Facciamo un passo indietro rispetto a One of These Days e arriviamo ad uno dei tuoi primi cortometraggi, Le Liban en Automne. Qui la tua voce fuori campo descriveva il tuo rapporto con il cinema: non idealizzato, non concettualizzato. Continua ad essere lo stesso? 

Le Liban en Automne è stato girato subito dopo il conflitto israelo-libanese e mentre molti riprendevano la guerra, io mi interrogavo più sul motivo per cui girare che su cosa avrei girato, quindi il film stesso è diventato per me la prima occasione di pormi la questione: perché fare dei film? Era per me la domanda principale. Anche perché, indipendentemente da cosa riprendi, tutto finisce per parlare prima di te stesso.

Per esempio Gordard negli anni ’80 girò Lettre à Freddy Buache perché gli fu commissionato dalla Svizzera, ma poi diventa un ritratto di Godard stesso.  Forse prima di guardare un film, bisognerebbe sapere perché è stato girato, da chi è stato girato…ormai siamo abituati a vedere, in tv, soltanto immagini, senza sapere nient’altro; per me la tv perfetta sarebbe quella che ti permette di conoscere l’archivio e la biografia di chi ha girato. 

Ritornando alla domanda, la mia idea di cinema continua ad essere: prima fai, poi pensa. Da Le Liban en Automne sono passai dieci anni ormai, da allora sono molto più consapevole delle mie capacità. Un po’come quando i supereroi si ritrovano fra le mani poteri che imparano a gestire soltanto continuando ad agire. All’inizio,invece, non hai che la tua spontaneità, la tua impulsività: continuo a conservarla, ma cresce in me anche una differente maturità.
Come diceva Heidegger, a volte le persone hanno visioni e da queste visioni sono abitate, impossessate, quasi fossero dei demoni. Poi però arriva il momento in cui il rapporto si inverte, e anziché esserne dominate cominciano a controllarle.
Sicuramente One of These Days non è perfetto, è solo una tappa di un percorso di crescita continuo, iniziato con i miei primi lavori. Resta sempre il problema del portar fuori ciò che c’è qui (porta una mano sul cuore, ndr), del guardarti dentro e poi trovare quello che ritieni sia il modo più giusto per esternarlo: è la parte più difficile ma anche l’obiettivo che mi pongo; forse non ci sono ancora arrivato, però inizio ad essere più sicuro di quello che esprimo, di come lo esprimo.
Quando leggi Proust, per esempio, ti rendi conto di quanto sia fondamentale trovare una propria lingua…

Tra l’altro, sempre in Le Liban en Automne, parli di come il tuo interesse per cinema sia nato proprio con la letteratura.

Sì, assolutamente: non puoi fare cinema se non sei interessato ad altre cose. Amo il cinema, ma fare cinema è amare le persone, la musica, la letteratura. Quando hai una sensibilità che ti apre alle sensazioni che ti arrivano da tutto questo mondo, necessariamente senti l’urgenza di esprimerti, di dire qualcosa, senza neanche sapere cosa. È più importante capire il perché, non il cosa.

C’è poi questo sentimento della perdita che attraversa gran parte della tua produzione. Ed è interessante notare come spesso si dia nel supporto analogico dell’immagine...

Non ho la presunzione di parlare a nome di tutti gli artisti, ma credo che l’arte, in ogni sua forma, cominci da qualcosa che si è perduto: come fare arte se niente è perduto? È un fil rouge che attraversa la mia vita intera.
Mi viene in mente una citazione di Attenzione alla santa puttana di Fassbinder che credo esprima bene questo senso della perdita: «Sarò calmo solo quando la calma in me sarà annientata». Mi ci ritrovo ritrovo perché per me tutti gli artisti non sono calmi, non possono esserlo.
Sia in Le Liban en Automne che in One of These Days c’è qualcosa che si sforza, invano, di essere presente. Nel primo vediamo immagini di guerra, ma dove sono le spiagge, le ragazze, l’estate? Nel secondo c’è questo desiderio di rivivere, come se niente fosse successo, un passato che però non riesce a tornare.
In ogni caso non ritengo che l’analogico sia più nostalgico del digitale, per me sono solo due mezzi differenti: la melanconia è nello sguardo, nella maniera in cui lo si posa sulle cose.  Resta il fatto che amo molto la fotografia: in One of These Days l’ho usata per la sua capacità di dire tanto con pochi elementi, il che lo rende un film che non ha bisogno di caratterizzare i personaggi, scavarci dentro. Inoltre ha molto peso nel mio modo di mettere in scena: non ho bisogno di troppi elementi, né di troppi soldi: mi bastano gli attori, i loro corpi. Solo dopo posso girare: non riesco a immaginarmi le scene, ho bisogno di essere lì.

