2009. Anthony E. Zuiker, creatore di CSI (di tutte le sue tre versioni: CSI, CSI – NY, CSI – Miami), decide che l’orizzontalità globale dei luoghi del delitto non è più sufficiente, ma che serve qualcosa in grado di rilevarne non solo la diffusione, ma anche i contorsionismi, il dato sempre in fieri delle comunità inconfessabili, la traccia non rilevabile dalla strumentazione scientifica. Quel qualcosa è Sqweegel, neppure un nome, ma un lascito sonoro, che un bambino sopravvissuto all’omicidio della madre, dice di aver sentito fuoriuscire dal killer. Quel qualcosa è Level 26: Dark Origins (già previsti due seguiti cartacei e tre film): libro, sito, film, video, serial, social network, forum, blog, videogame. Si legge il libro e, attraverso dei codici e delle parole chiave appositamente evidenziati, si affina o si complica o si depista la lettura, accedendo ai video relativi sul sito, partecipando alle discussioni e alla realizzazione stessa del racconto, oppure semplicemente al reclutamento sulla rete di altri adepti (operazione appannaggio dei 26 deputy nominati dallo stesso Zuiker, sulla base della frequenza di interventi dimostrata sul sito).

Certo, se si pensa all’intramontabile capostipite Twin Peaks di Lynch-Frost, nulla di nuovo (e anzi, ma è un’opinione personale, sul piano della scrittura per nulla all’altezza del gorgo perverso e instabile inventato per quella serie da Lynch): cambiano solo, o aumentano di numero, o si complicano sensibilmente, le mediazioni (chi non comprò, parallelamente alla serie in onda, il diario di Laura Palmer, nella speranza di leggere o di scovare il segreto più recondito?). Inoltre è ovvio che Zuiker conosca bene il modo in cui la crescita e lo sviluppo delle vastissime comunità on-line,  rivoluziona il circuito opera/autore/pubblico, mostrando in particolare un impatto sempre maggiore sui processi di scrittura, produzione e distribuzione. Sa perfettamente quanto il valore aggiunto di un’opera sia sempre meno determinato dal contenuto e sempre più dal contesto cui si rivolge. E che se poi questo contesto è una comunità liquida e ramificata, non è più importante ciò che si riceve, ma ciò che si snoda, ciò che viene modificato e diffuso (ripeto: saperlo lo sa, ma il risultato letterario, per quanto mi riguarda, è ben poca cosa).

Eppure, ciò che forse è ancor più interessante, dal punto di vista della letteratura seriale, sta nel fatto che tale diversificazione, ancorchè illimitata, registra tuttavia al suo interno la resistenza di materiali che attengono alla tradizione. Non ultima, la considerazione che Level 26 è anzitutto un libro, un libro scritto e venduto nelle librerie (certo, leggibile anche via iPhone), un libro che si deve leggere per partecipare al gioco sociale, che poi sarà non più sto leggendo, ma stiamo leggendo, e su più piattaforme contemporaneamente. Anche di questo Zuiker è assolutamente conscio, quando a ingenua domanda («Pensa che Level 26 cambierà il modo di fruire i libri, per come lo conosciamo oggi?»), risponde: «No, non credo. Non penso che i libri tradizionali scompariranno mai. Piuttosto penso che ci sarà un livello di interazione sempre maggiore con internet, con il video…».

Non un caso allora che oggi la grandezza delle serie TV USA, sia soprattutto dovuta a una generazione non di cineasti, ma di sceneggiatori (di scrittori?), il cui primo riferimento è certa letteratura anni Settanta e Ottanta. Da Dick a Ballard, da Pynchon a DeLillo, da Ellroy a Ellis, da Bunker a Crumley, fino a Franzen o a Lethem, cui corrispondono, oltre al già citato Zuiker, i nomi di J. J. Abrams, David Simon, Alan Ball, Paul T. Scheuring, Chris Carter, Eric Kripke, Ryan Murphy, Darren Star, (una figura di mezzo: il Michael Crichton di E.R., scrittore o sceneggiatore o regista?)… Nella serialità TV, nelle sue durate narrative espanse e nelle sue concentrazioni di formato, essi vedono la possibilità di prolungare il lavoro fatto sul romanzo dagli scrittori, capaci in pochi anni di (s)coordinarlo, riducendo e smembrando proprio l’apparato contenutistico, anzi utilizzando la dismisura dei temi affrontati (anche per numero di pagine scritte) come primo livello d’apparenza, fantasma da rincorrere da parte di una parola sempre meno letteraria e sempre più visivamente plastica e duttile.

Cos’altro fa Abrams in Lost (ma anche in Alias o nel più recente Fringe), se non appunto portare alla rarefazione progressiva del personaggio (character), rischiando anche di compromettere l’automatica identificazione o parteggiamento per l’uno o per l’altro dei protagonisti, appannaggio di un unico valore narrativo, di un solo protagonista, ossia il meccanismo, il dipanarsi paranoico della struttura, l’albero genealogico delle istanze narrative usato come illusione ottica, tanto impalpabile quanto appassionante perché, come tutte le storie, è già stata detta e scritta (e già arrivano epigoni e più o meno geniali interpreti del metodo: si veda il nuovo FlashForward, che altro non è che il tentativo dei personaggi di liberarsi da una sceneggiatura del proprio futuro scritta e imposta da altri, di fare a meno della sceneggiatura). È per questo che i “registi” delle singole puntate di una serie si susseguono senza troppo scalfire la procedura visiva, che anzi si ripete sempre uguale in quanto primo dato connotante e di affiliazione: perché il filmico è tutto assorbito dalla scrittura (per quanto industriale sia il brainstorming di sceneggiatura), così come la potenza della parola veniva assimilata alla filmicità semantica complessiva ottenuta dai romanzieri. E se le pagine di un libro fossero ancora e dopotutto il punto di conversione e riattivazione privilegiato di tutti gli impulsi schermici?

