Giampiero Raganelli

Antonio Latella è una delle figure di maggior spicco della scena teatrale italiana e internazionale, dividendosi tra i palcoscenici nazionali e quelli tedeschi. Tra gli ultimi lavori vanno annoverati i memorabili Un tram che si chiama desiderio, Francamente me ne infischio, A. H., Il servitore di due padroni. Abbiamo incontrato Latella presso l’accademia Campo Teatrale, dove era impegnato in una Masterclass, in concomitanza con l’allestimento milanese di Il servitore di due pardoni.

Una tua cifra stilistica è quella di far recitare agli attori spesso anche le indicazioni del testo tra una battuta e l’altra, che normalmente non dovrebbero essere pronunciate. Lo fai già nei tuoi primi lavori e torna anche negli ultimi. Ne Il servitore di due padroni c’è il personaggio di Brighella che ripete spesso «Pausa!». Puoi spiegarci come sei arrivato a una tale soluzione? Si tratta di un percorso nel senso dello straniamento?

È un lavoro che porto avanti in quasi tutti gli spettacoli che faccio, era presente anche nel Tram e nella Trilogia della villeggiatura. Quando leggo i testi difficilmente leggo le didascalie per non farmi condizionare. Però ci sono dei casi dove le didascalie sono proprio letteratura, non sono solo indicazioni. In quel caso mi piace creare – cambia a seconda dello spettacolo – più che uno straniamento, un altro piano di lettura che racconta uno stato emotivo che magari noi non vediamo. Lo racconta, aiuta a mettere una lente d’ingrandimento su ciò che vuole l’autore più che su ciò che voglio io dall’autore. E questa è una condizione ideale per creare una comunione tra la messa in scena e il testo. Credo che oggi per me sta diventando proprio una cifra perché spesso le didascalie sono azioni realistiche e per me che mi allontano dal realismo, la didascalia per assurdo diventa più realistica del realismo, cioè diventa estremamente ed emotivamente funzionale.

Questo riguarda quindi anche un testo scritto ex novo come quello de Il servitore di due padroni che hai anche commissionato tu a Ken Ponzio.

Il testo è stato riscritto e infatti c’è anche una querelle: più volte io ho detto “da” Goldoni e io non l’avrei neanche chiamato Il servitore di due padroni; è stata una questione di mercato e i produttori sono sempre più forti purtroppo. L’ha riscritto Ken cercando di andare a creare un cortocircuito contemporaneo che potesse poi innescare nel pubblico un meccanismo di reazione che si avvicinasse, addirittura a prima di Goldoni, alla commedia dell’arte. E ovviamente lì Ken ha scritto le didascalie, ma non sapeva che io le avrei fatte recitare.

In questo lavoro, Il servitore dei due padroni, viene fatta proprio una decostruzione della commedia dell’arte. Ci sono battute pronunciate in scena a carattere teorico didascalico su questo antico genere di teatro. Quindi l’effetto di cui mi stai parlando si amplifica ulteriormente.

Sì perché credo che noi parliamo tanto di commedia dell’arte, ma in realtà quel genere teatrale era uno stare in scena che aveva poco a che fare con la maschera. La maschera sì c’era, ma era una condizione dello stare in scena che cambiava proprio la direzionalità della battuta, creando un rapporto diretto con il pubblico. Ovviamente sotto una maschera questo era fattibile perché la maschera ti permette anche di dire delle verità scomode che senza non potresti mai rivelare. Il fatto poi di aggiungere delle didascalie nelle battute che parlassero della commedia dell’arte è secondo me importantissimo perché poi è tutto il discorso sulla maschera e il personaggio: dove inizia il personaggio e dove finisce la maschera? Arlecchino dice «Tu sei una maschera, io sono un personaggio»: anche il personaggio è una maschera. Poi nel Novecento è diventato una composizione di fattori psicologici grazie al nostro Freud. Ma anche quello è una maschera da abitare. Parlare della commedia dell’arte allontana anche dalla commedia dell’arte, crea una distanza. Però il momento per me più da commedia dell’arte è quello in cui Smeraldina parla del canto, con questa apertura verso il pubblico.

Mi confermi una tua profonda conoscenza e analisi del materiale teatrale che tratti. Quindi per distruggere, decostruire, attualizzare un autore o renderlo mantenendosi fedeli al pensiero, ma sotto un’altra forma bisogna per forza conoscerlo, studiarlo?

