Una coppia viaggia in una jeep scoperta, nel mezzo della selva. Chiacchierano. Il meccanismo del campo e controcampo mi fa pensare a Marlowe-Bogart e Vivian-Bacall, anche loro in auto, nel Grande Sonno (1946) di Hawks. Ma la nostra coppia, che viaggia sulla strada malmessa di un'isola tropicale, sembra in cattive acque: dopo aver trovato la loro personale Key Largo nelle Filippine, è impegnata a fuggire da tutti quelli che dal "grande sonno" si sono appena svegliati: i morti viventi.

Eppure, ascoltandone il dialogo, nulla farebbe pensare ad una catastrofe, ma solo ad un'avventura, o ad una storia d'amore che sta nascendo (peccato non aver ritrovato il film su youtube per selezionare il fotogramma esatto. Nell'immagine in alto lei non sorride, ha gli occhi chiusi). I due stanno giocando alla coppia in vacanza: lui le dice «ci siamo rovinati il fine settimana»; e lei «beh, non importa, non sapevamo dove andare»; lui quindi incalza, le chiede «che piani hai?» e lei «sono libera», mentre si accomoda, con deliziosa civetteria, i capelli umidi di sudore; «Che casualità. Anch'io. Per essere esatti, non ho la ragazza e mi piacerebbe...». Ci si può amare anche quando il mondo sta per finire? Ci si può amare quando i morti si risvegliano? Durante la dittatura militare sui muri di La Plata e Buenos Aires appariva questa scritta, quando  essere scoperti scrivendola significava venire imprigionati, torturati, desaparecidos: «El amor vence», ricordo di una frase di Virgilio, «amor vincit omnia», che è anche il titolo di un quadro di Caravaggio oggi a Berlino, «con un Amore ridente in atto di dispregiar il mondo, che tiene sotto con diversi stromenti Corone, scettri et armature», e che potrebbe sorgere in sovrimpressione, fra i palmizi, la coppia, la jeep. L'immagine della tela barocca dentro il fotogramma di Zombie 3 di Lucio Fulci.

Può davvero l'amore vincere quando attorno ci sono solo rovine? E che significa vincere? Lei non lo sa ancora, ma morirà nel lago artificiale di un resort con le gambe staccate a morsi. Entrambi non lo sanno, ma il pezzo di strada che stanno percorrendo è stato dichiarato zona contaminata, e l'esercito pensa di uccidere tutti coloro che si trovano all'interno di questo "stato di eccezione". Il potere non pensa di trattare i vivi come se fossero già morti. Pensa di trattarli come «morti viventi». A chi appartiene il corpo che ritorna? Che cosa sa il corpo che ritorna? Che cos'è che compie il potere su questi corpi che non sono né vivi, né morti? Infine, i film di zombie permettono di aggiungere un capitolo in più al libro di Canetti Massa e Potere: alla massa dei morti segue la massa dei non-morti. Amore, Potere, Massa. Cominciamo dalla fine.

Se la massa, secondo LeBon, è vittima di un particolare sentimento associativo, anche quella dei morti sembra scossa da un'immagine che la muove all'azione concertata; eppure, ognuno di loro è solo senza sapere di esserlo, perché i morti non sanno, solo «vogliono», senza sapere di volere. La massa, come scrive Benjamin riferendosi alla Germania durante l'inflazione, (cito a memoria), è vittima di uno strano paradosso: da un lato pensa solo al più meschino interesse privato, dall'altro il suo comportamento è condizionato da quello degli altri. E, più di ogni altra cosa, coloro che la formano «vanno alla deriva, alienati dalla vita». I non-morti sono una massa alienata, alla deriva, dove, in una contraddizione solo apparente, ognuno è una monade pulsionale (estremizzazione de «l'interesse privato» di cui parla Benjamin) che si muove in gruppo («condizionata dal movimento degli altri»). Accade lo stesso alla massa pilotata della società dei consumi: è l'associazione famosissima proposta da Romero, fra i «non-morti che divorano» e i «non-vivi che consumano» nella sequenza dell'ipermercato in Dawn of the dead (1978). Consumed diventa la parola magica che associa la fame di carne alla fame di merce: ed è anche il titolo dell'unico, geniale libro di David Cronenberg, che associa antropofagia e consumismo. Tutti questi elementi ci fanno venire alla mente un breve montaggio di immagini e sequenze.

