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  • Un uomo anziano, un po’ curvo, esce dalla casa dove vive, un piccolo alloggio prefabbricato di una periferia americana qualsiasi: lo vediamo in abiti da città, con cappello e cappotto, e immaginiamo stia uscendo per sbrigare qualche faccenda (e, dato il sole, che sia “freddoloso”). L’uomo cammina lentamente, sembra scosso, e fa qualcosa che non ci aspettavamo: si blocca all’improvviso (e la macchina da presa, in maniera involontariamente poetica, indugia un istante prima di mostrarci il motivo della sosta). L’anziano si è fermato ad osservare il cespuglio di rose nel portico e si china per coglierne e odorarne una, avvicinandola al volto, mentre la voce over racconta che i fiori furono piantati dall’amata moglie morta.

  • Ricordate l’incipit dello Squalo II(J. Szwarc, 1978)?1Non si nasconde forse nelle pieghe della logica completamente consumista del sequel, meglio quando del tutto apocrifo (e anche “mancato”, addirittura mal riuscito), la possibilitá sempre virtuale di un reframing, di re-inquadrare la realtà che si credeva fissa e stabile dell’episodio I in modo trasversale e inaspettato per far sorgere così nuovi significanti? Nel fondo dell’oceano, una fotocamera subacquea cade dal braccio mozzato del sommozzatore; l’urto con il fondale sabbioso (dopo una serie di rimbalzi che possiedono la sospensione incredula dell’oggetto a gravità zero cameroniano- kubrickiano e la malinconia invincibile del primo passo sulla luna) fa scattare, accidentalmente, una foto. Ma l’obbiettivo, dov’era puntato? Verso chi o verso Cosa lancia o genera il suo fascio automatico di luce biancastra? Verso lo sterminato fuori campo che si prolunga più in là del margine destro del quadro?

  • È più lenta la vita o la sua scrittura? Ma non si potrebbe dire anche il contrario? È più rapida la vita o la sua scrittura? La seconda, almeno, scorre per restare. La scrittura come carta moschicida sulla quale lasciare aderire la vita.

  • Quello uscito nelle sale non è il film che Brian De Palma aveva immaginato: come ammesso dallo stesso regista, non ne ha scritto la sceneggiatura e non ha avuto controllo né sul montaggio, né sul metraggio finale. Il film, ostaggio della produzione danese, ha subito tagli per oltre mezz’ora sulle due ore che, in origine, erano state previste (nello stesso tempo, è bene dirlo, De Palma sceglie il direttore della fotografia del precedente Passion, Josè Luis Alcaine – lo stesso di Sur di Erice, ma anche di Pedro Costa, Almodovar, Aranda e chiama Pino Donaggio per le musiche, sodale in tutti i suoi thriller).

  • In La perla, di Emilio “el indio” Fernández un povero pescatore di perle, dopo l’ennesimo tuffo scorge, gli occhi ben aperti (wide) e annebbiati (shut) per l’acqua salsa, qualcosa nelle profondità torbide dell’oceano (che la lente di Figueroa trasforma in un acquario magico, cortazariano-rosselliniano). Risalito a galla scoprirà, insieme alla moglie che lo attendeva paziente nella barca, che si trattava, custodita dentro una conchiglia incrostata di alghe limacciosa, di una perla perfetta.

  • «L’uomo non ha ancora ricevuto il privilegio dell’eclissi,
     questo potere che possiede la notte
    di illuminarsi di un giorno elettrico».
    (A. Breton sul n. 7 della rivista «Minotaure»)

    Cominciamo dal basso. Un flaneur di tipo particolare, Tom Shaw, poliziotto della sezione omicidi di New York ripete, ogni notte, la stessa azione: verso l’una, dopo aver terminato il servizio, compie una lenta passeggiata lungo il fiume.


  • C'è un'immagine, giusto all'inizio de La cordillera de los sueños di Patricio Guzmán che mi è venuta in mente quando ho cominciato a pensare a come introdurre un montaggio di testi dedicato al Cile, a cinquanta anni dal golpe di stato civile-militare dell'11 settembre del 1973.

