Nicola Curzio

antiviralIl Film come un corpo. Qualcosa che muta e si trasforma, in un continuo divenire; che vive (e muore) in ogni istante, in ogni inquadratura, fino a quando lo schermo non diventa completamente buio e si riaccendono le luci in sala. Qualcosa, dunque, che è soggetto alla contaminazione: la contaminazione dello sguardo, prima di tutto.


Antiviral
(2012) è l’esordio cinematografico di Brandon Cronenberg, figlio d’arte, autore già di due cortometraggi, entrambi riconsiderati nel film in questione (specialmente il primo, Broken Tulips, 2008). La storia è quella di Syd March, dipendente di una multinazionale specializzata nella vendita di virus-non-virali (cioè non contagiosi), provenienti direttamente dagli organismi delle celebrità; immischiato in affari illegali, utilizza incautamente il proprio corpo per impadronirsi dei virus e rivenderli al mercato nero. La situazione si complica quando si inietta nelle vene il sangue infetto della superstar Hannah Geist, che poco dopo si scoprirà essere morta proprio a causa della malattia.

Quando ancora lo schermo è nero, già si odono in lontananza rumori di traffico cittadino, di circolazione urbana. La prima immagine mostra il protagonista infreddolito con un termometro in bocca; la seconda, più larga, estende il quadro fino a ricomprendervi anche l’enorme manifesto pubblicitario alle sue spalle; in questo vi è raffigurata una donna, la diva dello spettacolo Hannah Geist, l’immagine stessa dello Spettacolo. La prospettiva si ribalta e quel flusso di autoveicoli che si sentivano sullo sfondo viene ora inquadrato. Poi ancora uno stacco sull’uomo che controlla la sua temperatura corporea. Infine, compare il titolo del film, color sangue su un fondale di carne pallida; rosso e bianco, come il sublime Semper Augustus, il leggendario tulipano che deve i suoi colori e la sua bellezza al virus da cui è affetto.
Il prologo sembra portare con sé un messaggio: questo film è malato, infettato. Il virus è l’immagine e, come tale, è già in circolo. La corrente delle autovetture pare alludere proprio a questo. Il termometro pare misurare proprio questo stato febbricitante in cui versa l’intera pellicola. Mentre il volto di Hannah Geist, ritratto nel manifesto, è un enigma, una maschera che nasconde «une force vide, un champ de mort» (Artaud 1995, p. 206).

Questo morbo invisibile colpisce anche i personaggi che popolano il film. Nella prima scena un ragazzo si reca alla Lucas Clinic per acquistare e farsi iniettare un virus; basta un primo piano, però, per svelare che è già infetto: ricorda uno zombi di Romero, una creatura che non ragiona, mossa unicamente dall’istinto, da una pulsione irrefrenabile a consumare (le immagini). Così, anche le altre figure che compaiono nel prosieguo della pellicola appaiono tutte possedute; sono cannibali assuefatti dalla bellezza perfetta dell’immagine(-virus), che si cibano, letteralmente, della loro stessa carne. Brandon Cronenberg documenta con perizia chirurgica non tanto l’avanzare della malattia, quanto la sua onnipresenza: lo scenario è postapocalittico, il contagio è già avvenuto. Ci troviamo in un futuro (prossimo?) da cui non sembra più possibile fuggire. Telecamere a circuito chiuso sorvegliano e imprigionano i personaggi in schermi televisivi, li rendono copie e ne mostrano la loro natura: insetti mutanti, cavie da laboratorio, esperimenti mal riusciti. L’ossessione del “controllo” di burroughssiana memoria trova qui piena effige. L’orrore che genera questa pellicola, il senso d’inquietudine che la pervade costantemente, è dovuto alla verosimiglianza di quanto rappresentato. È «l’orrore possibile» teorizzato quasi cent’anni prima da Tod Browning, che si nutre di sapere scientifico e si fonda sul concepibile. Come nel cinema di David Cronenberg, «la realtà sociale, anche se abbozzata, è sempre realista (se non addirittura iperrealista) e i “mostri” non sorgono mai “per magia”; al contrario essi sono sempre individui socialmente e storicamente esistenti che, per effetto di un trauma, di una manipolazione medica o di un esperimento scientifico tentato su se stessi, si ritrovano alterati, metamorfizzati, mortalmente colpiti da una mutazione organica» (Grünberg 1999, pp. 25-26). L’orrore è materiale, «allo stesso tempo interiore, viscerale, giocato cioè sul ripugnante, e medico» (ivi, p. 30).

Antiviral è esso stesso un esperimento, un corpo sottoposto al virus dell’immagine. Come il personaggio di Arvid osserva il farsi di una nuova carne nel suo giardino di cellule, così Brandon Cronenberg guarda il quadro (de)comporsi in un processo continuo che non conosce inizio né fine, aggiornando quella diagnosi sull’immagine, e sulla sua mostruosità consustanziale, operata dal padre anni prima (Videodrome, 1983). Anche qui, dunque, «il virus, la proliferazione virale, è nel contempo il tema centrale della sua opera e il modo per individuarla, la sua tecnica» (ivi, p. 27).
L’immagine, “più che perfetta, più che umana”, deflagrante sostanza mediatica, confezionata e venduta nel film, è la materia di cui è fatto il film stesso. Lo splendore formale, la luccicanza del bianco sovraesposto che domina la scena, ne lasciano intuire l’inconsistenza, l’artificialità, la finzione: sembra di trovarsi di fronte ad un lungo spot pubblicitario che riflette i desideri di chi guarda. L’essenza della pellicola, allora, emerge impercettibilmente nei brevi momenti di disturbo, di scarsa frequenza, quando l’immagine si increspa e si rivela per quello che è: simulacro, illusione del reale; come nell’ultimo video (pubblicitario) di Hannah Geist, in cui per un istante la sua figura e la sua voce si smaterializzano e si deformano.