Ad ogni modo, Abrams appare figura da seguire con attenzione (esattamente come il suo diario di viaggio: fluttuando senza data astrale). Talmente affascinato dal paradosso temporale, costituito in sé dalla progressione seriale, da occuparsi (troppo presto troppo tardi), esclusivamente dello spazio. Quando passa al cinema, in Star Trek, siamo prima (prequel o addirittura prei-storia della TV), ma solo per intensificare il dopo, rallentando il cinemascope in una poetica post-televisiva del primo piano, che sta a metà fra l’ipertrofia di Michael Bay (e infatti Abrams è stato lo sceneggiatore di Armageddon) e il cinema-cinema di Brian De Palma. Ed ecco allora la soggettiva di Cloverfield (da lui prodotto) e la terza puntata di Mission: Impossible, lacerti temporali che insistono sullo spazio narrativo concesso null’altro che all’occhio (inteso ormai come reticolo in rete).

Altrettanto non casualmente questi nuovi ragazzi terribili della TV USA, raramente riproducono il percorso del passato, rientrando o mirando a un ritorno a Hollywood, occupandone anzi lo spazio lasciato libero, quello che riusciva a far coincidere produzione media a getto continuo e innovazione estetica e di contenuto. Oggi la produzione media hollywoodiana è comunque affine al blockbuster relativamente anonimo (e gli shooters qui si avvicendano come nei singoli episodi delle serie TV), mentre i serial ormai assolvono al compito che negli anni Trenta e Quaranta riguardava il sistema dei generi: racconti d’avanguardia inseriti nel flusso industriale. Per gli stessi motivi, a loro volta le punte più alte di Hollywood, da un lato si devono ai registi che hanno dedicato la vita a conquistarla e a rivoluzionarla, Lucas, Coppola, Spielberg (che, detto per inciso, non ha mai smesso di “flirtare” con la TV, da Amazing Stories a Taken); dall’altro ai film che mettono a soqquadro a tal punto l’immagine, da sintetizzarne in un sol colpo progressioni tecnologiche e ribellioni televisive (si è già detto di Mann e Tarantino, cui per altro verso andrebbero aggiunti Cameron e Soderbergh, oppure i Wachowski e Michael Bay).

Ma c’è in questo un’inattesa, anch’essa di stampo definibile come classico, propensione documentaristica (al limite dello snuff, si è detto), che sogna di riscrivere continuamente il mondo. Frederick Wiseman non si è più di tanto stupito, quando si è reso conto che almeno la metà dei suoi film era stata negli anni utilizzata come base per delle serie televisive. Hospital (1970) è diventato E.R., Law & Order (1969) sembra un pilot di The Wire, Jouvenil Court (1973) è sicuramente fonte di ispirazione per Law & Order, una delle serie TV più longeve di sempre. In qualche modo il serial appare come la modalità narrativa del mondo capace di interpretare al meglio l’indefessa volontà di raccontarlo, di catalogarne e immaginarne tante e tali varianti, da poter un giorno individuarne quella più vicina alla realtà. E anche se così non fosse, resta da capire perché per esempio ci sia bisogno del cronachismo estremo di The Wire, per sapere che Baltimora è la città statunitense col più alto numero di crimini e di omicidi, ovvero quale quantità e qualità d’informazione passa fra la realtà e la sua narrazione. Quali sono i limiti della Storia e quelli della sua continua storicizzazione. Se è il contenuto a reiterarsi dissezionarsi disseminarsi, o se è il soggetto a restare l’essere autoptico in sé.

(Fine. La prima parte di questo articolo è stata pubblicata sullo scorso numero di Uzak)


Filmografia

Armageddon (Michael Bay 1998)

Cloverfield (Matt Reeves 2008)

Hospital (Frederick Wiseman 1970)

Jouvenil Court (Frederick Wiseman 1973)

Law & Order (Frederick Wiseman 1969)

Level 26: Dark Origins (Anthony E. Zuiker 2009)

Mission: Impossible III (Jeffrey Jacob Abrams 2006)

Star Trek (Jeffrey Jacob Abrams 2009)


Serie TV

Alias (Jeffrey Jacob Abrams 2001-2006)

Amazing Stories (Steven Spielberg 1985-1987)

CSI: Crime Scene Investigation (Anthony E. Zuiker – Ann Donahue 2000-in corso)

CSI – Miami (Ann Donahue – Carol Mendelsohn – Anthony E. Zuiker 2002-2012)

CSI – NY (Ann Donahue – Carol Mendelsohn – Anthony E. Zuiker 2004-2013)

E.R. (Michael Crichton 1994-2009)

FlashForward (Brannon Braga – David S. Goyer 2009-2010)

Fringe (Jeffrey Jacob Abrams – Alex Kurtzman – Roberto Orci 2008-2013)

Law & Order (Dick Wolf 1990-2010)

Lost (Jeffrey Jacob Abrams 2004-2010)

Taken (Leslie Bohem 2002)

The Wire (David Simon 2002-2008)

Twin Peaks (David Lynch – Mark Frost 1990-1991)