Häxan, che in italiano diventa La Strega, conosciuto anche come La Stregoneria Attraverso I Secoli, è un film girato tra il 1918 e il ʻ21 da Benjamin Christensen, genio “minore” dell'avanguardistico cinema danese del primo ventennio dello scorso secolo, il cui rifulgere è sempre stato tenuto parzialmente in ombra dall’abbagliante astro di Dreyer.

Non è mia abitudine e tantomeno lo è di Uzak insistere sulla pedissequa esposizione di sinossi e trame ma in questo caso è praticamente impossibile scindere l'analisi del dato contenutistico da quella del livello formale, nel senso che il valore del film risiede tanto nella sua sorprendente tessitura stilistica, potentissima, espressionista e percettivamente lirica, quanto nel piano ideologico sottostante,  di grande modernità e umanitarismo, che sullo schermo si sostanzia in una calibrata concatenazione discorsiva di generi cinematografici differenti, all'avanguardia per i tempi suoi, ma non del tutto scontata anche ai nostri, che costituisce uno dei valori primi del film.

Sinossi:

Il primo capitolo è costituito da una dissertazione di taglio divulgativo-accademico in cui si ripercorrono alcune fasi storiche delle umane credenze relative a spiriti maligni e demoni analizzate, secondo criteri di moderna razionalità scientifica nella loro funzione di risposta a-scientifica agli aspetti negativi, non spiegabili e non controllabili, della vita, come la malattia, il fallimento, la morte. Il primo elemento che ci interessa ai fini analitici è la struttura espositiva. La dissertazione incede con tutti i crismi del documentario scientifico e introduce lo spettatore a un'alternanza di parole, le didascalie, che riferiscono dati storico antropologici e portano avanti l'ipotesi di fondo, e immagini, fotografie di antiche statue, incisioni, illustrazioni tratte da testi dottissimi, pitture e tavole grafiche e quant'altro, che manifestano visivamente quanto esposto in didascalia, e  garantiscono la veridicità di quanto sostenuto.

Il capitolo secondo, ferma restando la relazione dimostrativa che lega le immagini ai contenuti verbalizzati nelle didascalie, passa ad esibire, in luogo dei materiali grafici e fotografici, una serie di brevi scene all'uopo recitate che forniscono un campionario dei casi di stregoneria presunta descritti a parole. Il primo passaggio, dunque, è quello dal documentario puro a una finzione allestita a scopo illustrativo-didattico, non quindi narrativo ma documentaristico in senso lato, un ibrido modernissimo per i tempi, che oggi forse inquadreremmo come docu-fiction. Con le prime immagini filmate il genio di visionario di Christensen irrompe in tutta la sua iconica potenza. Il frammento si apre nel fosco interno dell'antro di una strega, nel quale si consuma l'orripilante quotidianità di intrugli e pozioni a base di rettili e pezzi di cadavere. Si presenta una donna non bella, non più giovane, e disperatamente innamorata del pingue prete per cui lavora come perpetua. La poveretta compra a più riprese filtri d’amore, riuscendo finalmente a conquistare gli appetiti del religioso. La conclusione con l'inseguimento amoroso e le schermaglie tra l'obeso prete e la tardona non manca di una sottile e amara ironia, che smonta decisamente ogni possibile lettura peccaminosa o sacrilega del fatto. Nel secondo quadretto due studenti di medicina assetati di sapere trafugano nottetempo un cadavere per aprirlo con infinito timore e studiarne l'anatomia a scopo medico, per il futuro della conoscenza, come dicono loro. Spiati a loro insaputa da una ignorante servetta, cui invece il lume della conoscenza non rischiara affatto lo sguardo, vengono denunciati come stregoni. Nel quadretto successivo un’anziana stracciona viene scacciata a calci e come vendetta lancia una maledizione al suo tormentatore, tanto superstiziosamente certo dell'efficacia dei suoi poteri stregoneschi da caderne effettivamente vittima. «E come per le streghe avveniva per il diavolo» recita una didascalia «la credenza che la gente aveva in lui durante il medioevo era così forte da renderlo reale». L’argomentazione di Christensen procede ininterrotta e successivamente ci mostra il maligno, da lui stesso impersonato, mentre tormenta un convento di fraticelli devoti e tremebondi che per effetto delle loro certezze cominciano effettivamente a vederlo ovunque.  Poi lo vediamo mentre induce in tentazione una donna nel letto coniugale. Una vecchia febbricitante e stanca, nell'episodio seguente, cade addormentata e in sogno il maligno la copre di denari per poi invitarla ad una tavola riccamente imbandita.

