Da un po' di tempo imbastiamo delle sezioni speciali su Uzak: è per lo più Giovanni Festa - professore in Argentina; tra un po' sarà in Brasile a scrivere un libro su Julio Bressane - a curarle, virando la rivista di esotismi, erudizioni borgesiane, rudi onirismi provenienti dal Sudamerica; o, da qui, Domenico Saracino, ma proiettandosi, proiettandoci su una Cancroregina, nel cosmo come quando, sul numero 41, ideò un dossier sul cinema-kraut, un ritmo segreto che scandisce le immagini oltre che i suoni.

Mai come questa volta l'immaginario legato a Uzak (cose come la visionarietà malinconica e tetragona applicata alla grafica di Graziana Castellano o il lirismo tenue di Marika Consoli: ma, sia chiaro, non è un incensare gli amici e compagni di viaggio; solo il pudico senso di gratitudine verso chi ogni volta rende possibile queste uscite, questo balbettamento su frammenti cinematografici, questo tentativo di uscire dal solipsismo che è il nostro sguardo) sconfina nelle terre estreme, fino alla terra del fuoco (là dove Alonso s'era spinto in Liverpool) come a volervisi perdere: dopo una sezione di studi sulla cultura cilena, un atlas dal titolo Immagini dalla fine del mondo, che mi ha rimandato, con una specie di meccanismo proustiano, al 1991, al film di Wim Wenders - al suo titolo così assoluto, così struggente - allora distribuito in una versione di tre ore.

Quando poi, anni dopo, grazie alla copia (smagliante) fornitami da Luciano "Sweetman" Ferrulli, vidi la versione integrale di quasi sei ore (uno dei capolavori degli anni Novanta: forse, insieme a El sol del membrillo di Erice e L'eternità e un giorno di Angelopoulos, il miglior film di quel decennio), ne fui catturato, fu un vero e proprio innamoramento, per il senso gioioso, solido della narrazione di quel film "alieno" (terre desolate, assolate, deserti, spazi vuoti, che sono l'invito del virtuale alle immagini, al loro etereo ingombro perchè vi accedano), e una sorta di nostalgia per il ragazzo che ero stato, per un mondo, un tempo perduto, o comunque sopravvivente come un engramma nella catastrofe del tempo, perduti pomeriggi (era Wenders, certo, e Antonioni e Angelopoulos) ad anelare al sentimento del tempo, che è anche ora, e tant'è, alla fine, ci siamo.

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