risultati per tag: Mariangela Sansone

  • Da un’acidula melagrana, squarciata e sanguinante, può nascere un pesce rosso che ha fagocitato due tigri pronte ad avventarsi su un innocente corpo femminile nudo, mollemente adagiato tra cielo e terra. Le creature infernali e paradisiache dipinte da Dalì nel Sogno causato dal volo di un'ape intorno a una melagrana un attimo prima del risveglio, del 1944, evocano il tormento e l’estasi della natura umana, e le pulsioni implosive ed esplosive del desiderio.

  • Ci sono tele davanti alle quali si resta ipnotizzati, che impediscono di distogliere lo sguardo e che fanno scivolare in una vertigine mistica, tra le pennellate impastate di colore ematico, i confini del reale slittano in un immaginario di incubi e sogni confusi, in un deragliamento mesmerico dei sensi.

  • «...siamo oggetti del desiderio solo in quanto corpi. Il desiderio resta sempre, in ultima istanza, desiderio del corpo, desiderio del corpo dell'Altro, e nient'altro che desiderio del suo corpo.»

    (J. Lacan - Seminario X - L'angoscia)

  • «À quoi bon un cinéaste en temps de manque? À faire parler la Terre! Entrer dans le secret d'un Soleil, d'une brume et du magnétisme tellurique - via les indigènes du secteur...»
    (F. J. Ossang, Mercure insolent)


    La sovversione dell’anima è declinata nelle più variegate sfumature, dal bianco conducono al nero, e dalle tenebre scivolano nuovamente verso chiarori luminosi, la rifrazione della luce accende i grigi, illuminandoli di scintille che accendono la notte; barlumi lattescenti scivolano liquidi tra le pieghe più nascoste della mente umana.

    Rileggendo le trame del noir, F. J. Ossang libera la materia filmica plasmandola in un ibrido di contaminazioni fra generi e forme con un’esplosione anarchica, creando un corpo unico, un organismo libero fagocitante esperienze e derive narrative.
    La storia narra di un cargo in viaggio alla volta di una “virtual zone”, l’isola di Nowhereland, una nave fantasma in rotta verso l’isola che non c’è, un non luogo dove sono diretti Magloire (Paul Hamy) e strambi personaggi, a bordo una cassa di polonio, materiale esplosivo pronto a detonare. «La nave volava, si schiantava contro le mantelline, stellava i muri. Qua e là, negli intervalli di notte, fra i lampioni, si vedeva il dettaglio di un volto rosso dalla bocca spalancata, di una mano che indica il bersaglio.» (J. Cocteau 2015, pag. 17)


    Un percorso, seguendo il flusso della follia, in un luogo fantastico, come il cinema di Ossang, così insurrezionale e terrorista, come un congegno pronto a tuonare in qualsiasi momento. Antonin Artaud sovente dipingeva come «velenosa» ed «eccitante» la settima arte, la rivelazione di un «imponderabile», di una «liberazione delle forze oscure del pensiero»: l’immagine, nell’accezione artaudiana, è un insieme di forze esoteriche e misteriose che sono pura emanazione «della vibrazione stessa e della stessa origine incosciente, profonda, del pensiero» (A. Artaud 2001, pag. 147).


    Ossang dà vita a una struttura anarchica, dotata di uno sconquassante potere tellurico, con un bianco e nero espressionista e dalle nebulose atmosfere oniriche. 9 Doigts, presentato in concorso a Locarno70, dove ha vinto il Pardo per la migliore regia, è un’opera squisitamente punk, una composizione visionaria, vicina per fragore alla musicalità dei New York Dolls o dei britannici Sex Pistols; un’astrazione che dal classicismo del noir anni Quaranta scivola in una rapsodia metafisica dai toni allucinati.

    Il regista francese infrange gli schematismi narrativi e si affida a coordinate surreali, la materia visiva sembra essere costituita da enigmi simbolici à la Bosch, tra relitti, acque malmostose e la follia umana che conduce in un labirinto oscuro, un corridoio senza possibilità di evasione dove la mente si smarrisce nella circolarità del tempo per non ritrovarsi mai più. Nelle notti eterne, tra la nebbia, Ossang tratteggia le ombre fosche di uomini persi, coscienze smarrite e menti che vacillano in preda alla malattia, il contagio si diffonde a bordo del cargo e nessuno è immune, tutti sono rapiti dal male, un delirio che confonde il reale e l’immaginifico.