I sopravvissuti del film di Romero entrano nel supermarket e chiudono le porte dietro di loro, mentre i morti cominciano ad accalcarsi davanti alle porte a vetro; in un filmato trovato su internet, due addetti di un supermarket aprono le porte davanti alla massa dei consumatori durante il black friday; se nel film dei morti viventi questi finiscono per spingere inebetiti e in trance contro la porta di cristallo, che non reggerà a lungo sotto la loro pressione, nel filmato i morti-consumatori si lanciano in preda ad uno medesimo atroce automatismo: la pulsione è simile, solo che alla carne si è sostituita la merce. Se nel film vediamo il classico scontro fra vivo e non-morto, scontro che termina inevitabilmente o con il brandello di carne lacerata o con il colpo di pistola in mezzo alla fronte, nel filmato vediamo due uomini lottare per strappare all'altro la scatola di una televisione al plasma.

I due uomini che lottavano per la televisione nel video sono un bianco e un nero americani: in una immagine di Godard, da La Chinoise (1967), Anne Wiazemsky-Veronique in piedi, scalza, le gambe nude, con una coperta nera che le copre il corpo fino alle ginocchia recita: «Mi guardate come i bianchi d'America guardano i neri; come gli arabi guardano gli ebrei o viceversa, in Medio Oriente». Viene alla mente, quindi, un'altra immagine, una foto trovata sul web, che mostra un altro “luogo del consumo”: ci spostiamo in Brasile, durante la pandemia, in un supermarket Carrefour di Pernabuco, nel nord est del paese. La foto mostra gli scaffali con i prezzi, una persona che cammina indifferente con una mascherina e una barriera rettangolare composta da scatoloni, casse di birre Heineken e alcuni pannelli di compensato. Dentro questo reticolato improvvisato ci sono tre ombrelli verdi appoggiati sul pavimento di mattonelle bianche. Sembra una curiosa installazione (anche Christo usava ombrelli); in realtà, come il corpo di Veronique, qualcosa, lì sotto viene coperto. È il cadavere di un uomo, un impiegato del Carrefour chiamato Moises Santos, stroncato da un infarto e nascosto dietro quella barriera improvvisata per non chiudere il negozio.

Godard aveva ripreso anche lui il corridoio di un Carrefour, in Francia, cinquant'anni prima dalla foto di Pernambuco e (particolare curioso) da un'angolazione pressoché identica, nel suo film Tout va bien (Godard, Gorin, 1972). Durante un travelling laterale di otto minuti vediamo prima il normale avvicendarsi dei compratori alle casse in una giornata qualsiasi (il consumo si misura a giornate? A minuti? A secondi? È una prestazione? Bisogna apprendere a consumare di più, o è un movimento automatico, irriflesso? Consumare è solo una questione di denaro? O è l'unica cosa che accomuna, nella reciproca inimicizia, tutte le classi sociali? Si consuma infatti solo a danno dell'altro). Poi, invece di un morto, a penetrare nel passivo meccanismo di compravendita (sortendo, pare, lo stesso effetto: tutto continua allo stesso modo, non si può modificare il flusso del consumo) è la voce da un altoparlante che dice  di «cambiare rotta, per un partito comunista francese». Alcuni militanti vendono anch'essi qualcosa, un programma «per un governo di unità popolare» con uno sconto (4 franchi e 75 invece di 5 franchi e 50). L'opuscolo è occasione di una lite fra il militante e un giovane consumatore, che gli rimprovera di non capire un passo preso a caso che recita a proposito della «creatività che sviluppa la personalità e i rapporti fra gli uomini»: il ragazzo non capisce che l'unica cosa che distingue i vivi dai morti viventi è proprio l'immaginazione.

Il supermarket, come recita la voce over della giornalista protagonista, è un grande teatro sociale (dove, come abbiamo visto, si lotta e si muore), che produce 70 milioni al giorno di fatturato e dove tutti urlano, meno colui che compra. Il compratore è un morto vivente. All'improvviso, qualcuno entra in scena. Invece degli zombie, una allegra pattuglia gauchista che al grido liberatorio del «è tutto gratis» riempie i carrelli di merce, fino all'irruzione della polizia vestita di nero che li reprime senza pietà. Intanto, in un supermercato d'America, i non-morti hanno appena rotto la barriera di cristallo e si lanciano alla caccia dei vivi, come i consumatori facevano con la tv al plasma. Perché l'unica merce che interessa loro è un corpo. Tutto quello che vogliono è alimentarsi del corpo dei vivi. I non-morti sono una massa affratellata non da un sentimento, ma da una pulsione: incarnano l'estremo dell'immagine-pulsione deleuziana. Il non-morto trasforma il mondo dei vivi in un mondo originario, un senza fondo fatto di materiali non formati, territorio crollato, in pezzi, abbozzo sformato di mondo, ed è animato, in un atto preliminare ad ogni differenziazione, da una pulsione precisa, quella alimentare.

