Un palindromo è come un’immagine allo specchio, che ritorna uguale e diversa, a tratti deformata, riflesso di un’identità che deborda oltre la matericità corporea per sconfinare il limite ultimo, ma anche simulacro di una frammentazione ontologica. La visione cerca di assumere una sua forma, una consistenza che rimane un mistero velato tra il visibile e l’invisibile. Elle, arcano palindromo declinato al femminile, in bilico tra ciò che è e ciò che si vorrebbe essere, in una duplicità destinata a rimanere distinta, senza possibilità di riconciliazione, dove la realtà è una (s)composizione cubista smarrita in una vertigine.

Quello che non so di lei, diretto da Roman Polanski e scritto a quattro mani con Olivier Assayas, è un lento deragliamento che conduce una scrittrice, Delphine Dayrieux (Emmanuelle Seigner), a smarrirsi tra le pagine di un racconto non scritto, in piena crisi con la pagina bianca, fino all’incontro con una sua lettrice, Lei (Eva Green), enigmatica, magnetica e mefistofelica.
Lei/Elle è una figura speculare, che si pone quasi sempre frontalmente rispetto a Delphine, un’immagine ritorta e contorta, dalla mimica facciale forzata e innaturale, volutamente dipinta dal regista come un barlume (o)scuro, una deformazione della realtà. La mdp si concentra sulla giovane donna dopo una lunga carrellata intenta a scrutare i volti della gente comune, in fila per una dedica sul nuovo libro, ennesimo successo editoriale, della scrittrice del momento.

Percorso ellittico che si ricongiunge proprio lì dove era iniziato, come il processo di creazione, quando l’entusiasmo sprofonda nello sconforto di dover intraprendere un cammino artistico ancora ignoto, ma sicuramente faticoso. Si cerca rifugio in una realtà altra, in un angolo oscuro della mente, dove l’oggettivizzazione non è nel visibile, ma vive e si nutre come coalescenza dell’invisibile; ciò che emerge è puramente sensoriale, «il senso è visibile, ma non è incompatibilità tra l’invisibile e il visibile: il visibile ha esso stesso una membratura di invisibile, e l’in-visibile è la contropartita segreta del visibile, non appare che in esso […] è nella linea del visibile, ne è il fuoco virtuale»1M. Merleau-Ponty, Il visibile e l'invisibile, p. 248.

Presenze fantasmiche si muovono in una destrutturazione (in)volontaria del reale, distruggendo il visibile per crearne un nuovo, così come annullando il sé per poter rinascere, per poter creare dalle macerie. Come un «demone suggeritore», così lo definirebbe Gesualdo Bufalino, pronto a suggerire le trame future delle creazioni e a svelare bagliori di luce e ombra rimasti nascosti.
In questa oscurità, voluta, cercata e desiderata, ondeggiano e danzano fantasmi che rincorrono la coda della morte, anelano alle tenebre, come quelle che avvolgono gli interni, metafora della mente di Delphine, per poi tornare ad albeggiare nei baleni luminosi, scintillanti solo dall’esterno. Oltre la finestra, oltre il vetro da cui traspare, in contrapposizione, nel palazzo di fronte, la nemesi della donna, il palindromo carnificato di materia evanescente e cupa, Elle. Elle sulla pagina, Elle nella vita, seduttiva, sfuggente, ostinata e tiranna. L’occhio di Delphine è travolto, girato nel suo interno; osserva e si osserva, un’interiorità vacua che si riflette nell’esteriorità.

Le tematiche ossessive del regista si palesano anche in questa sua nuova opera: l’indugiare nell’introspezione dell’animo umano, scandagliando tra le tenebre che lo avviluppano, la circolarità, il duellare continuo tra realtà e finzione, la claustrofobia e i rapporti con l’Io. Come in Il coltello nell’acqua e Repulsion, tra i suoi primi lavori, anche in Quello che so di lei gli spazi sono sempre più ridotti, si stringono intorno al corpo della scrittrice e della sua amica/nemica. Sin dalla prima scena, nella libreria, le due, una di fronte all’altra, sembrano le uniche presenze in quella stanza così affollata; alla festa, poco dopo, Delphine sembra soffocare, tra le persone che si stringono intorno a lei, le parole, i respiri, un contatto fisico asfissiante e claustrofobico. 

Il regista polacco, formatosi presso la Scuola nazionale di cinema di Lodz, pone al centro della sua indagine il rapporto tra Delphine e Elle, le scruta da vicino, in un riflettersi continuo dell’una nel volto dell’altra, una contemplazione simmetrica in una superficie contorta. Se in Repulsion (1965) Carol è dipinta nelle sue ossessioni attraverso atmosfere espressioniste, tra le angolature diagonali della mdp, riprese dal basso e la realtà allucinata percepita dalla mente della giovane, qui scorre tutto in modo volutamente più pacato, quasi seguendo una narrazione lineare, senza mai debordare in un immaginario visionario e psicotico.

Come in Personal Shopper, di Olivier Assayas, di cui questo lavoro polanskiano eredita la percezione del visibile, l’immagine ha una sua dualità, è come se fosse riflessa in una superficie cristallina, immagine speculare e immagine reale, trovando la sua oggettivizzazione nell’elemento simbolico. La circolarità narrativa conduce lo spettatore su quella pagina che si era chiusa nelle prime battute, sull’opera conclusa, ora la pagina è bianca, un’unica parola la riempie, Elle. Le mani intente a scrivere, prima una dedica, poi il nome di una nuova creazione. 

Un foglio/sguardo rivolto verso lo spettatore e verso Delphine è il portale che separa la realtà dalla distorta percezione della stessa, questa deformazione del visibile accompagna il processo creativo e la sua genesi. E si torna a «I know you». In quelle parole che in Personal Shopper erano scritte su uno schermo, provenienti da un’entità sconosciuta, priva di corpo, che agisce e si muove tra percettibile e impercettibile. La spinta è la conoscenza della propria identità; la ricerca è il contatto con se stessa: sentirsi, toccarsi, per trovarsi, per avere forma e dare forma all’arte del creare. Come affermava M. Merleau - Ponty, in L’occhio e lo spirito: «L’enigma sta nel fatto che il mio corpo è insieme vedente e visibile. Guarda ogni cosa, ma può anche guardarsi, e riconoscere in ciò che allora vede “l’altra faccia” della sua potenza visiva».

La musica nelle opere di Polanski disegna la geografia delle emozioni, traccia le linee emozionali che disegnano i rapporti (inter)personali, un dialogo sentimentale tra il film, le sue creature sullo schermo e l’occhio. Il jazz di Komeda introduceva lo spettatore nell’algida atmosfera di Il Coltello nell’acqua, qui invece, con le note di Alexandre Desplat, la sinuosità di una sinfonia stridula ma armoniosa, nella sua circolarità, senza gridare, conduce lo sguardo tra fantasmi, tenebre baluginanti e prevedibili vertigini, in una dialettica tra dimensioni diverse, ma parallele, mappatura di una mente che necessita di luoghi d’ombra per vivere, per creare. Come sostiene Paul Valéry: «la luce suppone d’ombra una smorta metà».

 

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