Roberta Novielli

Limpero-dei-Sensi-1976Ai no koriida (La corrida dell’amore, questo il titolo giapponese del famoso film del regista del 1976) rappresenta una delle punte più alte della produzione di Ôshima dedicata alla denuncia del proprio paese attraverso i suoi fallimenti: la storia di una coppia vissuta in una stanza è stata spesso intesa come definitiva vittoria del privato sul pubblico. Tuttavia, il film si riferisce a un episodio realmente accaduto nel 1936: la relazione erotica tra Abe Sada e Ishida Kichizo si accende di eccessi, al punto da sperimentare con sempre maggiore intensità lo strangolamento durante l’amplesso. L’uomo, ormai esausto, chiede alla sua amante di non fermarsi e lasciarlo morire. Sada, infine, evira il suo cadavere e porta con sé il pene per quattro giorni, prima di essere arrestata. Dagli interrogatori-fiume che seguono il suo fermo, Ôshima ha tratto con fedeltà i dettagli del suo film, del tutto conforme all’originale amour fou.



Il rapporto Eros-Thanatos su cui la pellicola è interamente basata risponde a una teoria del desiderio nipponica di lunga data, parte di un tessuto culturale che il regista, nato in una famiglia di origini samuraiche, seppure sempre attratto anche dalla cultura popolare, conosce profondamente e utilizza per le sue opere. I due estremi non sono manicheisticamente antitetici, ma c’è un flusso di vita che li lega e che permette la creazione di una terza dimensione di estasi: la protagonista Sada, in particolare, che prima di conoscere il suo amante Kichi ha vissuto in una latenza sessuale, agisce sulla-nella storia riconcependo il suo amante per gradi, fa in modo che si liberi dal corpo per poterlo assorbire, cristallizzando così quel loro orgasmo-morte continuamente minato dall’esterno.
Tra i due il rapporto si evolve molto rapidamente attraverso una serie di trasgressioni: Kichi assaggia il sangue mestruale di Sada, quindi banchetta intingendo di cibo nella sua vagina, preludio dell’uovo che la penetra per scrutare il mondo al suo interno. Sada organizza i suoi rituali concentricamente intorno a sé, gestendo al contempo la sessualità di Kichi e traghettando la loro relazione in uno spazio e in un tempo sempre più privati.

L’impero dei sensi è stato spesso tacciato di apoliticità, segno di una sorta di disimpegno da parte del suo autore, proprio poiché per la prima volta ha concluso un film su uno scorcio di privato. Ci si è riferiti alla delusione politica del regista: il suo modo di adottare l’Eros come strumento per sondare la realtà e tradurla in pulsioni (politiche, sociali), si sarebbe così ridotto a un dialogo, chiuso e ideologicamente nichilista, tra due corpi inseriti solo in senso cronologico nella società. In realtà questa scelta indica il suo dissenso rispetto alle attuali forme costituite, in particolare le proteste contro il rinnovo del trattato nippo-americano, eventi letti in parallelo alla situazione del 1936, anno in cui si è registrato un tentativo di colpo di stato da parte di alcuni ufficiali, un episodio che ha marcato l’ulteriore impennata militarista del paese. Entrambi gli scorci storici diventano simbolo di un fascismo strisciante da cui il regista intende sottrarsi, denunciando che il sociale come forza attiva si è disgregato, che il Giappone ha fallito nelle sue velleità e ora non può che rassegnarsi a un “privato che lo stritoli”. Al posto dei collettivi, delle manifestazioni e delle trasformazioni sociali, si afferma dunque la sovranità di una coppia che nega (affermandone di conseguenza l’esistenza) l’impegno politico, si rifiuta di porsi a disposizione della dittatura del gruppo, si isola e approda a un’anarchia di codici e di sentimenti. Naturalmente è un sistema destinato a perire perché deviato, dato che ripropone il desiderio come principio vitale nelle sue componenti di sesso e violenza, trasgredendo così quella façade sociale con una “intenzione reale” prepotente.

È indicativo che Pasolini, negli stessi anni e come Ôshima, abbia ricostruito il desiderio organizzandolo in una struttura architettonicamente angusta in Salò e le 120 giornate di Sodoma (1975): il suo castello propone e denuncia lo stesso rapporto tra pubblico e privato edificato per L’impero dei sensi nelle varie stanze dell’albergo (pubblico)-casa (privato). È inoltre una struttura esaminata dal suo interno, corpo ermetico concluso e impenetrabile, dove si vanifica la nozione di tempo e di spazio. Sada e Kichi possono così sottrarsi al condizionamento dell’offerta e costituire un sistema economicamente concluso, essere “liberi di scegliere la morte”, negare anche l’affermarsi di un ordine proto-fascista. Ciò significa, inoltre, che non sono più soli rispetto alla guerra e all’idea di morte che questa sottende.