    La linea dell’orizzonte che divide il mare dal cielo è sempre più vaga, tutto è confuso nella tenebra, tra paesaggi emersi dalle tele popolate di spettri di Léon Spilliaert e gli scenari cupi di Constant Permeke. Intossicazioni visive e linguistiche conducono i dialoghi a impregnarsi di un organismo poetico la cui carne e (de)composizione meravigliosa è mutuata ora da Lautréamont ora da Burroughs, anche se i riferimenti letterari, inevitabilmente, non possono che spingersi oltre, affondando le radici in Verne, o in Conrad, ma anche nelle parole imbevute di assenzio e oppio di un rimbaudiano Le bateau ivre. Un’Odissea tra i flutti della pazzia di un manipolo di uomini in balia di un delirio, alla ricerca di un oggetto oscuro, metafora della bramosia di possesso, del viaggio verso il piacere delle delizie malevole promesse dall’ignoto. 
    Da una stazione inizia la corsa sfrenata di un uomo in una notte senza stelle, una fuga che si conclude in un porto dalle acque torve in superficie e agitate nelle profondità da mille correnti contrarie e da maelstrom vertiginosi, come Poe descriveva «un mare d’inchiostro […] dalla vorticosa rabbia del fiotto, che saliva sino sopra la bianca e lugubre sua cresta, urlando e muggendo eternamente» (E. A. Poe 1869, pag. 237). 

    Dalla corposità materica di un bianco e nero stratificato e cupo, che negli scenari di apertura è vicino a L’uomo di Londra, di Béla Tarr, luoghi di partenze ma non di arrivi, dove, come in 9 Doigts è possibile acquistare un “biglietto per l’inferno”, si passa a una messa in scena chimerica  acutizzante la visionarietà dell’opera e le derive mentali di Magloire e del resto della ciurma, avvolti da tempeste marine turneriane e da deliranti proiezioni allucinate, in bilico tra realtà e sogno/incubo.

    L’immagine è baconiana, si apre allo sguardo come un urlo lacerante, una deformazione espressiva dei muscoli facciali, in una tensione che è mutamento delle forme, proprio come il cinema di F.J. Ossang, sovversivo e anarchico, un unicum nel panorama attuale cinematografico, che affonda le sue unghie nei primi Lang, ma anche in Ejzenštejn, e poi nel surrealismo di Cocteau, fino a Godard, creando un corpo filmico vibrante, muscolare ed eversivo. Regista, poeta, scrittore e musicista, il francese crea immagini di una potenza incandescente, come Bacon per Deleuze (Logica della Sensazione): «dipinge il grido, in quanto mette la visibilità del grido, la bocca aperta come voragine d’ombra, in rapporto con forze invisibili, che non sono poi altro che le forze dell’avvenire».

    Lo sguardo è aperto e deflagrato, si muove su geometrie proprie, una morsa selvaggia che, come il cinema muto di inizio secolo, ha una sua linguistica che può debordare avvalendosi di un immaginifico blasfemo. In 9 Doigts i dialoghi stratificano parole tracimanti e si è sempre sull’orlo del baratro di una catastrofe imminente, in una visionarietà perturbante.
    La furia della tempesta scuote l’occhio in un avvilupparsi di vertigini rock, la musica stessa, parte fondamentale nelle opere di Ossang, fa riferimento a presenze fantasmiche presenti sullo schermo, Loi de fantômes, richiamo a un ritorno del passato che contamina il presente ed è la matrice di una mappatura del futuro, del cinema ossanghiano, la dedica sui titoli di coda, meravigliosa dichiarazione d’amore verso un cinema sempre presente e follemente amato: «All my fucking friends are fucking dead!»

  • Un palindromo è come un’immagine allo specchio, che ritorna uguale e diversa, a tratti deformata, riflesso di un’identità che deborda oltre la matericità corporea per sconfinare il limite ultimo, ma anche simulacro di una frammentazione ontologica. La visione cerca di assumere una sua forma, una consistenza che rimane un mistero velato tra il visibile e l’invisibile. Elle, arcano palindromo declinato al femminile, in bilico tra ciò che è e ciò che si vorrebbe essere, in una duplicità destinata a rimanere distinta, senza possibilità di riconciliazione, dove la realtà è una (s)composizione cubista smarrita in una vertigine.