Io in realtà ho un approccio molto classico. Studio tantissimo i testi e l’autore. Spesso lo studio sull’opera dell’autore, non tanto sul testo, mi aiuta a trovare delle indicazioni e dei metodi per affrontare il testo che ho scelto. Sì questo richiede una profonda conoscenza del testo, per poi ovviamente tradirlo. Non riesco a pensare che un testo del Settecento non vada tradito, nel senso che il contesto storico è importante e condizionava la messa in scena. Forse avrei più difficoltà a tradire un autore del Novecento. Perché è più vicino a noi e l’appendice del contesto storico del Novecento la stiamo ancora vivendo.

Puoi dirmi qualcosa sui tuoi modelli teatrali? Ricordo un tuo Amleto, del 2001, dove facevi ampio uso in scena di carriole. Il senso dell’allestimento ricordava molto la concezione teatrale di Eimuntas Nekrošius. Confermi?

Sì, ero un ragazzo, per me è passato molto tempo. Mi piace ricordare quell’Antonio Latella. Ammiro ancora quel coraggio di prendere dei testi più grandi di me. Il rapporto con Shakespeare è stato, e continua a essere una sorta di università. Adesso è un confronto. Leggere Shakespeare mi aiuta a capire dove sono e dove sto andando. Quell’Amleto era nato dopo un Romeo e Giulietta. Mi ricordo che feci una ricerca delle fotografie sulle città distrutte perché lui deve distruggere un regno. E in ogni città distrutta e in ogni città che viene ricostruita c’è sempre una carriola in mezzo alle macerie. E da lì è nato questo uso delle carriole in scena. C’era più che un’influenza da Nekrošius. Da ragazzo l’ho copiato moltissimo. Quando vidi i suoi Shakespeare fu per me come entrare in una lavatrice. Mi aprì totalmente una nuova possibilità soprattutto per la sua capacità di aver coraggio nei segni. Segni che noi non possiamo codificare perché appartengono alla memoria lituana. Nello stesso tempo mi piaceva nei suoi spettacoli questa concretezza che veniva portata dagli attori. Quindi questi due mondi, uno astratto e uno così concreto, così carnale, messi insieme. Questo mi ha condizionato moltissimo.

Con Shakespeare come ti relazioni invece con il testo?

I primi Shakespeare, a parte degli adattamenti, necessari al numero degli attori, li affrontavo nella loro totalità.

Un altro tuo discorso forte è quello dello smantellamento della scena. Alla fine de Il servitore di due padroni viene proprio sbaraccata la scenografia, ma penso anche ai cavi esibiti in Un tram che si chiama desiderio. Che percorso ti porta a queste soluzioni?

La questione dell’invasione del palcoscenico è un tema a me molto caro, molto importante e difficilissimo. Secondo me l’invasione del palcoscenico è drammaturgia pura, è proprio battuta, non è solo estetica. E la difficoltà dell’invasione, secondo me, è grande in un contesto storico come il nostro. Poi io vivo questa dicotomia tra la Germania e l’Italia. Affronto due situazioni culturali completamente diverse sull’invasione dello spazio scenico e anche sull’invasione drammaturgica di un testo. Indubbiamente aborro l’idea della finzione, della menzogna. Penso sempre a una battuta di Heiner Müller che diceva «Non è possibile spendere tutti questi soldi per poi vedere in scena una finta stanza, che so che è una finta stanza, che le pareti sono finte». Oggi questo non ha più senso, è meglio dichiarare subito che è una finta stanza. Nel caso del Tram mi appoggio a questa battuta di Tennessee Williams che diceva «Io odio il realismo». Incredibile che lui dica una battuta del genere e poi si è arrivati a metterlo in scena con pizzetti e merletti. E così anche ne Il servitore di due padroni. Indubbiamente dall’epoca di Goldoni ha subito tante riletture. Poi siamo arrivati all’estremizzazione del Novecento che era quella di portare a un realismo come il Maestro Castri ha fatto. Questi interni assolutamente credibili. Quello secondo me è stato l’apice. Oltre quello non si può andare, se no rifai e ricicli in continuazione. Quindi per quanto riguarda me, era importante dichiarare questo. Dopo Strehler, dopo Castri cosa vuoi fare in quella direzione? Il problema poi è che il pubblico vuole vedere quello perché non gli è stata data la possibilità di tradurre nuovi linguaggi, non è colpa degli spettatori. Alla fine mi piace molto dichiarare la macchina, l’attrezzo che c’è dietro, che produce finzione.