Come negli altri suoi film, Ôshima ricorre alla reciprocità di crimine e sesso, rispettivamente trasgressione del sociale e fuga nel privato. Così Sada e Kichi riassumono una serie di dissensi solo sotterranei al tempo, primo fra tutti il fatto che a livello popolare il grande mutamento non era ancora avvertito. Gli amanti che si “liberano” nella loro passione non accettano più alcuna forma di oppressione, nonostante conviva nella loro dimensione l’eccezionalità di una guerra. Il regista sceglie di scandirla di continuo nel film, offrendone l’esatta e cruenta dimensione. L’elemento più ricorrente è lo hinomaru, la bandiera giapponese, brandita grottescamente dai bambini o indicata dall’immagine del corpo di Sada nello stadio dopo la morte di Kichi (vittoria dell’ordine sociale sul ’potere’ della coppia, in un certo senso).

All’indomani dell’arresto di Sada, tutti i quotidiani giapponesi dedicarono ampio spazio alla notizia. Tra i tanti, per esempio, lo «Yomiuri» del 19 maggio 1936 titolava: «Omicidio grottesco alla fine di una lunga attesa – Voluttuosa tragedia – Affascinante donna uccide uomo quarantenne e gli amputa i genitali – Misterioso documento scritto con il sangue tra le gambe e le lenzuola: ‘Sada e Kichi’, noi due soltanto». In sostanza, l’immagine che si offriva di Sada non era quella di una squilibrata, ma le si riservava lo stesso ardore dedicato a figure ormai epiche della letteratura e del teatro giapponesi. Affascinante, non squilibrata o pericolosa, con un potere carismatico in grado di esercitare una fascinazione sul popolo, ancora più particolare quando si tenga conto della contemporanea esaltazione politica. Lo dimostra la lievità della pena a cui è stata sottoposta, la popolarità acquisita, al punto di diventare musa di poesie, opere teatrali, canzoni e film.

Nella descrizione di Ôshima, sesso e crimine, intersecandosi, non fanno che tradurre una pulsione che per secoli morale confuciana ed esaltazione collettivistica hanno cercato invano di gestire. In tal senso, è evidente la violenza dell’immagine, poiché presenta materializzata, quindi rivelata, una nudità. Da qui l’accusa di oscenità mossa a Ôshima alla pubblicazione della sceneggiatura in Giappone, da cui si è sottratto sostenendo: «La parola ’oscenità’ è soprattutto un termine giuridico. L’oscenità non risiede in ciò che non è rappresentato, in ciò che non si può vedere, in ciò che è celato? Essa risiede nel cuore dell’uomo che reagisce a queste dissimulazioni».

L’impero dei sensi è organizzato secondo una fitta rete di link teatrali e pittorici. La coppia è evidentemente un axis mundi posto al centro di un ideale proscenio; la sua astrazione dal contesto storico-sociale prevede che la storia avvenga in una sorta di scatola magica di cui il linguaggio teatrale costituisce un fermo supporto. Del kabuki, per esempio, Ôshima ha in qualche modo trasferito i codici scenici, affiancandovi una rigorosa unità narrativa che sorregge il carattere “tragico” dell’opera. Il film si sviluppa lungo un percorso gestaltico: ogni scena è lunga, statica e conclusa nell’unità del film; si articola come in una danza di kabuki attraverso una serie di sospensioni e di reiterazioni (dello stesso coito, per esempio), a cristallizzare i momenti anti-climax. Come per il teatro di burattini bunraku, non si tratta di imitazione, ma di stilizzazione: è la posa a conferire il senso più che il movimento. La sospensione anticipa e amplifica allo stesso tempo le sensazioni. Da questa dilatazione della realtà si recupera la fragilità dello scorrere del tempo: la tragedia è stemperata prima della scena finale, e il sangue alla fine è solo un’estensione della coppia, intendendone la fatalità del futuro.

