Vito Attolini

la chiamano estatePrima di riferire qualche impressione sul film di Paolo Franchi, E la chiamano estate  (uno dei più bistrattati della stagione), è il caso di accennare a quanto sia difficile spesso esprimere un sereno giudizio critico su ciò che si vede nei sempre più affollati festival cinematografici (troppi) che si svolgono a scadenza ravvicinata: autentiche occasioni per una “visione distratta”. Ce lo dice l’accoglienza riservata, nella fattispecie a Roma, al film di Franchi, sottoposto a lazzi e giudizi acri che fanno pensare ad altri obiettivi cui miravano le feroci stroncature, dettate evidentemente da ragioni che poco avevano da spartire con una valutazione un po’ più attenta. È accaduto per molti film cui poi il tempo ha reso giustizia con una doverosa rivalutazione.


Forse ciò accadrà anche a E la chiamano estate – avanziamo un’ipotesi che a qualcuno sembrerà azzardata – titolo poco felice che l’incipit potrebbe persino legittimare: riflessi di luna sul mare nella lunga prima inquadratura col sottofondo sonoro della nota canzone di Franco Califano. Ciò può portare fuori strada, percorrendo la quale si giunge a quella che ha provocato la nota baraonda ai danni di uno dei pochi film italiani della stagione che esce dagli schemi della banalità e si inoltra sul terreno impervio dell’analisi dei sentimenti, degli égarements du coeur et de l’esprit, delle infinite quanto imprevedibili manifestazioni dell’eros e dell’amore, con un occhio che a me è parso rivolto alla grande letteratura dei “moralisti” francesi, degli spregiudicati analisti dei moti del cuore – modelli alti: Madame de La Fayette con la Principessa di Cleves, o Fromentin con Dominique o Stendhal con Armance. Punti di riferimento non so fino a che punto perseguiti consapevolmente, ma che ripensati sotto la lente analitica di Franchi, aprono spiragli significativi, dai quali risultano illuminati appunto gli angoli più segreti e più sconcertanti dell’animo umano.

Referenti letterari remoti, dunque, rivisitati in chiave di premeditata inattualità, forse: ciò sembra un voler forzare il testo a significati eccentrici, tuttavia pertinenti allo stile di un’opera che ci richiama alla mente quelle lontane esperienze letterarie. Inattuale peraltro fu l’esperimento (osannato) di Manoel de Oliveira con La lettera (1999), trasposizione cinematografica del citato romanzo di Madame de La Fayette (un’altra ne aveva fatta Jean Delannoy nel 1961) con la forza di penetrazione, in gran parte ereditata dal romanzo, tipica dello stile del regista portoghese, a ben vedere, non molto lontano da quello adottato da Franchi, tendenzialmente antinarrativo e tenacemente introspettivo. Tutto ciò rischia di relegare E la chiamano estate nei confini di un esercizio di alto manierismo, e in parte lo è, pur sempre ammirevole in un cinema come il nostro che da decenni si è adagiato pigramente sulla routine del sempre uguale (cui molti critici, gli stessi che hanno “assalito” Franchi, continuano a riservare un’attenzione spropositata).

E la chiamano estate è il ritratto di Dino (un altro “uomo privato” diremmo, adottando il titolo di un bel film, anche questo malvisto, di Emidio Greco), che, (in)felicemente legato ad Anna da una passione prorompente – un amore eccessivo incapace di affrontare la piena costantemente raffrenata degli impulsi erotici – differisce nel tempo il suo naturale appagamento.
La crisi sentimentale di Dino, in bilico fra desiderio e argine ad esso opposto, potrebbe richiamare, ricordando quanto prima annotato, quella di Octave de Malivert (Armance), “innamorato platonico”, la cui “reticenza” però è determinata “per decreto della natura”. Forse nel comportamento del protagonista di E la chiamano estate si nasconde l’inconscio desiderio di sottrarsi alle responsabilità che un amore così forte comporta, trovandone un surrogato nel perseguimento altrove di ogni sorta di piacere, ai confini della perversione. Una strada che egli intraprende prima di giungere alla meta risolutiva di un legame il cui epilogo si configura come “l’altra faccia dell’amore”. Personaggio ambiguo, immerso in una luce indistinta che è sintomo della sua intima contraddittorietà. L’amore, che è la ragione della dissimulazione, rende ancora più sconcertanti le domande che ci pone. Il gioco rischioso dei sentimenti di cui Franchi ci descrive il contorto itinerario, è la maschera che nasconde la “crudeltà” al fondo di ogni passione autentica.

Il procedere del film ubbidisce alle sconcertanti ragioni del cuore, quelle ragioni che pascalianamente la ragione non conosce. O, per accennare ad un altro piano più prosaico, quello che alcuni spettatori e critici non hanno tentato neppure di conoscere, considerate le loro scomposte reazioni, riscattate dal premio per la regia conferito a Franchi e da quello per la migliore interpretazione assegnato a Isabella Ferrari a conclusione della rassegna romana. Verdetto tutto sommato coraggioso e condivisibile, che premia la grande eleganza figurativa del film, con le sue immagini costantemente immerse in una penombra allusiva di quell’incerta linea di confine che il personaggio centrale esita a superare: una scelta stilistica in cui si risolve la pertinente traduzione visiva del motivo conduttore di E la chiamano estate, l’insidiosa materia affrontata coraggiosamente da Paolo Franchi.


Filmografia

La lettera (A carta) (Manoel de Oliveira 1999)