Gianfranco Costantiello

disSe non fosse per la resistenza lungo le trincee notturne di Fuori Orario, per qualche importante retrospettiva – ad esempio al “Festival di Torino” nel 2002 – o per il lavoro di certa critica di tendenza («Filmcritica» e «Alias»), il nome di Julio Bressane sarebbe pressappoco sconosciuto qui da noi. Fuoriclasse del cinema novo, il regista di Matò a la familia e foi ao cinema fa la sua comparsa, proprio in questi giorni, nell’insolita veste di scrittore, in quel flusso inafferrabile e febbrile che è Dislimite, libro bellissimo pubblicato per i tipi di CaratteriMobili. Si tratta, ad essere precisi, di una preziosa traduzione – a cura di Simona Fina e Federica Niola – di quei testi scritti tra il 1996 e il 2011 e pubblicati in quattro volumi, per le edizioni Imago, in Brasile. E sì, perché Bressane è anche un saggista, un pensatore, un poeta filosofo, il cui lavoro, a dirla tutta, ha già visto una pubblicazione in Italia, grazie alla militanza di Roberto Turigliatto (Fuori Orario), a cui Dislimite è dedicato.

Attraverso una scrittura densa e traboccante, quasi in conflitto con la pagina, Bressane prova a dire il cinema, e non solo, dialogando col pensiero sempiterno di alcuni giganti come Deleuze, Emerson, Nietzsche, Debord, ecc. e con le immagini potenti di Straub, Antonioni, Godard e l’amico Sganzerla.
Risalendo all’origine, esattamente al lontano 1898, si scopre che il cinema brasiliano nasce già moderno e sperimentale, per mano dei fratelli Secretto, che catturano – di ritorno dall’Europa, dove avevano acquistato una macchina da presa – l’ingresso nella baia di Guanabara nel gesto anarchico di un travelling oscillante. Ciò che conta è «il come si vede, che vedere le cose come sono», ci viene suggerito dalla penna del poeta Antonio Vieira, ripescato dalle acque dell’oblio. Più tardi, negli anni Trenta, Mario Peixoto, in Limite, andrà oltre, esiliando attori, intreccio e paesaggio fuori campo, per dedicarsi, con una macchina tenuta a fil di suolo, solo al movimento e alla luce. Appare perfetta, allora, quella formulazione di Abel Gance che torna più volte a scandire come un ritornello queste pagine: «il cinema è la musica della luce».

Espressione magica, breve e segreta, che si riverbera in Deleuze, colui che «ha visto nei film, film che nessuno ha visto». Con devozione Bressane rispolvera a fondo il lascito del filosofo dell’Immanenza, autore di quei due volumi fondamentali sul cinema, L’immagine-movimento e L’immagine-tempo, che hanno cambiato la maniera di esplorare l’universo semiotico dei film. Ma soprattutto, egli ha fatto cinema invertendo il senso di superficie, entrando a gamba tesa contro la “profondità” classica della filosofia. «È sempre procedendo lungo la superficie, la frontiera, che, in virtù di un anello, si passa dall’altro lato» (Deleuze 1969, pag.18), scriveva in Logica del senso, ed è tutto il suo pensiero, a ben vedere, a vibrare su quella frontiera minima che lo separa dal non pensiero. Così il cinema di Bressane, e di riflesso la sua scrittura, si muove su quello stesso limite, anzi dislimite – col prefisso dis- a scompigliare il radicale – al pari, ad esempio, di Jean-Marie Straub, che ha saputo, con uno stile apparentemente essenziale, ma in realtà eloquente e iperbolico, alimentare la volontà di un cinema oltre il cinema. Come in Cronaca di Anna Magdalena Bach, dove adagia il barocco musicale di Bach in un piano fisso e rigoroso, che è «traduzione intersemiotica radicale, poetica, […] che fa passare […] un’impronta di luce, la vita… durata pura che si fa melodia». Da quell’eccesso di secchezza estetica, che accentua gli elementi fondanti della mise en scène, pare emergere un sentimento del tempo, che assume, secondo Bressane, i tratti di una ferita, di una lacerazione insanabile tra «ciò che rimane e ciò che se ne va».

E quando si parla del tempo, si parla, inevitabilmente, col ricordo. Quello effimero e spettrale di Antonioni, incontrato casualmente la prima volta al “Festival di Taormina” nel 1992 – «Michelangelo Antonioni?», gli aveva chiesto due volte incredulo prima di stringersi in uno specchio di occhi lucidi – e rivisto l’ultima volta, in vita, a Rio, qualche anno più tardi; mentre spirituale e ispiratore – perché in quel momento, come ebbe a dire al “Festival di Pescara” nel 2008, si fecero da soli i due film: Passagem em Ferrara e Ver viver reviver – fu l'ultimo avvicinamento, sulla sua tomba, nel gesto involontario di una mano che tira fuori dalla tasca un fazzoletto, come a esaudire una richiesta muta e segreta. «Pianse sempre, in tutta la sua vita», gli confidò una volta Carlo Lizzani.
L'altro ricordo, commosso e inafferrabile, è quello di Rogério Sganzerla. È il passaggio più intenso dell’intero libro: pagine che sono una lettera di commiato, e che tradiscono l’emozione della perdita inattesa e prematura di un compagno di vita. Un fuoco di fila di immagini luminose e imprendibili sembra tenere il ritmo impercettibile di quel continent inconnu (Godard) che è il montaggio cinematografico. 
Ecco allora la scrittura farsi cinema, allontanarsi verso altri linguaggi, tendersi all’immensa vertigine dell’arte. Così che questi scritti paiono scivolare, senza remore, in un flusso imprevedibile che va dalla poesia alla musica, dalla pittura alla letteratura, dal cinema alla vita.


Filmografia

Cronaca di Anna Magdalena Bach (Chronik der Anna Magdalena Bach) (Jean-Marie Straub – Danièle Huillet 1968)

Limite (Mario Peixoto 1931)

Passagem em Ferrara (Jùlio Bressane 2007)

Uccise la famiglia e andò al cinema (Matou a Família e Foi ao Cinema) (Jùlio Bressane 1969)

Ver viver reviver (Jùlio Bressane 2007)


Bibliografia

Deleuze G. (1969): Logica del senso, Feltrinelli, Milano.





Titolo: 
Dislimite
Anno: 2014
Durata: 134 pagine
Genere: Saggio
Specifiche tecniche: 13 euro
Produzione: CaratteriMobili

Regia: Julio Bressane

Introduzione: Lorenzo Esposito
Progetto grafico: Maria Rosaria Digregorio e Clara Patella

Reperibilità