A proposito di Les garçons sauvages, forse unico genuino caso cinematografico di quest'ultimo Festival di Venezia, molto si è già scritto e detto, e per questo eviterò di intonare l'ennesima litania felice sulla finezza meta-filmica di questo testo che ibrida la narrazione avventurosa sui viaggi verso l'ignoto e le isole misteriose alla vertigine tsukamotiana di un visivo difforme e mutante.
Non dirò della bellezza fantasmatica delle evocazioni di Vigo e Genette, Fassbinder e Wakamatsu e della vertigine impudica e sessuale (Borowczyk docet) che ne solcano l'esoscheletro in trasparenza, né del lirismo onirico di questo film. Al riguardo, semmai, si leggano i contributi di Mariangela Sansone e Michele Sardone che colgono in maniera certamente più visionaria (Sardone) e meticolosamente circostanziata (Sansone) il senso e il valore di questo ibrido filmico di quanto non avrei saputo fare io.

Qui, brevemente, si cercherà di riflettere su alcune coerenze isotopiche e ricorrenze testuali  significative che innervano trasversalmente l'immaginario e la prassi registica di Mandico, fornendo un sistema organico e coerente di premesse tematiche e formali idonee a giustificare l'ideazione e la mise en scène parossistica di Les garçons sauvages. Una parabola inter e intra filmica che non potrà esimersi dal riflettere anche su quanto e perché la cifra autoriale di Mandico sia fisiologicamente lontana dal senso asetticamente letterario che il termine assume in certi contesti critici più paludati, traboccante com'è d’una liricità tutta spesa sul doppio limes di una corporeità\sensorialità iper sensuale e di una poetica dotta della reminiscenza meta-filmica, di un cinema che ricorda il cinema nel corpo fantasmatico di un'immagine-memoria dall'ammaliante potere evocativo. Lirismo incarnato, poesia del percettivo, del suono e del colore, che impatta come un colpo di maglio sullo spettatore, colpendolo “nel corpo”, ma, al contempo, capace di innescare, su un piano squisitamente intellettivo, inferenze inter testuali estesissime, richiamare immaginari interi.

Varrà la pena considerare, infatti, che lo statuto d'esistenza del mondo pansessuale e ormonale di  Les garçons sauvages è tutt'altro che occasionale o transitorio, ma parte integrante d'una mitologia stabile e articolata, dotata d'una sua immaginaria ontologia unificante, cioè di un mondo di riferimento internamente coerente e dotato di regole “di funzionamento” simili a quelle dei mondi reali, e d'un suo immaginario iconico, formale e retorico perfettamente costituito e autarchico, che si dipana con continuità inter-testuale, di opera in opera.
L'universo vegetale, pansessuale e ormonale, di Les garçons sauvages, la sessualità incoercibile che ivi si manifesta e l'inconsistenza delle categorizzazioni preordinate dalla società e perfino dalla biologia, sono tutte enucleazioni tematiche le cui tracce possono rinvenirsi facilmente, se si ha la pazienza di ripercorrere a ritroso la filmografia di Mandico.