  • «Tutto comincia in immagini...bei desideri, dolci e violenti come le falci, nell'erba tenera che arrossa...»
    (Paul Éluard)

    «La prima immagine di Nana di schiena è la prima idea che ho avuto. Non sapevo assolutamente che cosa avrei fatto in questo film: avevo due pagine di sceneggiatura che descrivevano grosso modo il film così com’è. Avevo un’unica idea molto precisa…era che la prima inquadratura sarebbe stata lei vista di schiena. Per quale motivo, sarei del tutto incapace di spiegarvelo»

  • «All’inizio i cambiamenti fisici erano lenti, poi hanno fatto balzi in avanti con sordi tonfi neri, ricadendo negli strati di tessuto molle, lavando via i tratti umani… Nel posto dove regna il buio assoluto la bocca e gli occhi sono un organo solo che balza in avanti per mordere con denti trasparenti.»

    William S. Burroghs, Il pasto nudo

    Qual è il confine ultimo del corpo? E soprattutto, esiste un confine ultimo del corpo? Tutto è limitato solo alla pelle, oltre la quale c’è tutto il resto? La mutazione, l’espansione, qualsiasi cosa per non costringere l’uomo alla condizione di mero involucro innervato e organico ma tentare, disperatamente, di uscire dalla gabbia, fino a raggiungere un oltre infinito. Il corpo è materia, viva, pulsante, e, in quanto tale, plasmabile e soggetta a trasformazione e adattamento, come in Tetsuo: The Iron Man, di Tsukamoto Shin'ya.

  • Filmare l’epos, portare sullo schermo la storia, la leggenda del mito fondativo di Roma non è cosa semplice, si rischia di avventurarsi in una strada impervia, non priva di ostacoli, eppure Matteo Rovere, regista e produttore, con la sua nuova opera, Il primo Re, tenta una nuova dialettica filmica, arricchendo il panorama del cinema italiano e definendo una nuova mappatura cinematografica, non solo tra i generi e i nostri ristretti confini, ma nella sua intera e globale dimensione.

  • «I sogni sono la letteratura del sonno. Anche i più strani coinvolgono dei ricordi. Il migliore di un sogno evapora il mattino. Rimane...il fantasma di una peripezia, il ricordo di un ricordo, l'ombra di un' ombra.» (Jean Cocteau)

    Quando ci si immerge nel cinema di Bertrand Mandico è un dolce inabissarsi, uno smarrimento ipnagogico che precede la catarsi nella vertigine onirica; si apre il velluto purpureo del sipario e il palco si anima di creature fantastiche, ibridazioni fantasmagoriche, piante carnificate e fiori eroticamente sensuali, il maschile e il femminile uniti in un unico genere, dove il corpo anelante è l’unico protagonista.

  • “Un cerchio con diversi centri. Come è possibile? Non so, ma di fatto è così, ci sono cerchi che hanno più centri”

    Tre città, Atene, Istanbul e Odessa, tre anime vagano inquiete, una prostituta ucraina, un profugo sudanese e un faccendiere turco; la storia è quella di un uomo, della sua vita e dei suoi ricordi. La memoria, unica e frantumata, narrata da corpi diversi, in luoghi diversi, in un tempo frammentato, le cui linee anacronistiche si rincorrono e si sovrappongono. Diversi piani temporali si intersecano rendendo il fluido narrativo unico, esattamente come le reminiscenze degli uomini confluiscono in una sola direzione: la storia, dove la storia di uno, di molti, è la storia dell’umanità, un’umanità ferita e dolorante. Il dolore è la direttiva lungo la quale corre e si dispiega il filmico di Partenonas, di Mantas Kvedaravičius, presentato in concorso alla trentaquattresima Settimana Internazionale della Critica, un racconto di pelle livida, calpestata e tumefatta, che emana l’inconfondibile odore di morte, in un non luogo dell’essere.

  • Presentata nel corso della 76esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, Andrej Tarkovskij - Il cinema come preghiera è un’opera molto intima diretta da Andrey Tarkovskij, figlio omonimo del regista russo, che si sofferma sulla figura del padre, raccontandolo come uomo, come persona ma soprattutto come artista.