Il terzo e il quarto capitolo costituiscono la parte effettivamente narrativa e del tutto finzionale del film, scene recitate, cioè, con lo scopo di raccontare una storia reale o inventata che sia. Ambientate nel medioevo, raccontano la triste vicenda di una povera anziana accusata di stregoneria dalla famiglia che inizialmente l’aveva accolta in casa. A suscitare il sospetto nei suoi ospitanti è la peculiare ingordigia con cui (provata da lunghe ed estenuanti privazioni) si avventa sul cibo offertole, sintomo, secondo loro, di un qualche demoniaco appetito. Il terzo capitolo si chiude con l'arresto dell'anziana da parte dell'Inquisizione, mentre il quarto, di artaudiana e quasi insopportabile crudeltà, segue la lunga  sequela di torture, menzogne e falsificazioni che fu il suo processo. Christensen mette polemicamente l'accento su tutta l'assurdità di questo sistema basato su superstizione, delazione e tortura. La povera vecchia, stremata, arriverà a confessare ogni sorta di connivenza con il maligno, amplessi sfrenati e contronatura, sacrifici di infanti, orgiastici convivi nella notte, e chi più ne ha più ne metta, dando l'occasione all' esondante estro iconico di Christensen di regalarci alcuni dei momenti più onirici, destabilizzanti e visionari del film. La cultura del sospetto e della delazione nella weltanshauung christensensiana non può che avere effetti nefasti e, com'era profetabile, le prime ad essere denunciate come streghe saranno proprio quelle giovani donne di buona famiglia che con tanta sollecitudine e creanza morale l'avevano consegnata alle autorità ecclesiali “per il bene della collettività”. L'atroce circolarità della struttura si chiude quando la più giovane delle donne, ormai ritenuta sospetta a causa della denuncia della vecchia, cade vittima dello stesso meccanismo di faziosa interpretazione dei più banali comportamenti e viene accusata di pratiche stregonesche volte a sedurre un prelato, finendo sottoposta a quelle stesse torture a cui aveva fatto condannare l'anziana mendicante.

Il quinto, il sesto e il settimo capitolo riprendono il filo e le modalità discorsive  della dissertazione accademica del capitolo primo. Inizialmente si tratta della totale inattendibilità delle confessioni estorte con la tortura, alternando alle didascalie, che forniscono dati storici ed illustrano le poco lungimiranti superstizioni di quei tempi, a scenette didattiche che rappresentano esempi paradossali delle assurdità a cui si poteva arrivare. Per dare una più chiara idea dell'atrocità dei metodi di inquisizione nel capitolo seguente, Christensen passa in rassegna una serie di terribili strumenti usati per gli interrogatori, mostrandone poi l'uso in brevi sequenze dimostrative. Un'altra di queste scenette, più estesa delle atre,  rivisita in chiave clinica la “possessione” collettiva che coglie come un contagio le suorine timorate di Dio di un austero convento. Christensen attribuisce al fenomeno una natura clinica, non demoniaca, e insiste sullo stato di prostrazione psichica in cui versavano queste donne costrette a continue mortificazioni, espiazioni e punizioni del corpo come dello spirito. Dai luoghi di questa clausura prima di tutto mentale, con passaggio logico elementare, ed un salto cronologico di diversi secoli, il regista apre il capitolo successivo entrando con la macchina da presa nei moderni luoghi della prigionia psichica, le cliniche psichiatriche, i luoghi dove la moderna scienza si prende cura, sempre in nome del bene collettivo, di quei medesimi stati di disagio che nel medioevo erano identificati con la condizione stregonesca e con la possessione. Non a caso ritroviamo nei volti dei pazienti dell'istituto quelli delle vecchie megere e presunte streghe degli episodi di ambientazione medievale. La dissertazione prosegue utilizzando gli strumenti della psicologia e dell'indagine clinica, offrendo una spiegazione scientifica a molti stati di disagio, manifestazioni nervose o deformità, tremori, tic nervosi, gobbe e zoppie, che un tempo erano considerati i segni della connivenza maligna.

