Cosa inaspettata, è uscito l'ultimo Godard in Italia (in pochissime sale, tanto che con Uzak ce la siamo creata l'occasione di vederlo, il 15 dicembre 2014, in 3D: pubblico inaspettatamente numeroso venuto da città lontane, esotiche, inesistenti...), con tutto il corollario di aberrazioni che il film s'è portato appresso, nonostante sia un film che faccia la storia (non solo del cinema) o forse le storie, les histoires du cinema: un ingiustificato 2D, visione anodina e filologicamente (filosoficamente) errata, e addirittura la versione streaming; cioè merda-in-pixel spicciata sui monitor di una cinefilia sedentaria, collezionista compulsiva di film, di edizioni, storie come feticci, souvenir d'italie; come non fossero intrinsecamente coinvolte, queste storie (ma ne basterebbe una, definitiva, un solo film tarkovskiano o godardiano o ericiano da vedere e rivedere inserendolo nella propria giornata, per chiedersi fino a che punto lo si possa tradire, non certo il film, quanto quel grumo dialettico pulsante e rutilante nel tempo, quella sintesi universale di cui l'opera sarebbe, sempre, semplice strumento), nel contingente refrattario eppure cadente, nel sanguinoso progresso, regresso delle cose.


Adieu au langage è un film in fuga dalla storia, dall'integrità e articolazione del discorso (editabile): in questo senso è esempio concreto di quella fuga dall'imposizione discorsiva ipotizzata da Derrida, in favore della pura visualità, (s)comparizione di significanti, illogico, irragionevole montaggio (propriamente godardiano) di immagini che proprio così vivono anziché simulare di vivere. E allora Adieu vive tutto nell'abbaglio momentaneo della visione, prima di spegnersi nel proprio abisso e ritrovarsi da qualche parte, altro mondo-sequenza; non rappresentazione (del mondo), linguaggio, ma chiuso significante, cioè aperto ad altri infiniti significanti: immagine-immanenza, sequenza mondiale che formicola senza ragione (senza significato) e poi s'interrompe per l'azione cacofonica di svarioni audio-video, proprio mentre eri immerso nell'armonia degli archi-cieli autunnali. È questa cacofonia, interferenza, strappo brusco, a garantire la continuità e la dislocazione di questa struttura-cosmo: un film visibile in quanto organismo rizomatico suscettibile di progressioni, anche vertiginose, impensabili aperture di squarci senza legami con il resto, e di ritorni, regressioni su luoghi che però già non sono gli stessi.

Perciò il film si smentisce in continuazione (teso tra «lo zero e l'infinito»), smentisce (cioè immagina) la possibilità di immaginare (rinunciando alla propria edificazione se non per piani sconnessi), transitando nella letteratura, nella filosofia, nella teoria delle arti visive, ma sempre uscendo dagli ambiti (la morte degli specialismi) e ritrovandosi, carico di questa estenuante dialettica, in un interregno di vita scoperta, che è quella dell'essere nudo, sgomento, dolorante di fronte al nulla, dentro il freddo di una stanza ingombra di tavoli e sedie, su un pavimento slavato: lì brancolano gli amanti nudi come bestie; o in cui sfrigola un televisore, mentre fuori dalla finestra brucia l'ocra-foglia; o di un bagno in cui si sente la merda (cacofonia appunto), specie di correlativo oggettivo dell'esserci sostanziale, animale (inerme, insensata sostanza) della vita; della cabina di una doccia dove perpetuare l'endemico conflitto d'amore, tra l'attrito di una penetrazione, da dietro, come i cani (elogio animale preso da Rilke), e quello, identico, di uno strangolamento. Da dove non si può che tornare al cinema, alla letteratura, alla musica; da dove prendere ancora la materia luccicante di ogni vera disperazione.

È passato molto tempo da quando la macchina da presa, irrompendo nel quadro (e rivelando la verità della finzione), si struggeva per la tragedia di Camille e Paul: in mezzo c'è stato tutto un mondo di cose, di ri-pensamenti, di cose su di lei, socialismi estremi, elogi dell'amore, ma è forse a Le mepris che Adieu au langage guarda più intimamente; al lucido avvertimento dello strazio, dello strappo tra gli esseri, nel mezzo di un cine-mondo-mare-cielo-archi, che cantava la propria sordità, atonia, la propria opacità, eppure restava zona di attesa...
Nel mezzo dello strabismo in 3D, che intreccia, interrompe e confonde sagome, voci, luci, fino a violentare l'occhio, del resto già in dolorosa apnea, la poetica dello strappo non è più solo narrata ma s'incarna alla forma, nella forma della presenza/assenza mondiale, facendo ritornare corpi, cose, vicende, anzi declinandoli ogni volta in maniera differente, in possibili, infinite varianti: pezzi di mondo, isolati, refrattari, in cui si consumano metri cubi di vita, cioè di materia cinematografica.

Non si sa da dove venga la strada desolata di neve, e l'uomo che vi si incammina, pesante nel cappotto, nel ritorno a casa, nel vuoto delle stanze. Apre la porta e il buio l'avvolge, e il freddo, l'oscenità della ceramica su cui sedersi per defecare, che innerva il corpo della solitudine intorno, del sibilo del frigorifero, rotto dal graffio che corre sul pavimento slavato, l'arrivo del cane, e del suo nudo sguardo sulle cose e sull'ombra d'uomo. Erano bambini negli anni 80, e andavano per i prati con addosso una maglietta azzurra e una gonna fucsia, l'altro, vestito di blu, che guardava l'orizzonte vedendosi trent'anni dopo, con addosso già il morbo del corpo, mentre si chiedeva se fosse possibile che la bieca meccanica debba mangiarsi sempre ogni verso, ogni fede. E se, in ogni caso, la fugace storia d'amore sembra chiudersi, che ci sia sangue o no dentro l'acqua, gli amanti sopravvivono e muniti di paccottiglia (filosofia) andranno per il mondo; e lui guarderà incantato i rossi lunghi capelli di lei, scorrendo su un'auto decappottabile, per le strade oltre San Francisco. Per chi resta c'è ancora la possibilità di impastare i colori primari, di immaginare sagome d'amour fou nelle strade polverose di Parigi o nel sole del mare-d'amore, fino a renderli sgargianti, fosforici, intrisi di violenza e assenza sulla crosta terrestre, e di un intrinseco istinto ad andare, ad amare, nel vuoto.