La variante vegetale del tema sessuale e l'idea di ibridazione si adombravano già nelle scene boschive di Osmose, del 2003, videoclip dell'omonimo brano del compositore e artista plastico Etienne Charry. Davanti agli occhi di un indiscreto guardone, una  giovane coppia viene posseduta, come se fosse un demone da quella stessa natura nel bel mezzo della quale si era appartata in cerca di intimità. La possessione infonde nei giovani corpi che abita una sessualità sfrenata, naturale e dunque deregolata, che li spinge a un glorioso amplesso nel rigoglio di frasche e fronde. Molte scene in cui la natura, strane piante, bulbi e infiorescenze, spurgano umori o dense linfe sembrano in qualche modo prefigurare quell'immaginario vegetal-ormonale e viscido di secrezioni che caratterizza la diegesi di Les garçons sauvages, e l'idea di una natura che produce sulle persone effetti ormonali, ne eccita i sensi, in qualche modo contiene in nuce l'idea dell'Isola Delle Gonne in cui gli effetti di tipo ormonale sono tali però da produrre una mutazione di genere anche nei corpi. Un tema, quello della mutazione corporea, che riguardava anche Osmose, in cui la possessione del naturale avveniva per via parassitaria, con l'attecchimento di un vegetale alghiforme sulla schiena di lui, che spunta sorprendente come il brufolo metallico che si ritrovò in viso quella famosa mattina Tomorowo Taguchi in Tetsuo - The Iron Man, e la radicazione intorno alle mani della sua consorte di due gigantesche protuberanze tuberiformi, di acquatica schiatta, da cui si dipartono disgustose radici, (e il rimando alla scena della trasformazione della mano della passeggera della metro in Tetsuo, sembra tentazione scontata).
Da questa prima prova filmica di Bertrand possiamo estrarre dunque un certo numero di enucleazioni tematico-visive, l'ibridazione corporea uomo\natura e la relazione sessuale uomo\vegetale, il sesso sfrenato e l'idea di un corpo in mutazione, unitamente all'idea che la natura possa produrre effetti di tipo ormonale sulla sessualità, che senza forzature possiamo riconoscere, certamente, in forma più estesa ed elaborata, anche nell'ordito teorico e narrativo di Les garçons sauvages.

L'immaginario del biologico ibridato ricorre anche in Prehistoric Cabaret (2013), in cui una sorta di telecamera-liana vivente, una sonda viva con le forme di un tentacolo vegetale, ibrido scandaloso di biologico, meccanico e vegetale è l'oggetto totemico di una rettoscopia rituale che offre lo spunto per un viaggio visionario all'interno del corpo. Rispetto all'elaborazione di Les garçons sauvages sembra significativa l'affermazione fallica del naturale, di un vegetale vivente di forma e funzionalità sessuale, come peduncolo-pene, radice-pene, liana o tentacolo-vegetale-pene in grado di consumare amplessi con gli umani. Un tema questo che ricorre con regolarità nell'opus mandichiana, come dimostrano le scene di sesso con l'indefinibile vegetale sessuato che fa da pomo della discordia e innesca le trame di Notre Dame Des Hormones (2014) o le fornicazioni arboree di Y’a-t-il Une Vierge Encore Vivante (2015), in cui gli alberi estraggono corrucciati membri di scura corteccia e copiosamente eiaculano su corpi femminili. Preamboli, questi, che trovano l'apoteosi nelle gustose scene di accoppiamento tra umano e vegetale di Les garçons sauvages, in cui i giovani protagonisti si giacciono con una pianta-donna con tanto di cosce muschiose da dischiudersi alla bisogna, o quando, ancora tutti maschi, s'ingolfano le gole con la lattiginosa linfa biancastra che schizza fuori dalle appendici falliformi delle piante.
«Together we'll take a trip to the centre of the earth» annuncia la bella protagonista di Prehistoric Cabaret, prima di introdursi la sonda nel di dietro, dichiarando tutta insieme quella suggestione vernesiana per il viaggio fantastico verso mondi in diverso modo “altri”, che si ritrova anche alla base della lunga traversata marittima, viaggio nell'interiore prima ancora che attraverso i marosi, che traghetta i riottosi drughetti di Les garçons sauvages verso la loro isola magica.