Le immagini parlano da sole: siamo di fronte a un regista dall'esorbitante qualità espressiva, attentissimo e innovativo nell'uso della luce, capace di una potenza visiva non comune, che in questo film prorompe in quadri dalla impattante strutturazione plastica, letteralmente cesellati da un'alternanza di luci e ombre, di volumi e vuoti di grande potenza visiva, che in più si sovraeccitano in bellissimi viraggi e imbibizioni ai blu e ai rossi sondati nelle loro nuances più corpose. La struttura generale si segnala per la grande (post)-modernità con cui Christensen rimetabolizza e confonde istanze documentaristiche e finzionali, la ricostruzione storica, il filmato didattico-scientifico e parti recitate parto della fantasia, in un ibrido che scardina completamente quelle logiche di differenziazione dei generi su cui un “sistema cinema” nemmeno cinquantenne andava edificando la propria morfologia in crescita. E aggiungerei un'opera shockante, per i tempi di allora, e quantomeno destabilizzante per quelli odierni, che mette in campo un immaginario eversivo e disturbante, una galleria di oscenità, rappresentazioni demoniache e blasfeme, nudità,  amplessi e violenze d'ogni sorta, impensabile per i tempi e che oggi farebbe impallidire registi del tipo Rob Zombie e Rodriguez. (i problemi di censura in molti paesi non furono pochi, Danimarca compresa, dove però si riuscì a preservare l'integrità del film facendo prevalere la necessità veritativa del documentario su quella della spettacolarità, le versioni monche e decurtate che girano al giorno d'oggi sono ancora molte).

Qui si apre lo spazio per una prima riflessione necessaria cui conviene dedicare poche righe. L'orientamento critico più diffuso e consolidato a riguardo, infatti, tende a vedere nell'evidente compiacimento di Christensen per la profusione di oscenità e violenza una precursione delle logiche del mondo-movie e più in generale del filone explotativo del cinema, che punta tutto sulla malsana attrattiva spettacolare di elementi “proibiti” tenuti insieme da labili pretesti narrativi o documentaristici. Una delle caratteristiche salienti dell'exploitation risiede però nella gratuità dell'ostentazione, nel fatto cioè che l'iper-violenza o l'iper-sesso esibiti non siano il frutto necessario e ineluttabile degli sviluppi narrativi o delle irrinunciabili impellenze espressive del regista ma pure “attrazioni”, nel senso che diamo al termine nel definire il cosiddetto “cinema delle attrazioni” iniziato con Méliès, momenti di cinema-spettacolo puro, svuotati di qualsiasi altra ragione. Nella metabolizzazione testuale che invece ne fa Christensen, per quanto una certa compiaciuta propensione all'eccesso non possa negarsi, l'esibizione violenta od oscena sembra rispondere maggiormente a principi di necessità drammatica e di esternazione ideologica. L'insistenza sulle nudità senescenti delle vecchie streghe, sulle pieghe flaccide delle loro braccia, seni  e fianchi, più che voler risultare disturbante per lo spettatore sembra rispondere al criterio di pietosissima solidarietà umana di un obiettivo che cerca di rivelare tutta la debolezza, lo sfiorimento e la sconfitta di quei corpi. Fisicità storicamente reali di  povere vecchie, che nulla avevano a che spartire con tutto l'immaginario di seducenti mutamenti, superpoteri fisici e malie che l'iconografia popolare attribuiva a queste adepte del maligno. E così i molti dettagli splatter, necrofili ed orrorifici a vario  titolo, i mostri e i demoni e le scene di sfrenatezza sessuali che continuamente ritornano, sembrano più legati al tentativo di una restituzione analogica degli inferni mentali in cui venivano confinate quelle sventurate, che non all' esercizio exploitativo puro di una spettacolarità del negativo fine a se stessa. Molto modernamente Christensen, cioè, esibendo particolari che suscitano ribrezzo o paura, come le parti anatomiche putrefatte, i cadaveri, le creature spaventevoli e fantastiche che paiono provenire dagli incubi metafisici di Goya, intende suscitare nel suo spettatore un disgusto e un orrore, che se non possono essere identici per misura e intensità a quelli delle inquisite, quantomeno gli sono analoghi per tipologia emotiva.

