Valentina Dell'Aquila

altForse davvero si consiste negli oggetti, in quegli strati che si utilizza, si rappresenta... Disporre della natura, portarla al suo paradosso, introdursi nel meccanismo incastrato di un’idea e lastricarla: il pensiero si deduce dal pensiero, dalla sua conseguenzialità ri-costruita (appunto a strati), dal contrasto col contingente. Il potere è nella sua intensificazione, nella realtà, nel suo interno. Ecco semmai il ruolo del reale (che poi è astrazione: reale forse come potere, nell’esterno del suo contagio o nell’esercizio di questo, produzione e riproduzione).


Marian di From a Night Porter’s Point of View, ad esempio, non restituisce che l’ossessione verso quell’apparato burocratico, già seguito in Urzad, in cui l’endemica necessità del racconto andava svanendo nella frammentazione della presenza (che poi è anche frammentazione del corpo: un corpo acefalo, porzionato, soggettivato, un corpo produttivo − vedremo arti: quindi movimenti-produzione, oggetti-produzione; la presenza è ridotta al macchinico, sì che l’oppressione è nella capitalizzazione della macchina da presa, non più dell’attore − in quanto al servizio). La funzione diagrammatica di Marian è nel paradossale disgelo della monomania repressiva che si fa micropotere, prolifera nella peggiore delle astrazioni e infine si perde nell’edipismo della sua tirannia (racconterà beffardo: «tutti hanno un passatempo: a me piace controllare; mi piace controllare, confiscare, togliere... è questo il mio hobby»).

Eppure si tratta di un cinema che non deve nulla all’ideologia. Ne è semmai l’opposto: il risultato è uno sbarazzarsi dell’ossessione socialista pur aderendo al suo pallore documentaristico − il che vale a dire: maggior libertà rispetto alla fiction, evidentemente più sorvegliata dalla censura (del resto la maggior parte dei primi lavori sono prodotti e supervisionati dalla WFD, dall’Ufficio di censura dello Stato, dalla TV polacca − Zdjecie, Z miasta Lodzi, Fabryka, etc. − spiega Kieslowski: «più la censura è forte, più è facile aggirarla, e per noi era importante lavorare con la censura, era nella censura il nostro lavoro»). In Urzad la riduzione a pura alienazione (consapevole, e lo vedremo con l’epilogo e l’idea d’archivio come spettro del defunto, cadaverizzazione e Stato), a puro assoggettamento astratto (oggetto estraneo: la macchina diventa l’uomo e l’uomo la macchina - macchina in quanto deprivazione, acefalia), è nella trascuratezza della camera, nel suo essere al di fuori del sé, o forse eccessivamente in sé), nella parola sottratta al suo emittente, nel fuori sincrono: a parlarci è la parola stessa, quella dello Stato.

E ci sarebbe quel che Deleuze chiama «divenire-minoritario», ovvero l’impotenza di uno Stato e la sua minoranza subordinata e oppressa dall’esercizio del suo ufficio. Un divenire poi oggettualmente indipendente (ad esempio delle mani del lavoratore rispetto a se stesso − cosa che del resto avviene in Fabryka, o Le teste parlanti, insomma, scrive Marx: «il passo decisivo è compiuto: la mano è diventata automatica, il soggetto produce l’oggetto». Si tratta di una condanna a morte − direbbe Kieslowski − della sepoltura di una società in cui i sistemi e le procedure sono superiori agli esseri umani, in cui si guarda ai micro mondi, alle microlesioni nei mondi attorno. E i titoli, come un certo uso passivo della camera, del resto, didascalicamente lo suggeriscono: Hospital, The Factory, The Office (Kieslowski) o The Primer, W.G. A Weaver, The Carpenter, Foreman on a Farm (Wiszniewski), The Family (Halladin), Energia (Slesicki), The Musicians (Karabasz). Non si tratta di denuncia, lo sappiamo: quanto meno la denuncia sarà esplicita (e in Kieslowski se ne parlerà sempre), tanto più sarà la descrizione stessa a dissidere. Una dissidenza impossibile, oltretutto (a detta dello stesso autore), poiché vana ne è la comprensione stessa. Torna l’idea del cinema come dipartita: mentre (si) rappresenta, la vita si manca. E il linguaggio è una colonia, una produzione che non lascia spazio; la verità poi limita, si limita: «il mondo cinematografico è un mondo morto, illusorio, fatto a pezzi, non trattiene che l’epidermide e quello che ne può ricavare» (Artaud 2001, p. 79). Di qui l’inutilità di trattenervi il reale al di là del giusto disarmo.

