Raffaele Cavalluzzi

Reality45663Luciano, pescivendolo e modesto truffatore napoletano, aspira al Grande Fratello (Reality di Matteo Garrone). Va ad una selezione, nel corso della quale i selezionatori e uno psicologo parlano a lungo di lui: ne restano colpiti per probabili turbe psichiche che riscontrano – senza che lui se ne renda conto – nei suoi comportamenti. Non sarà mai “preso”, ma Luciano è convinto che prima o poi succederà il contrario: anzi, immagina che la TV lo controlli e lo faccia spiare per vagliarlo e utilizzarlo adeguatamente nello spettacolo. Per questo impazzisce dolcemente, ma scopre anche la generosità per i poveri, ed è toccato dal benessere interiore che procura lo spirito religioso di cui comincia a essere intrisa la sua solidarietà verso gli umili.


Peraltro, il tema centrale del film si manifesta come conflitto tra essere e apparire – essere della vita reale e apparire dello spettacolo –, tema attualissimo e significativamente centrato in un’omelia di un modesto prete. Del resto è questo il cuore della poetica di Garrone: l’apparire infatti lo affascina (lui non solo il protagonista di Reality) e al tempo medesimo lo spaventa. Non è un caso allora che i suoi personaggi – pescati tra la gente più comune e chiassosa – siano, figurativamente, quasi dei mostri (in questo come in altri suoi film). E sembra che egli, con una sorta di aristocratica ripugnanza, odi il mondo attraverso loro. Da un tale sentimento emerge perciò anche la forza visionaria di una scenografia sontuosa, in quanto conseguentemente iperespressionista (all’ingrosso, quasi fiabesca) e drammaticamente postmoderna. Né basta ad attenuarne l’intensità qualche delicato accenno di patetica tenerezza: Michele – l’amico che lavora con Luciano – salva la statuina di una Madonna dallo smantellamento della pescheria, sotto una pioggia irrispettosa; l’aspirante al reality in un intervallo delle prove s’accompagna alla sua famigliola, appena rassegnato, lungo i pettinati viali dello studio televisivo miliardario; il cedimento finale all’indistinguibilità del “sogno” avviene nel discutibile lusso serale di quello stesso studio, finalmente furtivamente violato dal protagonista nel suo irraggiungibile fascino.

Ma, a proposito della peculiare forma del film di Garrone, diventa naturale – all’uscita della pellicola sugli schermi quasi contemporaneamente, nell’autunno scorso, a quella del film di Daniele Ciprì È stato il figlio – il riferimento allo stile e all’ispirazione che regge quest’ultimo: che è una parabola etico-sociale (mafia di una degradata periferia suburbana sconvolta nei tradizionali parametri familiari) evocata alla luce (derivante, a sua volta, dalla passata, iconoclastica attività della coppia di registi Ciprì e Maresco) di un tagliante grottesco. Ma qui l’allegoria esistenziale (e sottilmente autobiografica) di Garrone, chiusa nella sua testimonianza semantica universale tra una panoramica che plana dall’alto nella sequenza dell’incipit e un blow-up rovesciato in quella di chiusura, lascia il posto a un racconto ferocemente “umoristico”. Sicché, mentre Garrone colloca i suoi corpi deformati e disperati in scenari barocchi posti a commento irrisarcibile della follia del frenetico apparire, Ciprì – la sua quasi perfetta fotografia – disegna icasticamente il rapporto corpi/spazio mediante un movimento della macchina da presa che è sempre controllato, cinicamente ironico. Cioè, alla fine, più reale. E qui il “segno” del dolore inevitabile è l’atroce straniamento dalla vita del “figlio” invecchiato (a cui è stato addebitato, dalla collettiva omertà dei suoi cari, l’omicidio paterno) in una rievocazione dell’evento resa penetrante e ossessiva dall’assurda atmosfera di una sala d’attesa (infinita) di un banalissimo ufficio postale.


Filmografia

È stato il figlio (Daniele Ciprì 2012)

Reality (Matteo Garrone 2012)