E aggiungo che diversamente dal cinema puramente explotativo, indifferente alla materia trattata, non solidale, qui si respira un diverso afflato di sincera pietà umana per quelle che sono ritratte come vittime di un'immane ingiustizia perpetrata dalla storia. La violenza e l'orrore qui non sono semplicemente “esposti”, cioè mostrati per l'uso libidico del guardante, ma sono intenzionalmente “denunciati”, cioè mostrati con lo scopo polemico di suscitare una riprovazione germinante dalla solidarietà umana. E di polemica trans-storica si tratta, nel senso che oltre alle superstizioni medievali il regista non manca di investire con livore anche quelle istituzioni che ai tempi suoi, forti di rinnovate concezioni scientifiche e sociali, si erano fatte carico di mondare la società da quegli stessi stati di disagio che l'Inquisizione bollava come stregoneria. Anche questo atteggiamento di critica alla società tende a fare di The Witch un film maledetto e controcorrente, soprattutto se lo si contestualizza in un epoca in cui l'orientamento generale del cinema, che andava accaparrandosi le simpatie del pubblico borghese e benpensante, era quello di epurare i prodotti cinematografici dalla rappresentazione dell'ingiustizia sociale, della devianza, della sessualità e della violenza, o al massimo di metabolizzarle in forme edulcorate e a scopo edificante, promotrici di una visione pacificata del piano sociale. La virulenta carica polemica che anima Christensen, invece, nulla ha di quella comoda condiscendenza che si annidava nel grande cinema di quegli anni, quello americano di Griffith e Ince, del divismo positivo e salubre di Fairbanks e della Pickford, vessilliferi di un'americanismo legalitarista e timorato di Dio, o di quello nostrano, epico e in costume, che potremmo identificare con  il celebrativismo a sfondo  eroico-nazional-imperialista di Cabiria, tutto imbevuto dei valori “vincenti” della borghesia giolittiana dalle aspirazioni espansionistiche ed espansionistiche. Qui siamo di fronte a un film violento e disincantato, che si preoccupa prima di tutto di affermare una propria visione, senza preoccuparsi troppo di contraddire o disturbare la pubblica morale ed opinione, anzi, cercando volutamente di urtarle, di provocarne il fastidio.   