In Urzad, come del resto in Zdjecie, Z miasta Lodzi, Bylem zolnierzem, Fabryka, Miedzy Wroclawiem a Zielona Góra, si cerca ossessivamente quel che Bazin chiama oggettivismo tirannico. Si tratta di legare il visibile al suo (minimo) trattamento materico (con riproduzioni fedeli, caratteri tipici, circostanze tipiche). Ormai è un fatto che si parli di questo in riferimento a un certo documentarismo della scuola di Lodz e dintorni degli anni Sessanta e, sappiamo, nessun individuo ha precisamente le idee di un altro circa la più identica cosa, le diverse viste nelle diverse misure... c’è però qualcosa di estremamente contagioso e seriale. Karabasz, Halladin, Slesicki, Wiszniewski, Krolikiewicz, Niedbalski. Così come nei lungometraggi dell’immediato dopoguerra ci si è occupati massivamente di raccontare l’occupazione, il ghetto, la ricostruzione (Buczkowski, Ford, Wajda, etc), e fino al 1956 il cinema polacco sarà perlopiù impegno, lotta ideologica concordata (o talvolta manomessa) dallo Stato.

Ancora, se ne Le teste parlanti ci si immerge in un sistema di fluidi umani e parole crescenti (quell’occhio ostinato all’altro), o si obbedisce a un piano di punti e soggettivazioni (oggettivate e seriali) in cui l’estetica è di fatto «inseparabile dalla sua efficacia» (poiché subordinata all’allucinazione della parola e alla sua utilizzazione, alla sua urgenza), in Senza fine avverrà l’esatto opposto: si approda a un disegno fotografico che sarà da lì necessario al racconto. E il racconto sarà necessaria ossatura per sostenerne la politica, incastrarvi una non troppo sotterranea militanza. Una semiotica, quella della finzione, che distruggerà tutta quella precedente, ne conserverà residui, o meglio: si svilupperà residuale grondando porzioni primitive di film in film. Si abbandona l’oggetto... Senza fine (come Film Blu) è nel corpo, nell’esercizio della morte, o dello spettro come investimento dispotico a venire: un corpo − questo defunto − che si disfa nel sessuale: «la morte costituisce un pericolo magico − scrive Bataille − che agisce per contagio, al di là della distruzione futura, ricade adesso» − un cadavere che prende febbrilmente il posto dell’uomo.

E appunto: nell’ossessiva ricerca tra drammaturgia e oggettività, di finzione, del resto, si parlava già negli anni di Lodz con il primissimo Tramwaj, o in Koncert życzeń: esili trame e una serie di atteggiamenti artificiali, impacciati, volutamente irrisolti (se non nei filamentati sguardi di desiderio). O l’autobiografico Personel, in cui l’attorialità approssimativa gronda e scivola nell’identità essenziale dei personaggi, naufragando (dal teatro o al di là di questo) nella fedele staticità del reale. «Per questo gli ignoranti come me troveranno in questo film la più chiara e completa iniziazione possibile» (Bazin 1973, p. 29).


Bibliografia di riferimento

Artaud A. (2001): Del meraviglioso, Minimum Fax Cinema, Roma.
Bataille G. (1991): L’erotismo, ES, Milano.
Bazin A. (1973): Che cos’è il cinema?Prefazione di A. Aprà, Garzanti, Milano.
Marx K. – Engels F. (1974): Scritti sull’arte, Laterza, Roma-Bari.

Filmografia

Bylem zolnierzem (Krzysztof Kieslowski 1971)
Energia (Maciej Slesicki 1967)
Foreman On a Farm (Sztygar na zagrodzie) (Wojciech Wiszniewski 1978)
From a Night Porter’s Point of View (Z punktu widzenia nocnego portiera) (Krzysztof Kieslowski 1979)
Hospital (Szpital) (Krzysztof Kieslowski 1977)
Koncert życzeń (Krzysztof Kieslowski 1967)
Le teste parlanti (Gadające głowy) (Krzysztof Kieslowski 1980)
Miedzy Wroclawiem a Zielona Góra (Krzysztof Kieslowski 1972)
Personel (Krzysztof Kieslowski 1976)
Senza fine (Bez konca) (Krzysztof Kieslowski 1985)
The Factory (Fabryka) (Krzysztof Kieslowski 1971)
The Family (Rodzina) (Danuta Halladin 1971)
The Carpenter (Stolarz) (Wojciech Wiszniewski 1976)
The Musicians (Muzykanci) (Kazimierz Karabasz 1960)
The Office (Urzad) (Krzysztof Kieslowski 1966)
The Primer (Elementarz) (Wojciech Wiszniewski 1976)
Tramwaj (Krzysztof Kieslowski 1966)
Tre colori – Film blu (Trois couleurs: Bleu) (Krzysztof Kieslowski 1993)
Wanda Gościmińska. A Weaver (Wanda Gościmska. Włókniarka) (Wojciech Wiszniewski 1975)
Z miasta Lodzi (Krzysztof Kieslowski 1968)
Zdjecie (Krzysztof Kieslowski 1968)