Avvolto nel suo impermeabile scuro, Mr. Glass valica la strada con passo trafelato, sghembo, un braccio poggiato sul bastone, l’altro ciondolante, penzoloni. Questo corpo trascinato a forza attraversa centralmente il campo lungo dell’inquadratura, si avvicina alla macchina da presa, mostrando il volto teso, le labbra storte. All’ingresso della metropolitana la figura, stagliata contro il cielo luminoso, si arresta impaurita, mentre uno zoom out verso il basso svela impietoso la discesa oscura, di scale e corrimani tubolari, che lo attende. Vorrebbe soltanto chiedere qualcosa a qualcuno, ma quel qualcuno non è disposto ad ascoltarlo, a fermarsi. E nel tentativo disperato di raggiungerlo, Mr. Glass, l’uomo di vetro, si avventura giù per le scale, conscio, perfettamente, di ciò che rischia a causa della sua osteogenesi imperfetta.

Con un grande lavoro registico (e di sound design) M. Shyamalan ne restituisce la palpitazione, la fibrillazione: sta sul dettaglio dei piedi incerti, la mano sulla sbarra, il volto atterrito, la soggettiva della discesa, tenendo tutto legato con un montaggio rapido e ansiogeno. E poi la rovinosa caduta, inevitabile, annunciata dallo scivolamento della mano e cristallizzata nell’astrazione di un ralenti mozzafiato, in cui lo sgretolamento del bastone in mille frantumi vetrosi, alternato ai colpi secchi del corpo sballottato sui gradini e al grido di dolore di Samuel L. Jackson, ci fa sentire, fin nel midollo, la sensazione di ossa fragilissime in sbriciolamento, la sofferenza indicibile del corpo spezzato. Era evidente, in virtù della grande attenzione alla percettibilità da parte dello spettatore con cui Shyamalan gira la famosa scena della discesa della metropolitana in Unbreakable, primo film della cosiddetta Eastrail 177 Trilogy, che il regista di origini indiane teneva in particolar modo a quel corpo martoriato e alla sua sofferenza, cui, non certo a caso, aveva riservato l’apertura del film, con quel suo tragico venire al mondo. Che il film conclusivo di questo straordinario trittico sul sovrannaturale, inteso come reazione agli urti della vita, come empowerment da resilienza (riassumibile, pur banalmente, nel calzante adagio del “ciò che non ti uccide, ti fortifica”), sia dedicato ad Elijah Price, detto signor Glass, dunque, non stupisce affatto.

Chi meglio di lui, nato con braccia e gambe fratturate, può incarnare questa miracolosa sopravvivenza agli spasimi, questa capacità di tirare fuori poteri dal travaglio esistenziale, dagli ammaccamenti, giustificare la fede in qualcosa di più forte, più grande dell’uomo e della natura: il sovrannaturale, appunto. Con il suo scovare, rincorrere e per molti versi creare (è l’incidente del treno a produrre sia il sorvegliante Dunn che la Bestia) testimonianze viventi di fede, Glass ne diventa pienamente artefice, creatore, demiurgo. E il capitolo conclusivo della trilogia insiste particolarmente su questo aspetto.
Glass è colui che scopre e plasma, attivamente, storie di vita che possono cambiare il mondo, racconti esistenziali che, facendosi mito, possono ricucire il logos universale, (ri)dare senso e potere all’umano, farlo tornare a credere, come agli albori della sua esistenza, all’immateriale, al buio della caverna, alle ombre, all’extracorporeo e all’extrasensoriale, al divino. E dunque ai supereroi, al fumetto. Che non a caso Elijah reputa testimonianza di una forma d’arte, quindi di comunicazione, lasciata in eredità agli uomini per ricordar loro una potenza che hanno dimenticato di avere.

Aspetti, quelli più sfacciatamente mistico-spirituali della produzione shyamalaniana, messi sempre in relazione con il processo creativo, con la fabulazione e con il racconto. «Spero che manterrai una mente aperta» faceva dire Shyamalan a Dunn in Unbreakable. E con Glass continua a chiederci di credere, di tornare a essere bambini per provare, ancora una volta, ad essere dei credenti, dei believers. Che è poi quello che cercano di fare, con ben altri mezzi produttivi, più grandeur, tecnologicamente ipertrofica ed effetti speciali alla Marvel, non per nulla evocata nel film con un geniale sberleffo metanarrativo. Sono due universi, quello shyamaliano e quello marveliano non così distanti, a pensarci bene, se non fosse che nel cinema l’impianto produttivo contribuisce in misura più o meno significativa allo stile – e quindi al linguaggio –  di un’opera (per convincersene, nel caso in cui ce ne fosse bisogno, basta pensare alla Hollywood classica dello star system o, specularmente, al neorealismo).

Entrambi, fenomenologia Marvel e Shyamalan, non potrebbero esistere senza quei credenti cui si rivolgono. «Trust me, true believer» è la battuta che Stan Lee continua a ripetere in Captain Marvel, mentre la supereroina gli passa accanto, sorridendogli, sul vagone della metro dove sta inseguendo uno Skrull. Una citazione – non meno sagace e metacinematografica della trovata di Shyamalan in Glass – di Generazione X (Mallrats), secondo film di Kevin Smith, girato nel 1995 (un anno dopo il celebre esordio, Clerks – Commessi), anno in cui è ambientata la ventunesima opera del MCU. Ad un certo punto, in quel film, Stan Lee, che interpreta sé stesso, si ritrova di fronte alla vetrina di un centro commerciale ad attaccar bottone con Brodie, interpretato da un altro Lee, Jason. Il ragazzo, che sulle prime non riconosce papà Marvel, gli confida di essere stato lasciato dalla propria fidanzata per via della sua ossessione per i fumetti. E Stan gli risponde che anche a lui è successa una cosa simile e che nonostante i soldi, la fama ed il successo questo amore mancato gli ha procurato un rimpianto incolmabile, le cui tracce sono disseminate nella personalità e nei poteri dei superpersonaggi da lui inventati. Di qui il consiglio al giovane di non perdere tempo e di tornare dalla sua amata, con l’invito a fidarsi della sua esperienza («trust me, true believer» appunto).

In fondo, Glass e Captain Marvel sono due facce della stessa medaglia, una più artigianale, dalla superficie meno lucidata e scintillante, emblema della poetica di un autore che con i soldi di Hollywood ha lavorato, malamente, e che con The Village e la Eastman trilogy è tornato, per fortuna, a lavorare in maniera più sotterranea, autentica; l’altra sicuramente più incerata e lustrata, forgiata da un cinema differente, sia nei mezzi che nelle finalità, un sistema costruito appositamente per sfavillare e impressionare a grandi numeri, senza grandi sovversioni.  

Eppure entrambe, pur con dispiegamenti e dimostrazioni diverse, di forze e talenti, insistono sull’elemento umano, vi si appoggiano saggiamente, consapevoli che il sovra non esisterebbe senza il naturale, a prescindere dal budget. Come hanno sempre saputo grandi cineasti come Spielberg, Zemeckis, Lucas, Scott e Cameron, che sull’equilibrio e la compenetrazione tra quelle due polarità, produttive ed espressive, hanno fondato il dipanarsi del loro cinema.

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