L'adozione di un paradigma asimoviano e fleisheriano, che in Fantastic Voyage film e romanzo declinava il tema del viaggio avventuroso ed extra-mondano nella sua variante viscerale e corporea del viaggio all'interno dell'organismo, permette a Bertrand di liberare in questo film un immaginario viscoso-molle, di natura intestinale, che a Jodorowsky non sarebbe dispiaciuto, che in qualche modo prelude a quel détournement del visivo che ritroviamo nelle disordinate escrescenze bio-vegetali del suo ultimo lavoro, con la loro cifra iconica viscosa e vescicolare. Il dato che ci interessa è questo tipo di sensibilità visiva per la materia molle e deteriore, per le consistenze vischiose e umorali, per le secrezioni e i tessuti flosci, che qui è organica, intestinale, di natura animale, ma che, se declinata secondo una variante vegetale, fornisce un utile precedente all'immaginario floreal-vegetale ipertrofico e pan-sessuale dell'Isola Delle Gonne.
E d'altronde i temi del viaggio avventuroso e fantastico e dei luoghi misteriosi ritornano senza mascheramenti in tutte quelle parti di Les garçons  che riguardano il periglioso traghettamento dei neo drughi verso l'isola e della loro permanenza sulla medesima. Ma se l'immaginario organico-jodorowskiano di Prehistoric Cabaret era frutto della mediazione di questo tema con la poetica visiva del Fantastic voyage flesheriano, nel film più recente interviene il riferimento alla dimensione visiva del King Kong delle origini, quello di Cooper e Schoedsack, a forgiare un'iconografia ritrovata dell'isola misteriosa, con i suoi mille pericoli e la tipica vegetazione surreale e carnivora.

Nel 2011 Boro In The Box prende la forma di un commosso omaggio a Walerian Borowczyk, artista geniale e visionario, reietto dall'establishment cinematografico benpensante per l'indomita carica sessuale delle sue opere più tarde. Le lettere dell'alfabeto forniscono il pretesto per una restituzione affettiva del suo genio e della sua vita, passando per i significanti verbali di altrettanti concetti biograficamente e simbolicamente rilevanti. In quest'opera Mandico dipana, spalanca letteralmente, a una visionarietà allucinata e patologica il senso letterale e verbale delle cose, lasciando che collida con la molteplicità poli-significante e coalescente del senso iconico e audio-visiogenico.

Boro, diminutivo con cui gli intimi si riferivano a Borowczyk, nasce con un corpo-scatola, una cassa di legno  che lo contiene e dal cui foro frontale osserva attonito il mondo, una deformità che lo separa dal resto dell'umana congrega esattamente come faceva il palo elettrico improvvidamente sviluppatosi sul groppone di Hikari, giovane protagonista del germinale Denchu Kozo No Boken (Le Avventure Del Ragazzo Del Palo Elettrico) di Tsukamoto. Lasciamo da parte in questa sede la complessa rete di inferenze che questo film è in grado di attivare nella sua sotto lettura possibile di meta-riflessione sui processi della visione e della riproducibilità tecnica dell'immagine, (il corpo di Boro, col suo foro centrale attraverso cui inquadra il mondo, è una camera obscura, un corpo-scatola stenopeico) e cerchiamo solamente di scovare gli elementi che interessano il nostro discorso su Les garçons sauvages.

La tematica del corpo mutato o mutante, che nel nostro film d'interesse principale riguarda la classificazione sessuale della persona, quindi sia la sua identità corporea che quella astratta e interiore dell'auto-identificazione, qui si concretizza nell'idea di un corpo ibrido di carne e legno. La mutazione in questo caso è materica, riguarda la materia di cui il corpo è costituito, e intercetta per via osmotica la traiettoria tsukamotiana della ibridazione del biologico vivente, che attiene alla nostra ipseità, con una qualche forma di alterità espressa in forma materiale, il metallo o il legno, marche materico-simboliche dei rispettivi universi di senso: quello devitalizzante e macchinizzato di Tsukamoto, che si condensa nell'immagine rugginosa del metallo, e quello vitalistico e genitale di Mandico, che si ritrova nell'ibridazione con un materiale naturale, vivo, come il legno. In Les garçons sauvages il discorso sulla mutazione si farà più approfondito arrivando a impelagare la questione estesa dell'identità e delle sottese corto-circuitazioni che la legano alla sfera della corporeità. Mutati nel corpo i nostri drughi pubescenti cambiano realmente di identità? I nuovi corpi, le identità esteriori mutate, non sembrano manifestare un'indole diversa da quella dei maschietti che furono, e allora, chiederselo diventa legittimo, sono cambiati oppure no?   
Ogni esaustiva risposta è rimandata, ogni certezza destabilizzata, Mandico, sempre coerente a sé, sospende ogni giudizio. Ciò che ci preme constatare e che con Boro in The Box questa traiettoria del discorso di Mandico sia già matura e definitivamente fissata e l'identità e il corpo irrimediabilmente sottratti a ogni qual si voglia forma di permanenza.