  • «Il pennino nero per colui che lo legge traccia nel margine bianco della vulva mostro: essere Tu essendo Io, essere altri: senza bisogno di essere io! Parole scambiate tra la china che scrive e la china lettore, star nudo a sognare ossessogni e star» (Julio Bressane)

     

    L’immagine è un corpo, dotata di recettori sensibili, di terminazioni nervose, di organi e tessuti epiteliali senzienti alla tattilità dello sguardo. Trafitta dalla luce, dilaniata da baluginii incandescenti e luminosi si svela, nuda, offrendosi all’occhio voyeuristico dell’osservante. L’immagine è un congegno di carne, membri grondanti sangue, liquidi seminali, marcescenze esposte, in putrefazione eppure vive, palpitanti di desiderio. Quando l’immagine perde i suoi confini per mutarsi in un meccanismo anarcoide e libero, allora mostra ciò che non si mostra o che non è mostrabile, come le “perversioni” o, come le definiscono gli studiosi del settore, dopo averle ben disinfettate dal morbo e igienizzate, “parafilie”.

  • «Davanti alla realtà, l'immaginazione indietreggia, mentre l'attenzione la penetra»
    Cristina Campo

    Tra il respiro del vento e il frinire delle cicale, il buio, lentamente, si accende della luce del giorno. Silenziose presenze fantasmiche rimangono avvolte dalle tenebre. La staticità di un’immagine bidimensionale e immobile incornicia attimi di una realtà che attende di divenire altro, di mutarsi e acquisire movimento uscendo dalla fissità.

  • Tutto è liquido, acqua, fluidi, pioggia; lucide e umide gocce scivolano tra le ramificazioni tese, accarezzano il fogliame e irrorano radici ben salde nel soffice terreno immerso, in una ritmica sinfonia tamburellante. Una storia misteriosa, tra le tenebre, i lamenti di piante carnivore e incubi osceni nella circolarità dei movimenti della mdp che scruta i volti e ruota intorno al corpo, alla ricerca del sé, proprio là dove il corpo appare frazionato in frammenti scomposti dell’immagine, frames in cerca di un ricongiungimento. Mostri che emergono da un maelstrom paludoso, da territori liquidi, animati da correnti agitate nelle profondità, sotto una superficie apparentemente calma e vitrea, ciò che non si vede e non si conosce spaventa, per la sua diversità e per la sua unicità.

  • Who is the King of the Underworld?

    Una lenta e agonizzante discesa negli inferi tra malavita, crimine e soldi sporchi. I bassifondi di Londra, latrina di sangue in putrefazione e violenza spietata, ospitano le guerre tra gang per la supremazia dell’Underworld. Nel 1930 due bande, l’italiana dei Sabini e l’inglese White, si contendono il dominio della criminalità londinese, lo sguardo si concentra soprattutto sulle vicende di Jack “Spot” Comer e di Billy Hill.

  • «Davanti alla realtà, l'immaginazione indietreggia, mentre l'attenzione la penetra»

    (Cristina Campo, Gli imperdonabili)

    La sovversione dell’anima è declinata nelle più variegate sfumature, dal bianco conducono al nero, e dalle tenebre scivolano nuovamente verso chiarori luminosi, la rifrazione della luce accende i grigi, illuminandoli di scintille che accendono la notte; barlumi lattescenti scivolano liquidi tra le pieghe più nascoste della mente umana.

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Napoli, la città del sole, non è mai stata così plumbea e piovosa, l’atmosfera sembra proprio quella dei noir hongkonghesi e il cielo è intriso dell’odore della polvere da sparo e del sangue. Sangue chiama sangue, dice Peppino Lo Cicero, in pensione dal crimine da qualche tempo, ma un delitto come quello subito dall’ex-criminale non può restare impunito. La pioggia scende sulla città regalandole le ombre di una tela impressionista, un paesaggio dai contorni nebulosi e indefiniti. Il tono seventies lo si avverte sin dai titoli di apertura, colori sgargianti, tra tutti un giallo saturo su cui spiccano figure nere stilizzate.

  • Gli occhi deragliano tra le nuvole in lento movimento, ne seguono gli spostamenti, con un ritmo ipnotico, come in una danza arcaica, si perdono negli spazi sconfinati, si elevano al di sopra di ciò che è terreno, spingendosi oltre, verso approdi mitologici. La visione della mdp è rapita da una natura arsa dal sole, in un bianco e nero tagliente e lancinante, echi poetici in cui il vento canta la sua canzone tra i rami degli alberi. Un incipit di una bellezza straziante, una sinfonia, armonica e sontuosa, in cui il tempo è dettato dalla natura e dalle sue sonorità.

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