Häxan è inoltre un film profondamente “cinematografico”, che intende cioè produrre i propri effetti di senso ed emozione secondo modalità, e con l'utilizzo di strumenti linguistici, squisitamente cinematografici, fatto tutt'altro che scontato in quella stagione aurorale del cinema, in cui ancora largamente si risentiva di convenzioni rappresentative e modalità performative di derivazione teatrale. Sono infatti l’utilizzo espressivo della luce e dei cromatismi, del montaggio e della composizione dell'immagine (e non, per esempio, la drammarturgia d'attore, o le ricostruzioni scenografiche) a costituire la sintassi peculiare del discorso attraverso cui Christensen afferma una ben mirata ipotesi di riconsiderazione storica del fenomeno della stregoneria. È nella spietatezza di certi tagli radenti di luce, che include il proprio senso di pietà per queste derelitte della superstizione, nel modo con cui il contrasto chiaroscurale rende evidenti in maniera scabrosa la vecchiezza decrepita di rughe e  l'inconsolabile sporcizia dei volti, la debolezza senescente di quelle che furono solo povere vecchie e non certo le potentissime elette di satana che l'iconografia tradizionale ha dipinto nei secoli. Si pensi, per esempio, alla modalità tutta iconica ed espressionista con cui Christensen ci restituisce la caratura psicologica dei personaggi. Per significare l'arroganza e l'avidità viscida dei boriosi ecclesiastici dell'Inquisizione, un regista italiano, francese e perfino americano avrebbe certamente optato per un'accentuazione (più o meno esasperata, a seconda della cultura di provenienza) dei tratti mimici significanti della recitazione che afferiscono a quel tipo specifico di caratteristiche psicologiche, gli sguardi teatralmente malvagi, le pose volutamente dominanti, tutte provenienti, in forme derivate e magari lasche, dal repertorio della tradizione teatrale.

Christensen, al contrario, secondo una modalità più strettamente cinematografica, rinuncia alla centralità tutta teatrale dell'attore per affidare i suoi contenuti di senso a una deformante rimetabolizzazione visiva dei volti, certamente memore della lezione espressionista.  Nei primi piani dei frati, già accuratamente scelti in base a criteri di rigorosa irregolarità e bruttezza, le angolazioni del punto di vista e l'illuminazione cercano sempre di accentuare strategicamente quegli aspetti visivamente disgustosi e disturbanti, gli sguardi cinghialeschi o gli occhi infossati, i nasi enormi o deformi, le dentature equine o le sdentature bavose,  che ce ne danno una caratterizzazione visiva di tipo respingente, animalesco e sgraziato. Per lo spettatore diventa inevitabile la percezione di un negativo  che si concreta ed interamente si esaurisce nell'istintiva interpretazione psicologica che da a queste qualità di immagine, a prescindere da qualsiasi determinazione posteriore di tipo drammaturgico. I primi piani delle due donne torturate, quelli penosissimi dell'anziana Maria prima e quelli della giovane madre poi, che dovendo esprimere un dolore immane in Europa, e soprattutto in Italia, sarebbero stati segnati da un'altrettanto immane iper-attività mimica della sofferenza, qui sono al contrario tutti contenuti in un registro recitativo sottrattivo. I volti sono praticamente immoti nella profondità sofferenziale e l'espressione visiva della drammaticità passa attraverso la direzione degli sguardi, dolorosamente chiusi, in espressioni di totale concentrazione sul proprio dolore, o asceticamente volti al cielo quasi a invocare la pietà divina. Christensen, invece di puntare sugli eccessi recitativi, cerca piuttosto di "rendere visibile" il dolore attraverso le modalità dell'inquadratura, volumetricamente strutturata da una luce laterale e scultorea, che esaltano plasticamente ogni piega della carne, ogni ruga d'espressione e contrazione di sofferenza, rendendolo evidente per via stilistica, non interpretativa. Lo stesso primo piano del regista che apre il film, pure immobile,  è fortemente connotato in senso luciferino dal viraggio al rosso che lo staglia a contrasto della tenebra che imbeve il resto del fotogramma e da un taglio di luce che accentua gli aspetti di spigolosità dell'arcata sopraccigliare e la linea dura del naso.