Sul piano dell'elaborazione visiva il meticciamento del personaggio con un materiale naturale come il legno scatena l'immaginatività visiva di Bertrand, che spalanca il serraglio di una fenomenologia dell'arboreità e del legnoso-invernale dal segno surreale e fortemente espressionista. A tratti, non parliamo di una costante, si fa prepotentemente largo un'estetica mortifera del ramo e dello spino, dello sterpo, dello stecco d'inverno e del disseccato barbaglio, che affastella il campo visivo di cumuli vegetali informi e morti, inestricabili grovigli regno della confusione visiva, strutture irrazionali e ossute, irte e ipertrofiche. The skeleton tree, l'imago ossiforme della natura in inverno, logica della sottrazione figurale ed emotiva al contempo. L'orientamento semantico è certo antitetico a quel proliferare vitalistico e seminale che infesta i fotogrammi di Les garçons sauvages, ma quello che importa è che il processo figurale della loro genesi sia il medesimo, un'immagine che si struttura per sommatorie e accumuli in cui l'iperbolizzazione espressionista di specifici tratti del visivo, nel caso nostro della rappresentazione del regno vegetale, risponde a precise logiche di senso, di creazione di significati aggiunti. In Boro In The Box si insisteva espressionisticamente sugli aspetti “scheletrizzanti” del vegetale in inverno, sulle spine e i grovigli informi di sterpi morti, qua sull'eccesso dell'infiorescente, sulla sovrabbondanza e sovrappopolazione delle forme e su tutti quegli aspetti visivi che possano rimandare al vitalismo barbarico e atavico del naturale, ma la logica è la stessa. Sono i due aspetti contrastivi della Natura, la Natura matrigna e scheletrica e la Natura materna e prolifica, che rappresentano i poli dicotomici della rappresentazione del tema del naturale nella poetica di Mandico, sempre duale e ambivalente, mortale e vitale insieme, antitesi ontologicamente integrate di un universo instabile.

Anche l'isotopia relativa alle facoltà sessuali del vegetale, quello che abbiamo identificato con l'immagine emblematica del tentacolo-liana-pene qui, in Boro In The Box, trova una sua demarcazione testuale esplicita nella lunga scena dell'accarezzamento erotico dell'amata. Il nostro pinocchio post-moderno, infatti, riesce a praticarle una profusione di estasianti sfioramenti proiettando all'esterno del proprio corpo ligneo lunghe terminazioni ramiformi animate e sensibili, con facoltà tattili, e dalla punta piumata, scena che ritroveremo quasi identica in Les Garçons. Le dita-ramo si stendono come una mano scheletrica e nera sul bel corpo di lei procurandole, con i piumati sfioramenti, un'inedita estasi dei sensi, la vertigine erotica del vegetale, che appartiene anche a Les Garçons Sauvages. Dita-ramo con funzione di pene, siamo a un passo dalle piante-pene dell'Isola Delle Gonne.