È vero che le inquadrature di One of These Days sono strette dal microcosmo dei protagonisti, dalle pareti delle camere da letto, ma nei brevi momenti in cui si dilatano sulla città, sul velo di nostalgia che copre certi spazi, mi sembra abbiano un sapore vagamente antonioniano...il sapore dell’Antonioni de L’Eclisse, per esempio…

Non voglio paragonarmi ad Antonioni ma è vero che si sente questa consapevolezza che la vita sia cambiata. Ormai in Libano tutto cambia in continuazione; il posto in cui io stesso ho dato il mio primo bacio non esiste più e forse per questo sentivo anche la necessità di filmare i luoghi, gli spazi. Inoltre anche Antonioni ama la fotografia ( tanto che le persone che non lo amano lo accusano di fare fotoromanzi piuttosto che film), e una delle sue doti sta nel descrivere la psicologia soltanto per immagini: la psicologia di Monica Vitti non emerge con la parola…

Ma è negli spazi, nei silenzi …

Esatto. Per me è un regista fondamentale, non puoi fare cinema senza pensare al rapporto tra personaggio e spazio che c’è in Antonioni. E in Libano, appunto, questo rapporto intimo e complesso tra lo spazio e le persone diventa reale, tangibile: i posti scompaiono, le persone perdono i ricordi, per questo poi i personaggi sono sempre divisi fra l’intimità delle camere e l’esterno.

Quindi si perde non solo il tempo, ma anche lo spazio. 

Già. E ovviamente si accresce il sentimento di malinconia perché questo genere di città che cresce così veloce, questo modo di vivere così veloce non credo appartenga alla cultura dei popoli mediterranei, che forse è più radicata nei luoghi. È, invece, tipicamente americano, infatti a New York non c’è malinconia, si è abituati a cambiare ogni giorno.

Ma non vivi più in Libano?

Diciamo che vivo fra Beirut e Parigi.

E quando sei in Europa, percepisci come cambia il modo in cui si parla del Libano? Perché a volte sembra quasi che si vogliano dilatare le distanze geografiche, a partire dall’informazione.

Questo non posso giudicarlo. Alla fine io stesso non saprei che rispondere se mi venisse posta una domanda molto precisa –che so- sullo Zimbabwe o sull’Uzbekistan. Perché l’Europa o l’Italia dovrebbero conoscere bene il Libano? L’Italia ha i suoi problemi, non vedo perché dovrebbe interessarsi più di quelli del Libano che dei suoi...a volte mi sembra un po’ egocentrico da parte degli arabi pensare che siano il centro del mondo e che tutti debbano conoscere il loro quotidiano a memoria, solo perché passa in tv.

Ultima domanda: è nato prima il film o la colonna sonora dei The Bunny Tylers? Mi piace anche pensare che rimandi all’omonimo brano dei Pink Floyd, anche se immagino sia una coincidenza.

Diciamo che è una bella coincidenza. Comunque è nata prima la canzone dei Bunny Tylers, con cui ormai collaboro da tanto tempo: non avevo ancora deciso il titolo del film, uno di loro mi aveva proposto di usare lo stesso della canzone e poi con il produttore abbiamo deciso, appunto, per One of These Days . Avrebbe potuto chiamarsi anche It Seems It All Disappears, altro brano presente nel film (è quello che fa da sottofondo alla meravigliosa scena d’addio fra Rami e Jasmina, ndr). E di entrambi, tra l’altro, ho girato il videoclip.
Questo aspetto della musica rock della droga, della dipendenza è presente, ma ovviamente non è il soggetto principale. Non voglio che One of These Days sia letto come una provocazione in questo senso, perché credo parli più di perdita, di vuoto, che di ribellione. 

Beh, direi che la musica partecipa a questa atmosfera di malinconia durante tutto il film.

Ogni regista è un musicista mancato. Sognava la musica, poi ha ripiegato sul cinema (ride, ndr). Parlando della nostalgia … la musica ha qualcosa che arriva dritta al cuore, invece il cinema fa un giro più lungo, ci mette più tempo per arrivarci.

Quindi il tuo sogno irrealizzato è di essere un musicista?

Ci ho provato ma ho smesso perché ero troppo scarso. (ride, ndr)

E sei contento di questa scelta?

Sì, perché sto iniziando a fare un cinema che riesce a conservare l’energia della musica per il modo in cui viene prodotto. Non ho bisogno di tanti soldi: ho un’idea, riesco a comunicarla subito.

 

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