Nel Tram c’erano anche delle luci fortissime, abbaglianti, rivolte al pubblico. Come mai?

Il discorso sulle luci l’ho iniziato un po’ di tempo fa e sicuramente nel Tram ha raggiunto un apice. Mi piaceva moltissimo mettere gli spettatori in una condizione non privata, in modo che quindi fossero chiamati in causa. E poi c’è il fatto che Blanche stessa dica «Qui c’è troppa luce». Per me era importante non creare una finta protezione, ma esporre sia lei che lo spettatore a una luce accecante, mettere alla mercé il privato della protagonista.

A proposito della menzogna, hai in cantiere una trilogia della menzogna.

Sì, una cosa che cerco di fare è lavorare a temi. In questo modo mi posso permettere anche di fare degli spettacoli non riusciti perché stanno all’interno di un percorso. Il lavoro sulla menzogna è finito in Russia adesso. Abbiamo lavorato in due direzioni, sulla menzogna del Novecento in relazione al Nazionalsocialismo, mettendo in scena A.H. come monologo e poi il romanzo Le benevole di Jonathan Littell per la Schauspielhaus di Vienna. Poi ovviamente mi interessava la menzogna teatrale e quindi lo Zanni, il servitore e il portatore di menzogna per fame, e poi quella letteraria di Peer Gynt (dall’omonimo testo di Ibsen) che è considerato il personaggio mentitore per eccellenza, anche se questo è un punto di vista: magari lui dice delle verità in modo diverso, bisogna sapere tradurlo e forse il pubblico non è più in grado di tradurlo.

C’è una certa ambivalenza nel tuo discorso sulla menzogna. Se da un lato, in A.H., a esempio,  la collochi all’origine del totalitarismo e del male, allo stesso tempo per denunciare questo necessiti dell’artificiosità del teatro, che tu stesso hai definito «il luogo assoluto della menzogna». Come riesci a trovare un punto d’equilibrio tra posizioni, che dette così, sembrerebbero inconciliabili?

C’è una cosa che accomuna queste due concezioni della menzogna ed è rendere la verità talmente artificiale da far sembrare verità la menzogna stessa. In tutti e due i campi. Nel campo teatrale mi fa sorridere quando dicono agli attori «Ah, è proprio vero»: essere vero a teatro è comunque un meccanismo chimico, comunque menzogna, comunque artificio. La menzogna del Nazionalsocialismo era la capacità di tramutare i bisogni del popolo in grandi sogni, quindi andare a inficiare la mente del popolo, i suoi bisogni per farli diventare degli ideali a cui arrivare. E anche qui si parte da una verità che viene trasformata in mostruoso, accecante punto d’arrivo. Però gioca sempre sulla verità come necessità primaria.

È giusto dire che tu poni lo spettatore in una condizione performativa? Però in passivo: l’impressione è che, sia in A.H. che ne Il servitore di due padroni, tu lo sottoponga a estenuanti prove di pazienza, con gesti affidati all’attore e allungati fino allo spasmo. Il rapporto con il pubblico comunque raramente ti ha portato a forme di interazione diretta e fisica. Come mai?

Qualcosa ho fatto nel Don Chisciotte dove qualcuno del pubblico veniva chiamato sul palco, e qualcosa succederà nei prossimi progetti. Più che coinvolgere il pubblico mi piace pensare che il pubblico non è spettatore, ma attore. E questo tipo di possibilità va a inficiare moltissimo anche le repliche, nel senso che esponendo il pubblico in questo modo, si condiziona molto la serata e si condiziona anche l’attore, il suo stare in scena, perché lo sente. Non sono nascosti dal buio, non sono nascosti da una quarta parete. Ormai parlare di quarta parete nel Duemila mi sembra ridicolo. Non sono nascosti: il pubblico è lì e partecipa al rito. È più vicino alla tragedia greca, secondo me, come concetto. Questo è necessario oggi, non posso far finta che non ci sia. Per buona parte del Novecento abbiamo lavorato facendo finta che il pubblico non ci sia. È assurdo. Il pubblico è a teatro, non è al cinema. Questo tentativo di distanza va, secondo me, in tutti i modi, destrutturato.

La tua sembra quasi un’interrogazione artaudiana, quindi crudele, sulla natura della teatralità.