Del valore eversivo che la struttura ibridata tra documentario e finzione di The Witch esprime nei confronti del nascente sistema dei generi si è fatto cenno poc'anzi e, per comprendere l'effettiva portata della scelta, bisogna considerare che  la settima arte, da quando Méliès realizzò la possibilità di un cinema che non fosse la mera registrazione del reale proposta dai Lumière, andò tutta sviluppandosi sulla base di un rigoroso principio di individuazione e separazione dei differenti generi spettacolari che era possibile porre in essere a mezzo cinematografico. Se da un lato il tenere separato il comico dal tragico, l'avventuroso dal romantico e dal documentaristico, e via dicendo, aveva un valore strettamente  autoidentificante, nel senso che permetteva al cinema, a chi lo faceva, di specificare e chiarire prima di tutto a se stesso quali potevano essere i suoi diversi usi, le sue identità e differenti grammatiche in una fase in cui tutto era ancora da scrivere, dall'altro lato, sul versante del pubblico, la distinzione tra  generi era un irrinunciabile principio di orientamento dei gusti e delle scelte commerciali. Il genere di appartenenza di un film diventava poco alla volta sinonimo di ben determinate scelte in fatto di messa in scena, recitazione e repertorio tematico, finendo col divenire la configurazione stilistica di riferimento per registi, sceneggiatori, montatori e attori i quali tendevano a ripetere trallatiziamente, di film in film, le scelte stilistiche che si rivelavano più funzionali ed efficaci, finendo col codificare una vera e propria retorica dei generi. Anche il pubblico traeva i suoi vantaggi dall'esistenza di generi cinematografici rigidamente codificati, poiché gli permettevano una modulazione “umorale” del consumo di cinema, la possibilità di scegliere preventivamente, in base ai propri gusti o stati d'umore, se essere spaventato o commosso, divertito o informato, avendo la certezza di ritrovare nel prodotto filmico del genere scelto determinate ricorrenze, la gag comica o il momento  strappalacrime, piuttosto che una aggiornata informazione scientifica o culturale, che soddisfacevano questi suoi desiderata emotivi. Si comprenderà bene, quindi, che un film come questo, che rimescola e ri-identifica generi e istanze stilistiche differenti, potesse risultare di difficile metabolizzazione per quel sistema categoriale, e ostico a una netta identificabilità da parte del pubblico, ed è in questo senso che lo ritengo un film eversivo, che scardina le logiche di una facile commerciabilità in favore di una più elevata densità, e onestà, espressiva. A questo si dovrà aggiungere che il lavoro preparatorio di studi che alimenta la componente documentaria di Häxan durò diversi anni e fu inteso in senso straordinariamente moderno per accuratezza e piglio scientifico dell'approfondimento. La meticolosa programmazione dell'utilizzo delle fonti in un percorso dimostrativo razionalmente, e dunque preventivamente sviluppato, fanno specie in una fase generale del cinema in cui erano rari i casi di meticolosa programmazione e scrittura preventiva dei film. Oltre a una certosina consultazione di fonti storiche, pittoriche e antropoligiche a vario titolo, Christensen studiò a lungo il Malleus Maleficarum, Il Martello delle Streghe, del 1487, il più delirante e consultato manuale per l'esercizio della caccia e interrogatorio di streghe ed eretici presunti, redatto ad uso e consumo di inquisitori solerti e torturatori provetti.