È possibile indurlo a fare altra cosa? A dimenticare per un attimo la pulsione che lo abita? E se sì, come? È quello che viene mostrato in Day of the dead (1985) di Romero. Tre scienziati osservano un non morto davanti a un vetro schermato nella stanza sotterranea di una base militare. Lo scienziato più anziano, il dottor Logan, gli ha dato anche un nome, (in realtà, un nomignolo) Bub («è così, dice, che gli amici chiamavano mio padre»: ha dato a un non morto il nome che era del Padre); «ha reagito molto bene. E l'ho lasciato vivere. Ma è vivo o morto? Questo è il dilemma. Diciamo che gli consento di continuare a esistere» (viene in mente l'incipit folgorante de Il seppellimento prematuro di Poe: «i limiti che dividono la vita dalla morte sono vaghi e confusi. Non si può dire dove finisca una e cominci l'altra». Sorridente, affabile, il dottore gli porta dei “regali”, «cose carine per giocare»: uno spazzolino, che “Bub” getta subito via; una lametta da barba che comincia, incredibilmente, a passarsi sulla faccia, producendosi sottili lacerazioni sulla carne grigia (come nel primo corto di Scorsese, The Big Shave, dove però il protagonista finisce per lacerarsi completamente il viso e poi tagliarsi la gola, metafora della guerra in Vietnam come lo era il primo film sugli zombie di Romero); l'ultimo regalo è un libro di Stephen King, Salem's Lot (il cui titolo originale doveva essere Second Coming e parla di un'altra “classe” di non-morti, i vampiri).

È proprio con il libro che accade la cosa più bizzarra. Bub lo prende in mano e comincia a sfogliarlo. L'immagine che più di ogni altra ha caratterizzato l'espressione del pensiero al lavoro si trova qui spostata di casella. È un non-morto colui che legge e, subito dopo, cerca di compiere una delle più comuni attività quotidiane: rispondere al telefono. Dice anche «ciao», ripetendo l'invito dello scienziato di parlare alla cornetta. Quando i militari scoprono che il dottor Logan utilizza la carne dei soldati morti come ricompensa per Bub, lo uccidono. Alla fine del film, con la base in preda al caos, lo zombie si imbatte nel cadavere del suo “padre putativo” e si dispera. È possibile, allora, riconvertire un non-morto? E se sì, per farne cosa? Un soldato? Un uomo-arma?

Il non-morto come opposto dell'altro estremo del post-umano, il “tecnomorfo” di Tsukamoto Shin'ya: all'uomo di carne decomposta si sostituisce l'uomo di ferro. Allo zombie, il cyborg: creature che, come tutti gli estremi, finiscono per “toccarsi”. entrambi acquisiscono la loro particolare "condizione" in seguito ad un esperimento scientifico; il secondo, durante un attacco di collera, vedrà  il corpo rigettare dal suo interno brandelli metallici per poi ritrovarsi riconvertito in un tecnomorfo urlante mentre il primo, dopo un risveglio improvviso, non saprà mai di essersi convertito in non-morto. Se il secondo è animato da un impulso di vendetta e attaccato da spasmi continui che si trasmettono per contagio alla macchina da presa, il primo è animato dalla volontà atavica di nutrirsi, e la macchina da presa lo segue spesso imitando anch'essa la sua prospettiva barcollante. A Tsukamoto (e a Romero) segue Lucio Fulci che mostra, ad esempio, in un ricordo infetto del grande Dreyer di Vampyr, la soggettiva dello zombie che fuoriesce dalla terra dove era stato sepolto).

In entrambi i casi l'insorgenza dell'anomalia è un'infezione: nel caso del tecnomorfo la carne si putrefà attorno al pezzo meccanico prima di assimilarlo, il corpo soffre la transizione, l'arma che esce dal braccio lacera e provoca dolore; nel caso dello zombie, la putrefazione della carne non si arresta, anche se il decorso è più lento. Entrambe le “creature” si trovano davanti al più implacabile degli aut-aut: consumare o morire: se il destino del tecnomorfo è la conquista del mondo o la ruggine, quello dello zombie è analogo: o divorare il mondo o diventare un mucchio di carne infetta. Entrambi, infine, sono abitatori delle profondità. Il tecnomorfo vive nella rete fognaria, spazio trasformato in un regno ipogeo e rizomatico; il non-morto fuoriesce dal ventre della terra (o dagli abissi, come nelle sequenze marine di Zombie 2  sempre di Fulci).