L’operazione del giovane regista canadese è simile a quella compiuta nel film dal protagonista Syd March: isolare il virus, dargli una forma, un volto reale. Egli modella l’immagine-virus, cioè l’immagine dell’invisibile, alla stessa maniera in cui lo faceva John Carpenter in La cosa (The Thing, 1982), ossia «intuendone ed esibendone le costitutive in-formità e im-possibilità a conoscerla vederla sentirla» (Esposito 2004, p. 59). Al pari di The Thing, anzi in maniera più esplicita e manifesta, Antiviral «documenta uno sguardo gettato nel meccanismo della sua stessa generazione, dove ogni cosa esprime l’angoscia di (non) potersi dare a vedere se non nell’estremo accecamento dell’effetto speciale, di una mutazione mostrata fino a (non) poterci credere, di essere ovunque, in ogni punto della visione e in ogni impalpabile variazione del proprio spazio interiore» (ibidem). “Ready Face”, il macchinario che nel film permette di materializzare (in uno schermo) il patogeno, allora è il cinema stesso (e l’uomo ne è ingranaggio fondamentale, senza il quale tale processo non funzionerebbe, come viene esplicitato nel più terribile degli incubi di Syd March, quando il suo corpo si scopre fuso con la macchina). E le Figure (i volti del virus) che questo produce rispondono proprio all’esigenza di rendere visibili delle forze che per loro natura non lo sono. Esattamente come nella pittura di Francis Bacon «non si tratta di riprodurre o di inventare forme, bensì di captare delle forze» (Deleuze 1995, p. 117). L’evocazione di Bacon diviene addirittura testuale, visiva, quando Syd March/Brandon Cronenberg modella con la console/cinema l’immagine del virus: proprio come nei dipinti del pittore irlandese (si vedano, ad esempio, gli studi sui ritratti e gli autoritratti degli anni sessanta), «la straordinaria agitazione delle teste non proviene da un movimento […], ma piuttosto da forze di pressione, dilatazione, contrazione, schiacciamento, stiramento, che vengono esercitate sulla testa immobile» (ivi, p. 119).

La cella in cui viene rinchiuso il protagonista diviene, dunque, luogo-simbolo; vera stanza kubrickiana fuori dal tempo, bilanciata da quattro immagini-monolite (ancora il volto-maschera di Hannah Geist) identiche e perfettamente simmetriche, immersa, come l’intero film, in un biancore accecante (ennesimo richiamo al primo Lucas, ma anche alla neve artica di Carpenter), ad un tratto sporcato di sangue. Spazio puramente teorico, teso verso una finzione assoluta, (il)limitato e tutto chiuso su se stesso (cfr. Esposito, p. 60), arena in cui si muove la cosa che Brandon Cronenberg vuole catturare, filmare. Luogo, quindi, totalmente assoggettato al potere dello sguardo (ancora una telecamera a circuito chiuso) al punto da essere il set per un macabro reality: realtà creata dall’atto stesso del guardare, da chi guarda, da chi si trova dall’altra parte.

La sensazione però è che il virus abbia oltrepassato queste mura stagne, contaminando anche tutto ciò che si trova al-di-là, lasciando le sole telecamere robotizzate a riprendere la scena. La sequenza finale sembra deporre proprio in questa direzione: il corpo putrefatto e mutante di Hannah Geist, consumato dalla cosa, dall’immagine-virus, è imprigionato all’interno di una capsula. All’esterno, Syd March, che nella narrazione dopo aver rischiato la vita, è stato teoricamente salvato da un antidoto, è mosso da un impulso primordiale: come un vampiro, succhia dall’arto deforme della diva il suo sangue infetto, quasi fosse un nettare divino cui non si può resistere, o un siero che conduce all’immortalità, mostrandosi così inequivocabilmente malato, inebriato come gli altri dalla bellezza (putrida) dell’immagine(-virus). «La bellezza? Si dice che sia nell’occhio, nell’occhio di chi guarda», ci ricorda Carax nel suo capolavoro, tenebroso epitaffio del cinema, Holy Motors. E se quest’occhio fosse ormai, inguaribilmente, malato?


Bibliografia

Artaud A. (1995): Antonin Artaud. Oeuvres sur papier, publié à l’occasion de l’Exposition Antonin Artaud (rédaction du catalogue Agnès Angliviel de la Beaumelle, Nicolas Cendo), Marseille, Musée Cantini, 17 juin-17 septembre1995.

Deleuze G. (1995): Francis Bacon. Logica della sensazione, Quodlibet, Macerata.

Esposito L. (2004): Carpenter, Romero, Cronenberg: discorso sulla cosa, Editori Riuniti, Roma.

Grünberg S. (1999): David Cronenberg, Shake Edizioni, Milano.


Filmografia

2001: odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey) (Stanley Kubrick 1968)

Antiviral (Brandon Cronenberg 2012)

Broken Tulips (Brandon Cronenberg 2008)

Freaks (Tod Browning 1932)

Holy Motors (Leos Carax 2012)

La cosa (The Thing) (John Carpenter 1982)

L’uomo che fuggì dal futuro (THX 1138) (George Lucas 1971)

The Camera and Christopher Merk (Brandon Cronenberg 2010)

Videodrome (David Cronenberg 1982)

Zombi (Dawn of the Dead) (George A. Romero 1978)


Riferimenti iconografici all’opera di Francis Bacon

Triptych – Three Studies for Portrait of George Dyer (on Light Ground) (1964)

Four Studies for a Self-portrait (1967)

Triptych – Three Studies for a Self-portrait (1967)

Triptych – Three Studies of Isabel Rawsthorne (1968)