Si consideri che non esisteva una iconografia cinematografica stregonesca precedente cui si potesse attingere e dunque  toccò al regista fondarne una ex-novo, operando una sintesi degli unici materiali figurativi disponibili, quell'immaginario pulviscolare relativo a streghe e demoni che si ritrovava disperso in mille incisioni, illustrazioni libresche e dipinti, frutto delle credenze superstiziose che si erano sedimentate nel corso dei secoli sull'argomento. Tutto l'immaginario infernale che infesta i fotogrammi di Christensen, il vario repertorio di mostri, demoni e abominevoli creature che strisciano fuori dalla tenebra, pare una diretta filiazione degli incubi metafisici del Goya “nero”, delle rappresentazioni infernali del Bosch delle Visioni Dell'Aldilà, della Tentazione di Sant'Antonio o delle molte rappresentazioni degli inferi che ritornano nelle opere sue e di Bruegel. Anche l'uso di tagli di luce fortemente contrastati e direzionati (sopratutto lateralmente), che rende così corpose le sue immagini, pare di derivazione squisitamente pittorica, fiamminga per la nettezza e la definizione di contorni e  contrasti, e di scuola italiana, caravaggesca, nella violenta capacità di evidenziazione dei volumi e dei vuoti della materia e soprattutto dei corpi. Di come poi Christensen pieghi questa luce pittorica ai suoi bisogni espressivi già si accennava in apertura. Si veda a titolo puramente esemplificativo l'efficacissima caratterizzazione luministica “stregonesca”, misteriosa e lugubre che rende così forte la scenetta che si apre all'interno dell'antro delle streghe. L'illuminazione, contrastatissima e giustificata a livello diegetico dall'unico fuoco che illumina l'ambiente, crea vaste plaghe d'ombra che rendono il fotogramma decisamente cupo, inghiottito per vaste porzioni da una tenebra da cui emergono, come se le sputasse fuori, fisionomie parziali, dettagli macabri, teschi e animali morti appesi, rettili, calderoni ribollenti, nitidamente stagliati contro il nero,  baciati di una luce instabile che nel viraggio al rosso rubino getta su tutto bagliori  infernali. I volti anziani ne sono come trasfigurati, evidenziati in tutta la loro rugosità, scolpiti da questo alternarsi di luci ed ombre che accentua anche i più piccoli rilievi e accidenti dovuti al tempo, resi sinistri dalle ombre allungate dei nasi, degli incavi degli occhi che gli conferiscono fisionomie aberrate e terrifiche.

C'è poi da menzionare il fatto che le modalità con cui Christensen concatena le diverse parti documentaristiche e finzionali, il montaggio nella sua funzione macroscopica di forma di organizzazione del discorso, è strategicamente concepita per favorire una aumentata croyance spettatoriale, che coincide con una diminuzione della percezione della finzionalità delle parti inventate e recitate. Christensen, infatti apre il film introducendo il proprio spettatore in quella peculiare dimensione psicologica che è il documentario. Le diverse fattispecie filmiche, i generi, inducono nel pubblico un certo tipo di aspettative specifiche circa la natura delle informazioni  fornitegli e sullo statuto di realtà delle immagini che vede scorrere sullo schermo. Da un documentario, un film il cui scopo è informare o istruire, lo spettatore si aspetterà quantomeno che le informazioni siano veritiere, corrispondenti a realtà, e che le immagini abbiano un contenuto reale, che siano la manifestazione visiva priva di mediazioni finzionali dei fatti reali su cui viene informato. E d'altronde le statue antiche che Christensen esibisce, i vetusti volumi da cui attinge illustrazioni e informazioni storiche con la loro incontestabile aura di storicità (in senso benjaminiano), garantiscono allo spettatore una fortissima impressione “di verità”. Quando opera il primo scatto verso la finzionalità e sostituisce le scenette recitate ai reperti storici e ai dipinti, la relazione tra informazione verbale e immagini per lo spettatore resta sostanzialmente immutata perchè le parole in didascalia enunciano un concetto e immediatamente dopo le immagini ne forniscono la prova visiva. Per quanto appositamente allestite e palesemente “recitate”, messe in scena, le brevi sequenze non vengono percepite in maniera diversa dai reperti storici precedentemente visionati per via della loro relazione dimostrativa con i concetti espressi in didascalia. Per quanto la loro essenza finzionale non possa essere del tutto ignorata, nell'immediato della ricezione delle immagini queste saranno intese più che altro nel loro valore di epifenomeni visivi delle informazioni verbalizzate, al pari dei documenti storici reali, impressioni retiniche di fatti reali, con un evidente guadagno in credibilità, croyance, appunto, per lo spettatore. Ed è esattamente con queste modalità che Christensen inserisce le parti propriamente finzionali e narrative del film, semplicemente con una didascalia che segnala l'inizio di un nuovo capitolo della dissertazione che si sta portando avanti dall'inizio e lasciando credere allo spettatore che ancora si tratti di immagini “dimostrative”, che concretizzano a livello visivo fatti reali. Partendo dal presupposto volutamente indotto della veridicità delle immagini, lo spettatore tenderà ad inferire la realtà dei fatti in esse rappresentati e non riterrà quanto vede come il frutto dell'invenzione drammatica, ma ulteriore momento dell'attestazione visiva di fatti storici realmente accaduti. L'effetto di realtà che se ne ricava era certamente non comune per i tempi e ancora oggi dispiega una sua efficacia nel non far percepire la discontinuità tra parti documentaristiche e narrative.

