione del tutto alternativa a quella basata sul possesso di ingenti capitali.
L'azione del riciclo degli scarti ha valenza ideologica ed etica, denuncia la chiara presa di posizione dell'uomo Nicolas Rey rispetto al modello capitalista, che ha strutturalmente bisogno di  gettare via cose, beni, prodotti e persone per poterle rimpiazzare con esemplari sempre nuovi da poter vendere, per fare ulteriori profitti che consentano di continuare a produrre altri esemplari.

Eccoci quindi arrivati a quello snodo del discorso di Nicolas in cui etica politica, livello tecnologico e livello stilistico-espressivo del cinema si saldano in un connubio di mirabile coerenza.

È infatti innegabile che i mezzi di cui si dota, tecnologie “fotochimiche” che il sistema tecnologico  considera obsolescenti, superate dalla stessa tecnologia che le ha generate, che lui assume in ragione di una ben precisa presa di posizione ideologica, di resistenza civile al modello capitalista, determinino aprioristicamente alcuni caratteri fondamentali della qualità di immagine (la resa di profondità, la grana, la risposta cromatica ecc) ed impongano modalità e limiti ben precisi al montaggio, data la natura fisica e celluloidica della pellicola.

È interrogando criticamente queste caratteristiche e limitazioni tecnologicamente predeterminate, date come scontato assunto nel cinema industrial-mimetico, che Rey elabora la propria estetica iconica e di montaggio, metabolizzandole creativamente. Anzi a guardare il caso di Anders, Molussien sembrerebbe che le caratteristiche specifiche del medium tecnologico costituiscano per lui fonte di continua rielaborazione estetica ed espressiva. Il film, infatti, è girato su alcuni vecchi stock di pellicola AGFA regalatigli da un tale che se li era ritrovati in cantina, dove sono rimasti per una trentina di anni. Come si può facilmente immaginare l'azione del tempo ha radicalmente trasformato le qualità della pellicola, auto-esposizione a chiazze, grana aumentatissima, soprattutto una paletta dei colori completamente alterata per nuances e brillantezza. L'ideale di fotografia che voleva raggiungere, quindi, è stato immaginato a partire da queste alterazioni, e per essere ottenuto ha richiesto a Rey più di un anno di esperimenti e prove, in cui ha dovuto adottare una serie di tecniche specifiche innanzitutto per trattare la pellicola e poi per invenire una idonea tecnica per stamparli.

«Mi ci è voluto un anno di prove, per arrivare al risultato che vedi. Molto lavoro sulla pellicola. Ho crossprocessato tutto [cioè in fase di sviluppo ha usato un acido diverso da quello normalmente richiesto per ottenere particolari effetti cromatici, ndr], la ho trattata come se fosse un negativo dopo averla riversata in positivo[quindi credo che intenda dire che ha usato l'ECN-2, il tipo di processo con cui normalmente si tratta la pellicola negativa, ndr] e poi, per stampare ho fatto il blech bypass [saltare il bagno nella sbianca, ndr], in modo che i sali d'argento restassero sull'emulsione, per ottenere più contrasto e quei colori freddi. E anche per la stampa ho dovuto fare molte prove per arrivare a queste immagini granulose e atemporali, che volevo fascinose come un quadro di Caspar David Friedrich» (ibid.).

Dall'etica alla scelta tecnologica e da qui al linguaggio, la coerenza interna del discorso di Rey non potrebbe essere maggiore.
È con queste consapevolezze che dovremo affrontare i criptici quadri di Anders, Molussien non tentando di rinvenirne il senso nella singola inquadratura o scena ed elaborandolo a partire dai convenzionali rapporti di senso suono-immagine dispiegati nella simultaneità, né nel montaggio, inteso come messa in serie lineare, consequenziale e cronologica delle sequenze. Si tratterà, prima di tutto, di attivare la nostra ricezione critica e riflessiva al fine di collocare quanto udiamo e vediamo nel contesto di un più vasto discorso, che al tempo stesso definisca e trascenda i limiti del film.

«Nelle scuole di cinema ti insegnano che ogni istante deve essere perfettamente composto, facendo corrispondere il suono all'immagine e ogni singolo momento deve avere un suo senso, il che per me è una forma di riduzione a dir poco delirante, tipicamente televisiva» (ibid.).

Per Nicolas il processo di significazione non è puntuale, di istante in istante, e non è una attività cerebrale autoconclusiva, nel senso che rimane aperto a possibilità interpretative diverse, e, ancor di più, non soggiace interamente alla guida razionale del regista, perché postula sempre la cooperazione semantica dello spettatore, che dovrà produrselo autonomamente a partire dagli elementi schermici.

«Nel singolo istante mi interessa che ci siano le sensazioni,  mentre il senso è una composizione di elementi che lo spettatore realizza autonomamente, in una prospettiva molto più ampia. Per questo posso permettermi queste collisioni tra suono e immagine o tra testo e rumore eccetera, perché non sento l'obbligo di dover produrre il senso nella dimensione dell'istante singolo» (ibid.).

Da qui, da queste nuove consapevolezze sul cinema di Rey si potrebbe partire ora per il lungo viaggio analitico all'interno di Anders, Molussien, il che finirebbe per dilatare a dismisura una riflessione già molto estesa, mi limiterò dunque, in chiusa, a citare un breve stralcio dal Manifesto Dell'Asincronismo, che nel 1928 firmarono Ejzenštejn, Pudovkin e Aleksandrov, che pur nella obsolescenza delle concezioni di fondo è ancora in grado di dirci qualcosa su una certa idea di cinema.

«Solo l'utilizzazione del sonoro quale contrappunto in rapporto alla scena darà nuove possibilità allo sviluppo e al perfezionamento della regia.
I primi lavori sperimentali del cinema sonoro devono essere indirizzati nel senso di una discordanza netta con i quadri visivi. Soltanto il "contrasto" darà la sensazione voluta, sensazione che condurrà poi alla creazione di un nuovo contrappunto orchestrale di quadri visivi e auditivi.» (Ejzenštejn, Pudovkin, Aleksandrov, 1928)
A voi inferenze e conclusioni.


Bibliografia

Brecht B. (1975): Scritti teatrali I, Teoria e tecnica dello spettacolo, 1918-1942, Einaudi, Torino.

Ejzenštejn M.S., Pudovkin V.I., Aleksandrov G.V. (1986): Il futuro del film sonoro. Dichiarazione, in Ejzenštejn, La forma cinematografica, Einaudi, Torino.

Horkheimer M., Adorno T.W. (1966): Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino.

Vicinelli G. (24 luglio 2017): Nicolas Rey, cinema mutante e militante, in “Il Manifesto”.