In Zombie 3 il virus che ha scatenato l'epidemia si contagia attraverso la cenere dei cadaveri infetti che vengono frettolosamente e incautamente cremati. Impossibile non pensare all'altro, atroce esperimento biopolitico della modernità: i campi di sterminio nazisti, che per Hannah Arendt erano i laboratori per la sperimentazione del dominio totale. Lì, gli individui venivano condotti fino ad uno stato di pura sopravvivenza (i «musulmani», i «sommersi» di Levi).

Da un lato i non-morti sono l'espressione di una violenza pura, di una ferocia insensata in grado di terminare con l'umano. Dall'altro il morto vivente è invece l'atroce metafora di quello che resta di creaturale davanti ad un esercizio virtualmente infinito del potere inteso solo nel suo atroce aspetto repressivo: “esso” sarebbe quindi l'espressione estrema di una vita senza valore, che si può uccidere senza commettere omicidio perché morta-in-vita. È quello che vediamo, ad esempio, nella sequenza finale di Dawn of the dead di Romero: quando la banda di motociclisti armati irrompe nell'ipermercato per saccheggiarlo umilia i non-morti lanciandogli torte in faccia come in uno slapstick, li uccide per gioco o, in una variante atroce del Black Friday, malmena e strappa di dosso le collane e gli oggetti di valore che una morta vivente si era messa addosso in una caricatura dell'umano addobbato a festa.

Credo che sia proprio in questi film di living dead che gli effetti del potere sul bios si mostrino da un lato nella loro brutale ed estrema efficacia repressiva, nella loro forma più spietatamente banale e manifesta, rivelando come il potere sia quell'insieme di atti che, se spinti al limite, consumano e reprimono l'umano fino a renderlo una caricatura inerte, animato da stimoli elementari. E nello stesso tempo scopriamo qualcosa di più interessante e foucaultiano. Il filosofo ci aveva messo in guardia nel considerare il potere come semplice logica di repressione degli istinti, già che cerca, in effetti, tutto il contrario: esso eccita, stimola, irrita, tormenta, per portarci dove vuole. Ritorniamo così al dottore e allo zombie di Romero. Non fa così il dottor Logan con il povero Bub? Non viene espressa, in questa sequenza geniale, una vera e propria relazione di potere, per così dire, allo stato puro? Quanto lontano si può spingere, allora, il meccanismo del campo e controcampo e quanto è vicino a quello, davvero “iniziatico”, del Caligari (1920) di Wiene, quando un altro scienziato fissava un altro non-morto che usciva da una bara verticale e invece di rispondere a telefono pronunciava falsi vaticini!

Da un lato un non-morto con una pesante catena al collo, che dà le spalle a tre croci macchiate di sangue (dove i suoi simili vengono aperti ed esaminati) in piedi, dietro ad un tavolo (luogo dove Logan depone i “regali”).  Dall'altro, un medico che eccita e stimola un paziente la cui libertà è stata drasticamente ridotta, realizzando quelle micro-lotte, quei conflitti, fra “colui che sa” e “colui che non sa”, fra colui che sa tutto e colui  che non sa più nulla (ricorda al massimo come armare e puntare una pistola scarica), fra l'uomo libero e lo schiavo, il padre e il figlio, che  se si comporta bene ottiene regali e leccornie e a cui il padre ha dato il nome di suo padre, indicando l'idea di una continuità mostruosa che contemporaneamente ha sminuito attraverso l'uso del nomignolo. Se il figlio, invece, si comporta male, c'è sempre la croce che incombe alle sue spalle. Tutte figure nelle quali, senza sosta, attraverso piccole tattiche locali e individuali, “passa” il potere.

Nello stesso tempo, il povero morto è legato con una catena. Questo ci mostra che il potere del medico è, alla fine, impotente. E si trasforma senza sosta. Nel film, al potere del medico si sostituisce quello dei militari e a quello dei militari quello dei non-morti: perché, come dice Canetti, la situazione della sopravvivenza è la situazione del potere. Foucault va più in là: dice che l'ambizione massima del potere è l'immortalità. Non è difficile immaginare un collega del dottor Logan impegnato a cercare nel DNA degli zombi un fluido dell'immortalità. 