In esergo a questa breve riflessione su Boro In The Box segnalo la memorabile scena dell'allattamento, che avviene in soggettiva, quindi dall'interno della scatola e attraverso il suo buco riempito dall'immagine carnosa del seno che ci sovrasta, nell'espansione dimensionale prodotta dalla ripresa ravvicinatissima,  con la visione del gigantesco capezzolo eiaculante bianco nutrimento che ci soverchia.
Alcuni di voi avranno certamente notato le numerose scene di Les garçons sauvages in cui ricorre l'azione del suggere o del leccare il seno femminile, in particolare si ricorderanno di quelle in cui i ragazzi succhiano voluttuosamente il mono-capezzolo del Capitano. L'azione del succhiare il seno, ma anche il membro virile, ricorre copiosamente nella filmografia di Bertrand, in Notre Dame Des Hormones le protagoniste anelano e continuamente rinviano la fellatio sulla creatura tuberiforme e pelosa (The Thing, la cosa) e ne sbaciucchiano spesso il pene-pistillo. I selvaggi ragazzi del film veneziano non lesinano in quanto a reciproche attenzioni di quel tipo e, nella già citata scena, si abbuffano di un biancastro sperma-linfa che fiotta da veri e propri membri vegetali, appendici falliche della natura, alcuni di loro stravedono all'idea di poter imboccare il nodoso e tatuatissimo cazzo del capitano.

Quello che sembra rilevare trasversalmente nella poetica di Mandico, e dico sembra, perché sempre e solo di un'ipotesi interpretativa si tratta, pare essere il principio della suzione intesa come accrescimento positivo, passaggio dall'uno all'altro di un qualche tipo di essenza, di nutrimento, linfa, umore, sperma o piacere. La suzione-allattamento, che si equipara per valenza vitalistica e positiva alla fellatio, è l'azione epifanica di una concezione positiva della natura, dell'idea di un rapporto filiale e derivativo che l'umano, nel mondo surreale di Mandico, intrattiene con questa natura fallica, vaginale e mammata che gli offre nutrimento, linfa vitale, essenze ormonali e, addirittura, inusitati piaceri sessuali. I fluidi corporei, le linfe vegetali, lo sperma, il latte materno e le molteplici declinazioni del viscoso che pervadono le sue immagini del mondo naturale, definendone l'estetica, tutte si assimilano nella comune afferenza a una semiosfera della fecondità, della linfa vitale, del liquido seminale, della produttività e positività. La natura, e l'uomo come parte di essa, dispensano linfe e umori vitali, la loro suzione è pratica di nutrimento in senso non strettamente materiale.
E questa iconica del viscoso prolifico, messa in relazione di senso con le epifanie sessuali del vegetale, il tentacolo-sonda di Prehistoric Cabaret o la pianta muschiosa e vaginifrome e quelle falliformi di Les garçons piuttosto che i cazzi-ramo di Y’a-t-il Une Vierge Encore Vivante, non fa che riconfermarsi nella sua valenza genitrice e generatrice, di iconosfera personale attinente all'idea di genitalità, e quindi all'attività riproduttiva, all'inesausta fecondità che Mandico ripone nella natura.

Parallelamente a questa isotopia del naturale fecondo e produttivo, della natura madre, possiamo tracciare un percorso inter-filmico di marche testuali che riferiscono alla valenza mortifera della natura e alla mole di insidie mortali e perigli celati che cova in seno. La raggelante fenomenologia visiva della natura-scheletro di Boro In The Box, certo, ma anche le polle di materia disgustosa e marcescente, il vegetale e l'animale decomposto, che ritroviamo nel fitto della foresta di Les garçons sauvages e gli alberi stupratori di Y’a-t-il Une Vierge Encore Vivante. Leggendo in parallelo le due linee isotopiche si ritorna sempre a quella idea duale della Natura, mutante in potenza e atto, matrigna scheletrica e madre generosa, che già abbiamo visto essere propria di Mandico. «Accarezza e scarnifica, nutre e uccide in un unico gesto», mi disse a riguardo, durante un'intervista veneziana, è maschio e femmina, vita e morte, fertilità e sterilità in indivisibile coalescenza, l'identità e la dis-identità inseparate, perché la natura, in quanto mondo, è catalizzatrice di ogni dualità pensabile.