  • La Tavola di montaggio si articola in tre sequenze longitudinali, dall’alto verso il basso. La prima a sinistra è dedicata alla borghesia: dai primi dagherrotipi al ritratto di famiglia, dagli avi mostruosi di Bataille alla classe dei padroni nel giardino delle delizie di Metropolis di Lang, fino al fotografo che, sulla spiaggia di People on Sunday, fa un ritratto involontario, composto da immagini fisse, della società “paralizzata” dell’epoca (si tratta, in un certo senso, non di un album di famiglia, ma di un album di società, fatto non di foto, ma di fotogrammi).

    La sequenza centrale è quella che ripensa e rimonta alcune immagini da Barthes, Sebald e Bressane, associandole fra loro. Quella di destra monta insieme foto che risalgono all’inizio del XX secolo (lo stesso periodo di quelle nell’album di Rua Aperana 52 di Bressane, scattate a partire dal 1909) che fanno parte dell’album di famiglia di un’amica argentina. Come sempre accade davanti ad una tavola di ispirazione warburghiana è possibile (o auspicabile), a partire (o nonostante) queste brevi indicazioni, creare montaggi e percorsi propri.

  • I primi tre decenni del secolo vengono scossi dalla comicità e dal riso come il corpo di una rana morta si contrae se irrorata di corrente elettrica durante gli esperimenti galvanici. Nel 1900 Bergson scrive Il Riso. Saggio sul significato del comico, ma i fratelli Lumière lo avevano anticipato: cinque anni prima girano L'Arroseur arrosè, libero adattamento per le neonate motion picture di una serie di vignette utilizzate negli spettacoli di lanterna magica (il delizioso corto di un rullo, citato da Disney nelle forme ipertrofiche del cartoon in Paperino Pompiere, venne interpretato dal loro giardiniere, Jean-Francois Clerc).

  • Numerose pagine della letteratura argentina sono dedicate a un paradosso: la vita colta in un momento complesso, inesplicabile, al bordo dell’intraducibile che, pure, riesce a trasformarsi in territorio e, quindi, in romanzo (La vie est un roman, chioserebbe Resnais nel titolo del suo film - scritto da Jean Gruault - forse più vicino al dettato del crepuscolo) e a ricostruire un sito che, come dice Borges, è menos documental que imaginativo. Cortázar, come si sa, non finiva mai di interrogarsi sulle leggi segrete della creazione letteraria: come Piglia, come Saer il narratore è, anche, secondo una tradizione esoterica ed erudita – inaugurata da quel grande amanuense che era proprio Borges – «lettore»: ultimo, come si voleva Emilio Renzi-Piglia, ma anche «poeta» come Saer, e, in tutti i casi, «critico» (un racconto emblematico di Cortázar è, in questo senso, Los pasos en las huellas) che abbraccia tutta la letteratura universale scoprendo, alla fine, che non si è fatto altro che comporre, come in un quadro di Arcimboldo con la sua simbiosi paranoica di oggetti, un mosaico di immagini il cui risultato è il proprio stesso volto. Cortázar, si diceva: in Intermedio magico accenna alla forza della poesia e del suo strumento principale, la metafora, capace di penetrare nel mondo delle cose stesse, fuori dalla legge del nome (aborrita anche dall’Eltsir di Proust), e cancellare la singolarità delle cose attraverso il ponte magico del «come», che permette al cervo e al vento (qui Cortázar cita Levi-Strauss) di partecipare (di gioire, verrebbe da dire) di una medesima qualità.

  • L’altra notte (mi verrebbe da aggiungere, automaticamente, la data, zelo inevitabile in un testo sulla memoria e la sua scrittura, ma non la ricordo), quasi in dormiveglia, cercando di capire come iniziare queste riflessioni, mi è venuto in mente all’improvviso William Hurt-Sam Farber quando, in Fino alla fine del mondo(1991) di Wim Wenders, registra ricordi per la madre cieca Jeanne Moreau-Edith. Registra immagini in soggettiva. Cioè, al cinema, in prima persona.

