kaspar«Così la sicurezza (la “cosa”, come dicono i giuristi) significa: 1°. violenza sulla natura: lavoro. 2°. violenza verso l’uomo: proprietà» (C. Michelstaedter).

La scomparsa di Theo Angelopoulos e di Tonino Guerra e gli anniversari di Pasolini (che oggi avrebbe novant’anni) e Carmelo Bene (morto dieci anni fa) succedutisi negli ultimi tempi, se da una parte ci mettono di fronte alla constatazione di un impoverimento, di una perdita senza rimedio, soprattutto a confronto con l'attuale depressione culturale (quindi etica) dell'Europa mediterranea; d'altra parte, in virtù dello scintillio renitente delle loro opere, delle loro rovine ad innesco, ci chiamano, mi pare di capire, a una resistenza e a un rilancio, anche oltre l’ufficialità un po’ inamidata, confindustriale, appunto, del manifesto allestito dal “Sole24ore”.


Lo sguardo lirico e dilazionato sulla storia da parte di Angelopoulos, giunto già a un suo splendido equilibrio nella Recita, contempla all’orizzonte l’apoteosi abumana di questo nuovo secolo, peraltro messa al centro della propria opera da un altro greco, Yorgos Lanthimos, già al tempo di Kinetta, per arrivare, attraverso Kynodontas, all’agghiacciante messa in scena dell’ultimo Alpis, referto dell’offensiva necrofila di un Mercato-Spettacolo che gode del proprio disastro e della propria violenza e li perpreta ancora a vantaggio di un liberismo a delinquere (vedi i tentativi, in Grecia, di rientrare nei canoni imposti dalla mitteleuropa finanziaria e, in Italia, di riformare, sformare in modo criminale la legislazione sul lavoro, con l’assenso di una sinistra gentilizia, “proprietaria” e imprenditoriale, quindi intimamente e scandalosamente contraria all'aggressione dei patrimoni). 

Ma la coscienza del portato dialettico delle rovine di un’Europa deprivata a mano a mano della propria cultura, quel Lenin dismesso nello Sguardo di Ulisse, benjaminiana rovina dell’Occidente, si esplica sulla via di un’impensata continuità (condotta magari col passo sospeso dei suoi movimenti di macchina) tra gli scorci marini (ovvero nebbiosi, nevosi all’orizzonte, così sempre slavato) di Angelopoulos, e quelli di un Manuli che proprio da lì, da un confronto con le reliquie cinematografiche (e ideologiche), con i grandi modelli dell’autorialità più intransigente (che sono quelli, in sintesi, elencati da Roberto Silvestri), immagina una a venire, gioiosa Leggenda di Kaspar Hauser. Uno scenario tutto chiuso nel suo coreografico, nell’involucro ritmico delle mosse, della mimica, della danza, ora elegantemente stilizzata ora snodata, di un bicuspide Vincent Gallo; quindi nella pura emergenza della musica di Vitalic che cadenza, coi bassi e la cassa dritta, l’intima essenza, evanescenza del visuale: le posture del pusher proteso con le braccia al cielo e il baluginare, nel grigio lunare, dei dischi volanti come innescati dalla tragico-gioiosa melodia del sintetizzatore, in quell’andamento “sentimentale” che aveva portato Vitalic al capolavoro di Trahison nel suo primo disco.

E, mi chiedo, il perfetto e funzionale isolamento (le coordinate, all’inizio del film recitano “isola”, “anno zero”, “luogo x”, “mare y”), il consapevole presentificarsi/dissolversi dei personaggi danzanti (uno nell’altro) sulla spiaggia, non è lo stesso, sia pure, ovviamente, in forme diverse, dell’Eternità e un giorno? Non è la stessa manifestazione della ricordanza-immaginazione, quella riva su cui i personaggi di tutta una vita si danno convegno per danzare con Alexander, al suono della fisarmonica di Eleni Karaindrou?

Scorgo un orizzonte (ondeggiare, soleggiare, la richiesta disperata del poeta morente al mare che gli restituisce solo un tramestio di onde), la stessa esigenza di ricomporre il caos entro un’immagine, una coreografia, forse ancora più urgente in Manuli, nella ricerca innaturalistica di posizionamenti ancestrali nel quadro, che sfocia a un iperuranio cinematografico-musicale in cui finiscono per ballare felicemente queste creature in-docili (Silvia Calderoni, Vincent Gallo, Elisa Sednaoui, Claudia Gerini, Fabrizio Gifuni innervato dai testi di Giuseppe Genna, Marco Lampis), angeli, alcuni caduti, fatti di puri nervi, puri impulsi.

Questo film straordinario è stato presentato, unico italiano, allo scorso Festival di Rotterdam, e sarà distribuito nei prossimi mesi da Irisfilm Distribution; cosa che ci consentirà, credo, di tornare a parlarne e ad assimilare questa idea di cinema alieno, straniato. E poi ci sarà il volume Il film in cui nuoto è una febbre, edito dalla “nostra” Caratterimobili, che uscirà entro fine maggio, diretta consecuzione delle predilezioni di Uzak, in cui ampio spazio sarà riservato a Davide Manuli, accanto a Lisandro Alonso, Olivier Asseyas, Lav Diaz, Bruno Dumont, Michel Gondry, Yorgos Lanthimos, Kelly Reichardt, Ulrich Seild, Apichatpong Weerasethakul. Ulteriore, umile atto di una resistenza onesta, pure fragile, che non può che consustanziarsi con l’enorme portato politico ed etico delle immagini, della poesia a tutto tondo, su cui si soffermano gli articoli di questo numero, senza troppi facili entusiasmi, senza farsi troppe illusioni, eppure facendosene tante. E ancora, la musica: accanto a Vitalic in filigrana, quella di Francesco Giannico ad accompagnare la recita di Carmelo Bene, e fare da colonna sonora all’intera rassegna, sfruttando il virtuale che ci offre una volta di più la possibilità di uscire dalla "prigione" della parola per aprirci all’ascolto e a una qualche inveterata e ingenua fantasticheria.

 

http://www.youtube.com/watch?v=IV7EYwZc1xQ