altBaudrillard diceva che lavoriamo con l’illusione postuma della fine, ma se una fine implica che qualcosa sia davvero avvenuto, stando alla realtà, possiamo davvero esser certi che qualcosa abbia avuto luogo o meno? Il punto, come dice Badiou, è ancora una volta quello di sapere quale sia, al di là di questo tema della fine,il rapporto dell’arte col reale o quale sia il reale dell’arte, la differenza tra luogo e l’aver luogo…


Così Badiou non vive la questione del reale come un’epurazione, ma come comprensione di uno scarto, come un presente assoluto. Ed è appunto sull’effettività compiuta da questo presente assoluto che Crary in 24/7 spiega come un importante paradigma del neoliberalismo globalista, sia lo scorgere nel sonno un valore economico di perdita («sleep is for loser»); il tempo per il riposo è troppo costoso per essere strutturalmente possibile nel capitalismo contemporaneo – la cosiddetta bio-de-regolazione: consumption time o marketing time. Bene, se è quindi impossibile eliminare quest’unica barriera naturale, quest’unico ostacolo alla realizzazione del 24h/7days capitalism, la si può almeno distruggere, depredare, consumare… «sleep must be bought»! (Crary, 2013, p.18).

Sarà il New Chinese Documentary Film Movement degli anni Novanta a formare quello che sarà poi il nuovo sguardo dell’on-the-spot realism, o jishi zhuyi (inizialmente riferito a un giornalismo d’osservazione, poi addossato alla critica cinematografica cinese per tradurre importazioni baziniane e diffuso dai circoli accademici al gergo comune col primo canale di documentari lanciato dalla TV di Shangai nel 2002, Jishi Pindao). Per Khoo e Metzger, jishi zhuyi, è il naturalismo di superficie di un’immagine, un approccio di pura osservazione spontanea che esclude qualsiasi forma di postproduzione e manipolazione (nessun commento, voice-over, intervista), appunto, solo un’immagine di superficie, che volontariamente non approfondisce né risolve, ma conduce…

Cos’è questa passione per il reale («la passion du réel» dice Badiou), per questo vuoto distruttivo, se non la forma stessa di un’altra apparenza, di una realtà reale, direbbe Žižek, troppo traumatica per essere integrata, e quindi necessariamente distaccata e periferica. Il soggetto è un margine totalmente svuotato e astratto dal contingente, privato d’una volontà redentiva: un incidente, un archivio di urgenze che muove in un contesto spettrale fatto di perdite (una mancata forma d’opposizione, la marketizzazione culturale, la conseguenza di riforme economiche avvenute in aree rurali, le migrazioni ad essa connesse…). Certo qualcuno interpreta una tale limpida osservazione, come un’altra forma di etnografia coloniale, una curiosità esotica quanto primitiva di un urbano periscopicamente osservatosi alienare («we wanted to create a world, but in the end this world collapsed», ammette Wang); ma quanto, in realtà, non è forse proprio questa audience a deresponsabilizzare la responsabilità politica di un’immagine?

In Bitter Money, la relazione di scambio tra i personaggi è integralmente economica; il valore affettivo è un valore d’uso fatto di merci e corpi al lavoro, un valore di scambio che anticipa e misura i pensieri. Il termine tedesco Verdinglichung (thingification), traducibile con reification (cfr. Bewes), forse racchiude perfettamente questa fantastica relazione tra cose. Tutto è un astratto spazio misurabile. Ma cosa si misura davvero? Non certo un accumulo… Il paradosso, diceva Baudrillard, sarebbe nel portare lo scambio al suo limite, quello del consumo totale della realtà. Esattamente, il valore di cui si parla, non rappresenta che se stesso. L’idea del soggetto ridotto a oggetto (e viceversa), non è che perdita di coscienza (di classe), (accadeva in Rust per West of the Tracks, in cui protagoniste sono fabbriche anziché lavoratori, ridotti a puro supporto meccanico).

Così in Bitter Money la camera segue questo anonimato per contribuire all’oggettivazione del soggetto: si registra qualcuno solo per rimuoverlo subito dopo. Forse Ling Ling è l’unico possibile personaggio che raccorda e approfondisce, ma simbolicamente anche il suo relazionaresi liquida in una contrattazione («give me some money and I’ll leave; if I was with someone else I wouldn’t even need of his money»). Wang segue la migrazione di un gruppo proveniente dal villaggio rurale nel nordest dello Yunnan per ammassarsi a Huzhou, nella provincia di Zhejiang, ed essere reclutati in una delle 1800 manifatture tessili in funzione.

Non c’è affezione, profondità, legame, Wang rivela oggettivamente il declino di una scelta («who goes to work outside have no choice») a partire dalla lateralità con cui osserva e abbandona i personaggi: «Quanto riesci a guadagnare in un giorno? Quante ore di lavoro fai al giorno?». Non c’è evento, significato, storia; c’è un’idea di luogo che ha senso solo per il suo utilizzo, c’è uno spazio solo per il suo ingombro, e c’è un processo (che Mark Fisher chiama «riflessiva impotenza») che non sviluppa, ma congela. Niente di nuovo, nessuna possibilità contro l’endemica cannibalizzazione del sé.


Bibliografia

Baudrillard J. (2007): L’Illusione dell’Immortalità, Armando Editore, Roma.

Bewes T. (2002): Reification or The Anxiety of Late Capitalism, Verso, London-NY.

Crary J. (2013): 24/7: Late Capitalism and the Ends of Sleep, Verso, London-NY.

Li D.L. (2016): Economy, Emotion and Ethics in Chinese Cinema: Globalization and Speed, Routledge, NY.

Lukács G. (1971): History and Class Consciousness: Studies in Marxist Dialectics, MIT Press, Cambridge, Massachusetts.

Marx K. – Engels F. (2002): The Holy Family, University Press of the Pacific, Honolulu, HI.

AA. VV. (2010): The New Chinese Documentary Film Movement, Hong Kong University Press, Hong Kong.

AA. VV. (2009): Futures of Chinese Cinema: Technologies and Temporalities in Chinese Screen Culture, Intellect, Bristol.

Žižek S. (2002): Benvenuti nel Deserto del Reale, Meltemi, Roma.