  • Americana

    Jonas Mekas e Shirley Clarke lo dissero chiaro a Marcorelles, critico dei Cahiers che li attaccava sostenendo la mancanza, da parte del New American cinema, di dimensione politica, e di una disconnessione (a differenza, ad esempio, del cinema novo brasiliano) dalla vita: il loro cinema, sostenevano, era (a pensarci e a guardarlo bene), radicalmente politicoe completamente americano. perché filmava l’essenza dell’uomo, affamato di una fame differente da quella dei suoi fratelli latinos: fame dell’anima che non vuole diventare macchina fordista o denaro (non a caso serializzato dal 200 One Dollar Billsdi Warhol del 1962).

  • Per parlare di una città il semplice sorvolo non è un’attività dello sguardo sufficiente. Certo, possiede il prestigio quasi numinoso della weltlandschaft, che i grandi paesaggisti nordici rivelarono sollevando lo sguardo e il corpo dell’uomo occidentale verso regioni inedite, ampliando nello stesso tempo la sua capacità di sintesi e sfidando le leggi, svigorite e centripete, del regime prospettico; inoltre, non possiede, questo gesto che gode nell’abbracciare tutto, l’entusiasmo del bambino che, durante il primo viaggio in aereo, fissa a bocca aperta la città distesa sotto di lui al di là dei residui onirici della cortina sfilacciata delle nubi? E «poeta di sette anni» non era forse Nadar, che, stanco di stropicciarsi gli occhi per avere visioni, e dotato di un avveniristico apparecchio dell’era della riproducibilità tecnica, a bordo del suo pallone Le Geant fotografò per la prima volta la città dall’alto, ispirando un altro grande autore-bambino, Jules Verne, a compiere i suoi giri del mondo in ottanta giorni?

  • C’è una scena inBerlino, Sinfonia di una grande città di Walter Ruttmann (1927) dove una ragazzina, gli occhi color ametista, spaurita e epifanica come il coyote diCollateraldi Michael Mann, attraversa, di notte, la strada striata dalla luce dei lampioni e dei cartelloni pubblicitari: un momento prima di sparire si volta verso la macchina da presa (come facevano i borghesi delle vue Lumière, inconsapevoli figuranti e spettatori di cinema che guardavano davanti al vetro dell’obbiettivo, senza saperlo, se stessi). Nei film di questo tipo, il momento epifanico è proprio dato dalla sospensione repentina del montaggio come principio onnicomprensivo di costruzione ritmico-musicale e assimilazione di frammenti di realtà e, per un attimo (come in certe immagini della prima kinopravda di Vertov, altrettanto inesorabilmente ritmica – e «ritmo ritmo ritmo» era la didascalia che Moholy-Nagy inseriva nella sua sceneggiatura per immagini e paroleDinamica di una grande città) abbandonarsi a rievocare il braille aptico della vecchia prosa del cinematografo e dello specchio stendhaliano trascinato lungo il cammino. Non è un caso che proprio in un momento di deriva come questo, dove l’ «intelligenza di una macchina» si opacizza e la narrazione si apre ad un istante di silenzio, la ragazzina con gli occhi di ametista di Ruttmann finisca per ricordare l’Alice di Wenders, altra bambina abbandonata che, in un movimento così simile e così diverso, e preda dell’imperativo di un altro fuoricampo, osserva, dal finestrino di un’auto a nolo, il paesaggio cittadino che scorre davanti a lei cercando di riconoscere la facciata della casa dei nonni.

  • In copertina: Masse superstiziose, nude, isteriche: D. Gargiulo (detto Micco Spadaro) , Eruzione del Vesuvio del 1631

    La parola “popolo” è una parola densa, dotata di significati plurimi. Giorgio Agamben distingue fra Populus (corpo politico integrale, stato sociale degli individui sovrani, dotati di esistenza politica) e Plebs (molteplicità frammentaria di corpi esclusi) e, quindi, fra integrazione e “nuda” estromissione.