Quando nel 2014 Bertrand presenta Notre Dame Des Hormones il suo immaginario vegetale e pan-sessuale è già perfettamente formato e ha trovato una sua rutilante e perturbante cifra iconica. Storia della discordia tutta al femminile, Eva contro Eva, che s'innesca per via d'un pomo tutt'altro che dorato, un vivo “coso” tuberi-vaginiforme, The Thing nel film, tremebondo e grufolante, peloso e dotato d'un vivo peduncolo-pene, scavato fuori dalla terra-ventre da una delle protagoniste in un bel dì di passeggio tra i boschi. L'ambivalenza intrinseca di questo essere, vaginale e fallico insieme, vegetale e animale al contempo, vivente ma vegetante, incorpora tutte le contraddizioni e le dualità di cui la poetica di Mandico è gravida, e rimanda de facto a tutta una serie di enucleazioni tematiche che in parte abbiamo già analizzato: l'inconsistenza delle separazioni classificatorie di gender e la sessualità mutante e mutevole, l'ibridazione sessuale umano-vegetale, l'irruenza delle pulsioni, l'essenza ormonale della natura. Le premesse che mutuano l'universo vegetale e votato all'impermanenza d'ogni condizione di Les garçons sauvages ci sono quasi tutte, manca qui la struttura del viaggio, come cambiamento, come mutamento di stato (ontologico) e di luogo, che però era implicitata in Prehistoric Cabaret, e dunque già metabolizzata dalla sintesi poetica del mondo di Mandico. L'ibrido tuberi-vagini-falliforme al centro di Notre Dame Des Hormones, essenza della natura e concentrato della sua dualità, scatena la carica ormonale delle due protagoniste, esattamente come fa l'isola con i nostri drughetti, la sola differenza sembra essere nel passaggio da una dimensione oggettuale e localizzata, incorporata, per così dire, nello specifico oggetto tuberiforme e ambi-sessuato, a una dimensione di tipo ambientale, espansa e non localizzabile in quanto estesa al tutto, in cui è la natura-ambiente ad esercitare gli effetti ormonali sulle persone. Anche la messa in scena dell’environment naturale ha definitivamente assunto qui quelle caratteristiche di espressività marcata, di surrealtà, che sono uno dei pregi maggiori di Les garçons sauvages, ma in questo lavoro la si ritrova rifratta dal caleidoscopio dell'immaginario del b-movie e della serie a tema fantascientifico anni Sessanta - Settanta, sul genere di UFO, Spazio 1999 (Moon Base Alpha) o Star Trek, che la tingono di colorazioni psichedeliche, illuminazioni acide e fiori plasticosi che secernono effluvi mefitici. A livello di immagine, al di là delle ben evidenti configurazioni vegetali difformi, biomorfe e aliene, che preludono in maniera diretta a quelle di Les garçons sauvages, si fanno notare diverse scene realizzate con fondali e retroproiezioni. Una tecnica realizzativa, preminente in questo film, che vale come dichiarazione etica, di fedeltà a un ideale nobile di cinema che abiura “le diavolerie del digitale”, per recuperare saperi antichi, saperi della mano e dell'occhio oggi quasi dimenticati.

