Pasolini di Abel Ferrara, o i Pasolini di Ferrara, è un esempio eclatante di film proteiforme: prospetta almeno due versioni del poeta e del suo corollario di materia letterario-cinematografica. La prima, quella proiettata al Festival di Venezia (e circolata per niente nelle sale), con la sua complessa architettura linguistica, che mostra un personaggio enigmatico, più chiuso dentro le sue elucubrazioni e i suoi enunciati anglofoni (con sprazzi improvvisi d'italiano); la seconda molto più corrispondente all'agiografia pasoliniana sedimentatasi almeno dal '75 a oggi, che segue il poeta nella sua presenza “mimetica” (perfettamente parlata, da Gifuni) dentro una Roma riconoscibile (e perciò come rassicurante, nonostante la violenza che vi regna), molto diversa da quella allucinata ed estranea della prima versione, allucinata per confusione di lingua ovviamente: anche se l'impressione è di assistere proprio a un altro film, a un altro, diverso approccio iconico.


La versione doppiata scorre liscia nella sua mimesi, nonostante le aperture fantastiche intorno a Porno-Teo-Kolossal, perciò si possono capire (non certo assecondare) anche certe obiezioni fin troppo risentite degli agiografi verso la vaghezza del referto biografico; ma la versione originale procede in maniera accidentata e dolorosamente stratificata, dando una densità straordinaria proprio a quegli inserti poetici che del resto sono integrati perfettamente nel palinsesto del film e rappresentano la risposta a chi, forse giustamente, si chiedeva dove fosse la poesia del poeta nel Giovane Favoloso di Martone: qui invece la poesia si appropria degli spazi e si riproduce proprio su basi pasoliniane, che peraltro sembrano essere anche i costituenti impliciti della poetica di Ferrara.

Allora è su una base sperimentale, di composizione di materiali eterogenei, e di plurilinguismo (guardando magari in tralice a certa meditazione linguistica di Empirismo eretico) che si snoda Pasolini, quello multilingue “veneziano”, traducendo in sequenze spesso funeree, altre volte vitali e tenere (e in questa bipolarità declinandosi anche l'erotismo) e accanto a una particolare resa dei dettagli di una biografia così sottratta all'oleografia, brani da Petrolio, da interviste (quella con Colombo soprattutto, da cui emerge il turbamento, la fragilità di un Pasolini presago della fine) e da sceneggiature rimaste inevase. Perciò Ferrara si misura direttamente con la scrittura, la poesia pasoliniana, facendola propria eppure non disperdendone il respiro mitico, che si tratti di immaginare un deserto rosa (forse pensandolo in continuazione con quello di Teorema, come smarrimento della borghesia) o di favoleggiare Ninetto Davoli e Riccardo Scamarcio viaggiatori, magi randagi (come il film di Citti tratto appunto da Porno-Teo-Kolossal) attraverso i mondi, fino ad ascendere, a guardare alla luna, e mettersi in attesa possibilista (che confliggerebbe con il terribile nichilismo di Salò o dell'“articolo delle lucciole”), quando Davoli risponde a uno Scamarcio spaesato che «la fine non esiste: aspettiamo; qualcosa succederà». Mentre la biografia è trasposta non aderendo a un calco pasoliniano risaputo, ma anzi costruendo un personaggio quanto più estraneo possibile rispetto al referente, pur in sembianze (quelle di Willem Dafoe) molto somiglianti.

Un Pasolini come estraneo a se stesso e al mondo, che parla inglese biascicando a volte qualche parola in italiano, mentre i borgatari usano il romanesco e Carlo (che si esprime in inglese) all'inizio chiama «amore» (con ottima pronuncia) uno dei ragazzi che si appresta a suggere nel Pratone della Casilina. Ma oltre a scoprirlo spaesato, distante dagli altri, per via linguistico-semantica, Ferrara lo rende straniato, cioè poetico nell'accezione sklovskiana; lo sottrae all'automatismo, alla retorica della percezione che il pubblico ha di Pasolini e lo staglia in una zona di profondità, spessore, oscurità, appunto di poiesi. Oppone una visione (del poeta) con il suo portato di contraddizioni e ambiguità endemiche all'immagine, rispetto al discorso corrivo sul poeta, all'automatismo dell'idea di Pasolini (agiografia) che ne fagocita la figura, la sua stratificazione, assorbita nelle pieghe cronachistiche, facilmente riconoscibili (e paradossalmente rassicuranti nonostante la morte violenta). E “oscurando” l'oggetto della sua rappresentazione (non più riconoscibile) dentro un anti-universo di sogno (e di incubo), gli ridà dimensione artistica, praticando l'oltranza, una qualche trascendenza, che è una scalinata e una faticosa ascesa a un cielo notturno, ma con luce lunare.

 

Bibliografia delle opere citate di Pasolini


Empirismo eretico
(Garzanti, 1972)

Petrolio (Mondadori, 2005)

Porno-Teo-Kolossal (Cinecritica, 1989)



Filmografia:


Il giovane favoloso (Mario Martone 2014)

Pasolini (Abel Ferrara 2014)

Salò o le 120 giornate di Sodoma (Pier Paolo Pasolini 1975)

Teorema (Pier Paolo Pasolini 1968)