  • Alessandro Saturno, Piccola nuvola - 2021, acrilico e olio su tela, 30x50cm

    Il testo è apparso nel catalogo della mostra monografica “Alessandro Saturno. Forme dell'Assenza”, a cura di Don Gianni Citro ed edito per le Edizioni C.R.E.A. La mostra è in corso fino al 9 settembre nel Palazzo Santa Maria, a Camerota, un borgo medioevale nel cuore del Cilento. Abbiamo pensato di aggiungerlo alla fine di un Dossier su Presenze e Morti che ritornano, come se le opere di Alessandro Saturno formassero gli ultimi frame, in dissolvenza continua, di questa nostra breve “storia di fantasmi per adulti”.


    A volte, per cercare di avvicinarci a qualcosa di complesso, è utile cominciare servendosi di un'immagine semplice. A tutti noi sarà capitato di fare una gita in barca in una baia e, durante il tragitto, di sporgerci dal parapetto per scrutare il mare. All'inizio non vediamo altra cosa che il riflesso screziato dell'acqua, le venature verdi, blu scuro, gialle, che attraversano la superficie azzurra dove si deposita anche lo scuro bituminoso delle ombre. Poi, come un'immagine che si definisce nella lontananza, o nel ricordo, ecco apparire il nostro volto. Ma non come lo vediamo in uno specchio (conservando l'accezione "difettosa" della Lettera paolina): al contrario, i suoi contorni sono instabili, i tratti liquidi, i colori diversi, il volume diventa diafana trasparenza.

  • La condizione del soggetto contemporaneo è quella di essere connesso ad una serie di dispositivi desideranti e manipolatori, interfacce di simulazione integrale che articolano e riformulano tutte quelle relazioni capaci di determinare il suo essere nel mondo(come scrivono Deleuze e Guattari all’inizio de L’Anti-Edipo, siamo circondati in ogni parte da macchine, e non metaforicamente: macchine di macchine con i loro accoppiamenti e connessioni).

  • (Traduzione a cura di Giovanni Festa)

    Da un capo all'altro del suo itinerario, il cinema di Pedro Costa è attraversato dalla notte; ma vale anche il contrario: la notte attraversa il suo cinema. Questa condizione umbratile penetra a tal punto nel nucleo centrale della messa in scena che alcuni dei suoi primi film, sebbene non si svolgano interamente dentro tempi e spazi notturni, tendono a essere ricordati dallo spettatore come invasi interamente dalle ombre della notte. Sorprendentemente, quando si rivedono O Sangue (1989), Casa de Lava (1994) o anche Ossos (1997), si nota invece che non poche sequenze trascorrono all'aperto e in pieno giorno.

  • Spesso il cinema (che, oggi, ricoperti come siamo di una seconda pelle elettronico-mediatica, è ovunque, expanded e diffuso e lo si incontra sulle pareti della metropolitana, nella sfilata di televisori dei grandi magazzini, sullo schermo dei telefoni cellulari, sui pullman turistici, o proiettato sul letto limaccioso di un fiume, ma in forme compresse, ottuse e inerti) si inceppa producendo qualcosa come un alone, una interferenza, un contagio che assume varie forme. Trompe l'oeil e Anamorfosi sono due di queste.

  • Una coppia viaggia in una jeep scoperta, nel mezzo della selva. Chiacchierano. Il meccanismo del campo e controcampo mi fa pensare a Marlowe-Bogart e Vivian-Bacall, anche loro in auto, nel Grande Sonno (1946) di Hawks. Ma la nostra coppia, che viaggia sulla strada malmessa di un'isola tropicale, sembra in cattive acque: dopo aver trovato la loro personale Key Largo nelle Filippine, è impegnata a fuggire da tutti quelli che dal "grande sonno" si sono appena svegliati: i morti viventi.

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