Sempre un occhio all'economia, in questo caso della scrittura, della critica, nell'unica accezione positiva che mi viene in mente: in quanto riconoscimento, nelle opere, dei prismi essenziali di senso, nel loro andirivieni sfolgorante, che rende il mondo buono e giusto malgrado tutto. Sguardo sui bilanci, ora che ci si pone nell'ottica dell'ottavo anno e ci si mette in condizione di rilancio, ravvio di una militanza, di un entusiasmo sorto all'epoca innanzitutto ad uso personale.

 

L'idea era ed è ora tanto più, di un'oltranza: al di là dello schermo (“fuori dagli schermi” recita uno dei volumi Uzak e relata rassegna di cinema), che potrebbe essere il distintivo delle esperienze di realtà virtuale sperimentate quest'anno da Tsai Ming Liang (visto a Venezia74) e Inarritu (che non ho visto ma di cui scrive Marelli), ma che va ancora oltre, al di là del cinema, secondo una convinzione ribadita già molte volte (ma evidentemente mai abbastanza) negli editoriali susseguitisi in questi sette anni.

Fuori dallo schermo canonico e dentro l'invenzione di una tridimensionalità di esplorazione, che diveniva a tratti (forse per i limiti stessi del mezzo) adimensionalità (distorsioni, sovrapposizione di forme, di proporzioni, condizioni di luce in aberrazioni ottiche), The Deserted di Tsai Ming Liang è ulteriore canto di corpi sorgenti, suggenti: massima rivelazione dell'intima eppure tutta epidermica, carnea poesia dei corpi desideranti, vibrati, secreti. Donna che emerge come ossessa e dolce da una vasca amniotica, nel torbido trasudare delle pareti, del soffitto, proprio dell'aria intorno, in un bagno grondante, cadente, oramai luogo solamente cinematografico (adesso spazio di libera perlustrazione), per quanto Tsai ha insistito in questi anni sugli scenari acquei, mucidi, in sfacelo; e allora non può che succhiare e sfregare il corpo dell'altro, sfinito di desiderio, lei nata da quel grondare, dal cagliarsi di rivoli sui muri.

E oltre il cinema, al di là della sua egida icastica, verso parole, frasi, o suoni, musiche, perché forse è nel primo rantolo, suono della nascita che l'immagine si riconosce come impronta iconica lasciata una volta per tutte nella vita delle cose, e viceversa, quando il suono o la parola scoprono necessariamente la loro origine in un altrove immaginale. Di qui l'esigenza di uscire dagli argini specialistici, che circoscrivono gli spazi di indagine, di invenzione critica, li soffocano per paura della loro incommensurabilità, e quindi in nome del finito e come perpetuazione del finito che sperimenta e sancisce in continuazione la fine. Che è fine della specialità stessa, è morte: dissezione minuziosa di un corpo ridotto a brandelli e contemplazione coattiva, automatica di brani imbalsamati.

L'evento cinematografico, eminentemente cinematografico di quest'anno è un'apertura incondizionata dei confini, un'apertura all'invasione dell'altro: sottolineare le inferenze politiche di una simile estetica è superfluo. Twin Peaks 3 è tra l'altro fenomenologia della parola (distorta, monca, di faticosa sillabazione nella loggia nera), della musica che ogni volta, alla fine di ogni episodio, tra shoegaze e industrial, blues ed elettronica, congela e allo stesso tempo rilancia l'azione, che è azione al di là del tempo e dello spazio, dentro una dimensione che non può che essere, ancora, puramente, cinematografica. The end of the ear.

E poi Schrader giunto al suo capolavoro, con uno dei finali più belli e cinematografici visti negli ultimi anni. First Reformed. Ruvida, rutilante poesia. Da qui riprende il cammino. La strada s'inoltra in uno spazio fumido di orizzonti, deserted, terra desolata da cui trarre frammenti traslucidi, corpi sonanti, luci come ragioni di cose, di spazi, azioni. In qualche modo si farà.