lowtide1Siamo sempre più convinti che ciò che condanna il pensiero critico alla ripetizione del fatuo è l’ossessione del nuovo, la convinzione ‒ più o meno consapevole ‒ che ciò che vale la pena vedere, ciò su cui vale la pena scrivere sia ciò che infrange qualcosa di dato per stabilito, un codice, una forma. Ed ecco comparire, volta per volta, entusiastiche ammirazioni per rovesciamenti apparenti, ibridazioni consapevoli, negazioni più o meno annunciate di generi, forme stili. Una sorta di rincorsa spasmodica dell’avanguardia, del nuovo come icona messianica, muove a volte sguardi, percorsi critici, scritture e parole.


Eppure è il concetto stesso di nuovo, che di fatto appare nella modernità (e non si intende quella cinematografica), a non essere poi così nuovo, così necessario come criterio guida. Sarebbe forse più importante allora ipotizzare altre modalità, molteplici, aperte, attraverso le quali la visione e l’ascolto di un film o di un’immagine siano il punto di partenza per una riflessione, per un percorso che raddoppi la visione, la sposti in un certo senso più avanti. Per esempio, riconoscendo che a volte, ricostruire un’esperienza, restituirne la flagranza, il carattere eventuale e, allo stesso tempo artificiale (è ciò che il cinema può fare, in fondo, la sua potenza), è ciò che può essere straordinario nel cinema.

Ricostruire un’esperienza, un darsi del mondo come percezione ogni volta diversa, tentare di restituirla. È in questo solo apparentemente semplice gesto filmico che sta la particolarità di un film come Low Tide di Roberto Minervini.
 
Un paesaggio estivo, quasi desertico, ai margini di un centro urbano. Un ragazzo vaga lungo uno spazio desolato, semiarido. Il suo è un vagare senza meta evidente, un errare. Il ragazzo cammina lentamente, guardandosi distrattamente intorno. La macchina da presa è con lui, lo accompagna, si muove al suo ritmo. All’improvviso la sua attenzione è rivolta verso qualcosa, una fenditura del terreno dentro la quale sta cercando rifugio un serpente. La mdp scarta verso l’animale, subito raggiunto dal ragazzino, che lo afferra dalla coda e lo tiene in grembo, per qualche secondo accarezzandolo, stacco.

Ecco, è già (ancora) qui, un’immagine che fa tremare, che suscita un ricordo, di altre scritture e sensazioni. Un essere umano, un ragazzino, ancora, e un animale pericoloso. La mente corre alle parole di Bazin, a quelle immagini necessarie (che siano entrambi nella stessa inquadratura). Quando vediamo quell’immagine sappiamo che qualcosa è accaduto e che si ripete lì, ad ogni proiezione. Niente di nuovo, appunto, eppure sempre straordinario. Basterebbe accostare questa sequenza ad una qualsiasi immagine di Vita di Pi di Ang Lee dove ancora una volta, un ragazzo e un animale si trovano nella stessa inquadratura. Ma in quest’ultimo caso l’immagine desta appunto il sospetto, il dubbio che quei due corpi non siano mai esistiti insieme, che tutto sia il risultato di un gesto tecnico, un artificio digitale più che un gesto cinematografico.
 
In Low Tide si tratta allora di costruire un percorso che non è finalizzato al racconto, ma usa il racconto – il ritratto di una non-famiglia, una madre giovane e alcolizzata e un ragazzo solo che se ne prende cura – come spazio attraverso cui mostrare. Mostrare i piccoli gesti che non riempiono il tempo, come i rituali del pranzo e della cena, il rientro a casa della madre, il vagabondare del ragazzo lungo le strade periferiche della cittadina texana dove abita. Mostrare un tempo di vita che sembra svuotato di senso, ma che può improvvisamente, come un lampo, riempirsi di significato. È questo che ha importanza, osservare attraverso i gesti e gli sguardi, finanche il gesto radicale, finale, come un soggetto tenta di abitare il tempo, disperatamente, fino alla fine, o appena prima.

La macchina da presa di Minervini è concentrata su questo. Ogni inquadratura è sospesa, mobile e inquieta, non solo perché perennemente legata ai movimenti e alle immobilità del ragazzo, ma anche perché conscia di dover rimanere su una zona limite, tra vicinanza e distacco, quasi fosse una mano che si avvicina come a voler accarezzare qualcuno, quasi a rendere concreta l’utopia del toccare con la macchina da presa.
 
Tutto questo, lo sappiamo, è il moderno. È un’idea e una pratica del cinema e dell’immagine. È la pratica di Rossellini da una parte (per quanto essa mostra dell’umano), e di Wiseman dall’altra (per quanto essa è in grado di mostrare dell’inumano). È la pratica dei Dardenne proprio nel momento in cui il cinema dei due registi belgi riflette sulla necessità di un gesto o di uno sguardo, è la pratica (e la teoria) di una forma che non si ripete mai proprio perché il suo impegno è nei confronti del reale, mai identico a se stesso, mai ripetibile, sempre unico. Fondare allora un film, come fa Minervini, su una forma di cinema riconoscibile non è affatto un appello al passato, né una nostalgica ripresa di forme ormai decadute. È al contrario la sopravvivenza e la resistenza di un modo di pensare e vedere il reale che si giudica spesso e sin troppo frettolosamente, superato. Eppure, come ogni inquadratura del film di un regista marchigiano emigrato negli Usa, sempre (perché lo si vede per la prima volta) nuovo.