A differenza dell’impianto teatrale di stampo occidentale, la parola ha una funzione sussidiaria; il linguaggio è facilmente intelleggibile perché ciò che conta è una “scrittura geroglifica” che si avvale di elementi visuali, pittorici, plastici e verbali al contempo. Il dècor indica l’alta attenzione prestata alla dimensione pittorica, sottolineata dalla musica che diventa parola e da una fitta rete di sguardi che pongono la coppia in posizione sempre centrale rispetto alla rappresentazione. Infatti, oltre all’assenza di fuori campo, la scena tende a rinchiudersi man mano che i personaggi vi si allontanano, ma la rappresentazione si fonda sulla rete euritmica di sguardi che segnano la distanza tra spettatore-teatro e teatro-Sada/Kichi, una distanza che si dispone a più livelli, interagenti e autonomi allo stesso tempo. Lo sguardo tende a ripercorrere gli stessi itinerari, perché dalla sua ripetizione si descrive la dimensione libidinale che attraversa il film fino allo spettatore. Gli oggetti, lo scorrere delle pareti, l’interferenza dei terzi, tutti delimitano i confini entro i quali si conclude un rito.

Una sorta di parcellizzazione iconografica dalle differenti sfumature plastiche permette che ogni istante messo in scena venga svelato al suo apparire, nel suo materializzarsi in forme, colori e ombre. La “cornice” è offerta dalla stanza e dai movimenti delle sue pareti che fungono da trompe-l’oeil, simulando profondità e spazio del reale. Tra i vari significanti del quadro c’è innanzitutto il corpo, la cui dualità di tensione vitale (muscoli in azione, sguardo) e inerzia (gli organi, il sesso), coincide con quella alla base delle xilografie erotiche dei noti artisti giapponesi del calibro di Utamaro: si esalta così un ideale materialistico del corpo come illusione di un piacere ininterrotto e inevitabilmente tragico.

Gli oggetti sono ridotti a una quintessenza e la posizione statica della m.d.p. li rende immmobili, senza una precisa collocazione tempo-realistica. La profondità si percepisce grazie alle lunghe riprese oblique, deformazioni del movimento che guida la tensione tra le forze interne al quadro e le convoglia in un unico punto focale: Sada/Kichi. Questo punto focale slitta però, un po’ per volta, al centro dell’immagine: le ultime sequenze, quelle che preludono lo strangolamento, vedono la m.d.p. ormai del tutto in asse con il corpo dei due. Tutte le porte scorrevoli si sono rinchiuse alle loro spalle e la chiusura determina un preciso senso di angoscia. Ôshima stempera questa tensione nuovamente nel finale, quando in un totale abbraccia lo stadio che, con la ripetizione illimitata di panche disposte concentricamente intorno al punto focale (il corpo di Sada), estende per la prima volta nel film, fino al fuori campo, lo spazio riguadagnato dalla sessualità di Sada.
Come nelle xilografie erotiche, ogni immagine conclusa ripropone corpi che acquistano rotondità in contrasto con il cubismo degli sfondi, effetti di luce che accentuano la nitidezza dei contorni e lo splendore dei colori (si tenga conto che lo shikido, la “via del colore”, come qualità intrinseca del mondo materiale era espressione di erotismo). La luminosità interna all’immagine è a sua volta vettore di energia, e infatti, nella scena che segue lo strangolamente mortale, l’immagine è quasi del tutto buia, non se ne percepiscono le forme e i colori, seguita dall’esplosione di luce della scena dello stadio e dal momento in cui Sada, prima di evirare Kichi, apre tutti gli accessi alla luce.

Anche i colori, come nelle stampe erotiche, sono semplici, ma intensi, distesi su ampie superfici: sottolineano i corpi più che gli sfondi; predominano, a livello simbolico, il bianco e il rosso: bianco è il volto/maschera della geisha (in Giappone questa tinta indica anche ciò che è “insondabile”), bianco è il kimono che avvolge Sada nella sua allucinazione finale. Rosso è il colore dell’iscrizione del film, sempre presente e sempre più insistente. Infine, come nelle stampe erotiche, ricorre la presenza di una terza persona che osserva l’amplesso, a volte rappresentata da uno specchio e a volte solo implicita.

Un disegno generale, dunque, che rende la protagonista il segno di un’epoca e allo stesso tempo della contemporaneità, come lo stesso Ôshima mi ha spiegato anni fa: «Sada dopo l’evirazione voleva tornare alla società. In Giappone il doppio suicidio d’amore (shinju) era tradizionalmente considerato un atto dall’alto valore estetico, ma Sada non ha mai pensato a morire. Questo è il suo aspetto più fantastico ed è il motivo per cui l’ho scelta per questo soggetto. Il doppio suicidio andava bene per la società giapponese, ma non per Sada, lei voleva solo agire».


Filmografia

Ecco l’impero dei sensi (Ai no koriida) (Ôshima Nagisa 1976)

Salò o le 120 giornate di Sodoma (Pier Paolo Pasolini 1975)