I non-morti di Fulci sono diversi da quelli di Romero e ci fanno riflettere proprio sulla questione della sopravvivenza. Unendo lo zombie caraibico del film di Tourneur (I walked with a zombie, 1943) con quello metropolitano del regista americano, Fulci accentua il processo della decomposizione in atto: lo zombie è un corpo che mentre sopravvive, si decompone. Sopravvive disfacendosi. Il suo essere non-morto non è una semplice dissoluzione in fase di arresto del cadavere: a sopravvivere non è uno stato, è un processo, che obbliga ad una esteriorizzazione continua dell'interno. In Fulci non sopravvive l'involucro, ma la carne mobile e il suo balbettio. Nei suoi film c'è sempre questo scrutinio incessante (pensiamo, e solo per fare un esempio, alla sequenza di macellazioni e aperture di quello straordinario caso di horror-biografico che è Un gatto nel cervello), fino a quella che Lacan, nel Seminario II, chiamerebbe «la carne che non si vede mai, il fondo delle cose, il rovescio della faccia, del viso, gli spurghi per eccellenza, la carne da cui viene tutto, sofferente, informe, in quanto la forma è per se stessa qualcosa che provoca l'angoscia» (Lacan, pp. 193-210).

La morte non ha vinto, ma deve riaffermare continuamente il suo trionfo disfatto e barocco: Valdés Leal con il suo quadro per l'Ospedale di Siviglia Finis Gloriae Mundi, utilizzato anche da Fulcanelli come "introduzione" al suo libro omonimo, è il grande ritrattista di questa morte al lavoro. Davanti a questi non-morti siamo quasi convinti che accadrebbe lo stesso che al Valdemar di Poe: ricordate la storia? L'uomo agonizzante riesce a vincere la morte grazie al mesmerismo, sperimenta un breve stato di non morte e poi si decompone all'istante, collassando in una pozza putrefatta: Corman ne ha ricavato un episodio del suo Tales of Terror (1962), su sceneggiatura di Matheson, un allucinato carnevale della morte dove Valdemar diventa uno zombie prima di precipitare nella consunzione: «tutto il suo corpo a un tratto – e in non più di un minuto – si scompose, si sbriciolò, imputridì sotto le mie mani. Sul letto, dinanzi a tutti i testimoni, giaceva una massa fetida e quasi liquida; un'orrida putrefazione» (Poe, p.728). Davanti a quel mucchio di viscere infetto «tutte le parole si arrestano e tutte le categorie falliscono (…) appare così che il soggetto si decomponga e scompaia» (Lacan, cit.). Ai non-morti di Fulci accadrebbe probabilmente lo stesso: dopo un poco di affannosa resistenza, si trasformerebbero tutti in una mappa di viscere. Se non ci fosse la carne dell'uomo e della donna ad alimentarli.

L'amore al tempo dei morti può sopravvivere? Era la domanda con la quale avevamo iniziato queste brevi riflessioni. Immaginiamo una umanità rinchiusa in una base sotterranea, come in un incubo distopico di P.K. Dick. Il mondo di sopra è completamente occupato dai morti viventi, che vagano nelle città svuotate e che hanno cominciato a divorarsi l'un l'altro. Sono milioni. Questa lenta lotta intestina durerà anni. Intanto i superstiti del mondo di sotto sanno che le poche riserve di acqua e cibo sono razionate. Che la luce, presto, smetterà di funzionare. Sanno, insomma, di avere poco tempo. Nel mondo di sopra il potere impazzito e cieco, scatenandosi senza remissione, si espone al suo estremo, lo scoppio della violenza irrelata che finisce per divorare se stessa. E nel mondo di sotto? è forse possibile, per questa umanità in trappola, a cui resta così poco da vivere, incontrare di nuovo le cose stesse nella loro vivacità primitiva? In questo lager sotterraneo non ci saranno, forse, due esseri che, in mezzo allo sporco, ai razionamenti, alla coabitazione forzata, al dolore, rifiutando il computo dei giorni della sopravvivenza, saranno capaci e vorranno aprirsi, anche per una notte soltanto, alla febbre generosa del desiderio e alla spontaneità del sentimento mutuo?

La coppia di amanti perduti dovrebbe rifiutare il semplice fatto di sopravvivere in nome di una parvenza, fragilissima, di vita-di-poi: il termine warburghiano nachleben rivelerebbe qui, in questa cella sotterranea dove pochi superstiti si affannano in una disperata ricerca di umanità, la sua vera ragion d'essere: è il luogo dall'irrazionale, dell'impensabile, che nella sua massima ampiezza diventa una immagine di vita risorta.

Solo allora si può dire che c'è ancora speranza. E che, davvero, el amor vence.

Testi consultati

E. Canetti, Massa e Potere, Milano, 1981

M. Foucault, Un diálogo sobre el poder y otras conversaciones, Madrid, 1981

- El poder, una bestia magnifica, Buenos Aires, 2012

J. Lacan, Il seminario, Libro II. L'io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi, Torino 1991

E. A. Poe, Il seppellimento prematuro; La verità sul caso di mister Valdemar; in “Opere scelte”, Milano 1971

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