Interessante anche il fatto che sia Agnès Berthon, doppiata con una profonda voce virile, a interpretare il ruolo del metteur en scène che viene ucciso dalle due attrici, una pratica di rovesciamento in sintonia con la sensibilità iconoclasta di Mandico e che in Les garçons sauvages, in cui tutti i ruoli dei ragazzi sono interpretati da attrici, troverà la sua definitiva consacrazione lirica. Il personaggio rappresenta una prova generale per le ragazze-ragazzo del film veneziano ben al di là del fatto dell'inversione tra genere sessuale dell'interprete e quello del personaggio. A uno sguardo più attento, infatti, non possono non palesarsi anche le analogie riguardanti il tipo di recitazione ottenuto da Mandico dalle sue interpreti e, per diretta inferenza, il tipo di lavoro fatto sul e con l'attore in direzione dell'ottenimento di una estetica recitativa, mimica, posturale e prossemica in senso lato, tutta imperniata sulla “mascolinizzazione” del corpo femminile, sull'estrapolazione maieutica delle sue possibilità virili implicite ma mediamente tacitate nella gestualità quotidiana socialmente morigerata. Anche, direi perfino, nelle modalità di innervazione estetica del corpo, nelle modalità della sua elaborazione concettuale, Mandico è coerente alle sue premesse di eversione delle assegnabilità categoriali precostituite o fisse. Si sdilinquisce, e probabilmente si diverte assai, nel disaccoppiare i corpi dalle modalità cinetiche e comportamentali coerenti con la rappresentazione dei generi sessuali socialmente condivisa, il modo di muoversi “da maschio” piuttosto che quello ritenuto “da femmina”, e genera infinite collisioni apparenti, nel senso che restano tali solo se si rimane vincolati all'angusto sistema benpensante delle categorie tradizionali.

Ma continuando a occuparci di corpi sembra inevitabile non notare come la continuità ontologica di questo mondo immaginario, il fatto che lo percepiamo come un mondo che esiste ininterrottamente, anche nei momenti in cui non ce lo mostrano i film, è proprio la presenza del corpo, di un corpo in particolare, quello della sua attrice feticcio Elina Löwenson, protagonista di quasi tutti i suoi lavori, il cui ricorrere inter filmico, di diegesi in diegesi, afferma un'idea di esistenza dipanata in continuità, senza interruzioni, simile, se non uguale a quella delle persone reali. Una sorta di eroina crepaxiana, di avventuriera dei mondi sessuali intenta in ruoli diversi, che a me però fa venire in mente la ben più procace Druuna di Paolo Eleuteri Serpieri con il suo distopico mondo sessuale post biologico e ibrido, che abita come unica presenza stabile le diverse regioni mandichiane facendo, da collante per una rappresentazione del mondo unitaria, come se i diversi film non inscenassero mondi e momenti separati, ma episodi diversi di una stessa esistenza disposta lungo una linea temporale coerente e unitaria. Un motivo di coerenza ulteriore, se ancora ne fossero mancati al lettore, in favore dell'iniziale ipotesi secondo cui l'ontogenesi di Les garçons sauvages,  in cui Elina interpreta l'androgino Dott. Séverine, sia da leggersi all'interno di un sistema di relazioni intertestuali esteso piuttosto che come evenienza singolare, come prodotto di un'elaborazione mitologica e iconografica di lungo corso piuttosto che come frutto geniale di un momentaneo climax creativo.


Bibliografia

Asimov I. (1966): Fantastic Voyage, Bantam Books, NY.


Filmografia

Boro In The Box (Bertrand Mandico 2011)

Denchu Kozo No Boken (Tsukamoto Shin'Ya  1987)

Fantastic Voyage (Richard Fleischer 1966)

King Kong, (Merian C. Cooper, Ernest Beaumont Schoedsack 1933)

Les garçons sauvages (Bertrand Mandico 2017)

Notre Dame Des Hormones (Bertrand Mandico 2014)

Osmose (Bertrand Mandico 2003)

Prehistoric Cabaret (Bertrand Mandico 2013)

Space 1999 - serie tv (Gerry Anderson, Sylvia Anderson 1975-'77 )

Star Trek - serie tv (Gene Roddenberry 1966-'69)

Tetsuo - The Iron Man (Tsukamoto Shin'Ya 1989)

UFO - serie tv (Gerry Anderson 1970-'71)

Y’a-t-il Une Vierge Encore Vivante? (Bertrand Mandico 2015)