In conclusione vale la pena ricordare anche l'enorme sforzo tecnico che questo film rappresenta. Christensen per mettere in scena la sua infernale dimensione ultramondana, le prodigiose e mostruose creature, gli incubi e i deliri ricorre a un vasto repertorio di soluzioni stilistiche innovative ed effetti speciali. Molte le  sovraimpressioni, le animazioni a passo uno, le apparizioni e le sparizioni, incredibili i costumi di scena, i pupazzi animati e chi più ne ha più ne metta, che resero la lavorazione di questo film estremamente complessa e la sua resa spettacolare dirompente. C'è qualcosa, però, che trascende nettamente la semplice volontà explotativa di stupire ed attrarre lo spettatore con effetti speciali mozzafiato, una implicita valenza pionieristica, di avventurosa ricerca che si sostanzia sia al più astratto livello della ricerca di soluzioni visive d'avanguardia, sia al ben più concreto livello dell'esplorazione delle possibilità della loro realizzazione tecnica. Diversamente da quanto avviene oggi per i creatori di effetti speciali, il cui lavoro consiste nella maggior parte dei casi in una adozione magari anche sorprendentemente creativa di soluzioni e dispositivi tecnici già esistenti, per il pioniere Christensen in molti casi si trattava di dover inventare, oltre all'effetto speciale voluto, anche gli strumenti e i dispositivi meccanici che ne permettevano la realizzazione concreta. La scena onirica in cui le streghe si recano al sabba sfrecciando sulle loro scope con consistenza semitrasparente e fantasmica, mentre il paese visto dall'alto scorre velocissimo sotto di loro, ci fornisce un buon esempio dell'estrema complessità di lavorazione. Essendo una sovraimpressione, ai tempi dovette ovviamente essere girata in due momenti differenti, prima riprendendo la visione aerea in movimento del paese, e in una sessione di ripresa separata, le streghe sulle loro scope. Non disponendo di velivoli per sorvolare il paese, questo fu riprodotto su un gigantesco modellino in scala ridotta e montato su un tavolo girevole che, ruotando, faceva sfilare i tetti delle case “al di sotto” delle streghe, e il peso della struttura era tale da dover essere spinta da venti persone contemporaneamente. Per simulare l'effetto del rapido movimento delle streghe, girate da ferme a cavallo delle scope su fondo nero, era poi necessario che le loro vesti svolazzassero all'indietro frustate dal vento e dalla velocità, ma non si riuscì in alcun modo a far sollevare di un millimetro i pesantissimi costumi che indossavano le comparse sino a quando Christensen non ebbe l'idea folle, e costosissima, di ventilare il set con la turbina di un aeroplano che fece montare appositamente nello studio di posa. Bisogna ammettere che il risultato fu pienamente raggiunto, nella scena finita i laceri panneggi delle streghe ondeggiano che è una meraviglia, e sotto di loro un suggestivo paesaggio di tetti sfila a velocità sostenuta e costante, ma si pensi allo straordinario sforzo che questo piccolo effetto ha richiesto, e come questo moltissimi altri, per comprendere l'enorme valore pioneristico, di inventiva tecnica e linguistica insieme, che sta alle spalle di questo sontuoso film.

Ed è proprio in questa spericolata volontà di esplorazione del cinema, del suo linguaggio, come delle sue possibilità tecniche, nella libertaria noncuranza per le restrizioni imposte dalla morale di facciata del nascente sistema cinema e nella debordante visionarietà delle immagini come dell'intelletto, che si ritrovano tutte evidenti le ragioni di “uzakità” di questo film, continuamente attuale, attualmente divergente.

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