Di Artaud, nel mio teatro, c’è qualcosa che mi avvicina sull’idea di malattia. Credo che, non voglio dire essere malati, ma attraversare anche la malattia è un qualcosa di estremamente curativo e il teatro lo può essere. Io nasco come infermiere, quindi il concetto di malattia mi è molto caro. Anche perché ti mette nella condizione di dimenticarti di te e di essere pronto per l’altro. Sempre. È uno stato, purtroppo.

Un tuo punto di riferimento al tuo lavoro sembra proprio quello di Heiner Müller, anche solo per tutte le possibilità metateatrali, per la riscrittura dei classici.

Lo cito in tutti i miei spettacoli anche in modo abbastanza sputtanante. Però è incredibile come noi italiani non ci siamo accorti che c’è stato un uomo che a un certo punto, storicamente, ha cambiato totalmente la scrittura teatrale. E continuiamo a far finta che questo non sia successo. Heiner Müller è andato ancora più in là di Beckett, ha rotto proprio i tempi, i ritmi di un teatro borghese, di una scrittura borghese per arrivare a raccontare dei grandissimi squarci, delle grandissime ferite che non hanno niente a che fare con i personaggi. Non so se metterò mai in scena direttamente un testo di Heiner Müller, però mi piace tenerlo continuamente presente.

Heiner Müller diceva: «Oggi l'autore non può bruciare soltanto i suoi personaggi: deve mettersi egli stesso sul rogo». Per poi portare come esempio quello di Artaud, mettendo però allo stesso tempo in guardia che questa radicalità «è forse la ragione per cui non è riuscito a realizzare il suo teatro». Qual è la tua posizione in merito?

Siamo nel campo del fondamentalismo, nel senso che Artaud è indubbiamente un fondamentalista e di conseguenza per raggiungere il proprio ideale deve distruggersi, si deve autodistruggere. La stessa cosa l’ha fatta Mishima, in un modo estremo, in un’altra direzione politica. Secondo me il fondamentalismo è giusto per quanto riguarda il teatro, ma va direzionato. Non deve portare a un’autodistruzione, deve portare a un’esposizione, che magari poi ti distrugge. Ma l’esposizione serve a continuare a dar voce al tuo pensiero. Se ti distruggi poi il tuo pensiero viene idealizzato. E l’idealizzazione di un pensiero è pericolosa secondo me. Nel caso di Artaud forse c’è stata un’idealizzazione del suo pensiero dopo, da parte di alcuni artisti che ovviamente non hanno provato e non proveranno mai quello che ha provato lui. Quindi stiamo parlando di un’altra cosa giustamente. Questo lo fa anche Heiner Müller però. Lo fa con lucidità. Anche qui stiamo parlando di autodistruzione perché il prezzo che ha pagato, sul piano politico e fisico, è stato altissimo. Però ha accettato di pagare i prezzi della sua esposizione, non si è fatto uccidere da questa. Ha combattuto. Io preferisco Heiner Müller piuttosto che Artaud nonostante Artaud sia stato, e sia, necessario. Per me è stato ed è necessario anche Mishima. Sono stati degli uomini che hanno rischiato la propria vita. Mi capita spesso di confrontarmi con questi personaggi, penso per esempio alla Cena delle ceneri di Giordano Bruno che ho messo in scena qualche anno fa. Anche lì siamo davanti a un uomo-autore che si è esposto tantissimo. Ma non si è autodistrutto, ha combattuto fino in fondo per le sue idee. Poi Artaud entra in un campo di malattia mentale vista come forza creativa, letteraria. Perdita di lucidità per troppa lucidità: questo è il campo di Artaud ed è questo che è più affascinante.


Teatrografia

A. H. r. Antonio Latella 2013, Centrale Fies, Drodesera.

Amleto di William Shakespeare r. Antonio Latella 2001, Elsinor.

Cena delle ceneri di Giordano Bruno r. Antonio Latella 2004, Teatro Stabile dell'Umbria, Nuovo Teatro Nuovo.

Die Wohlgesinnten r. Antonio Latella 2013, Schauspielhaus Wien. [tratto da Le benevole di Jonathan Littell (2006)]

Don Chisciotte r. Antonio Latella 2009  Nuovo Teatro Nuovo. [tratto da Don Chisciotte della Mancia (El ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha) di Miguel de Cervantes Saavedra

1605/1615]

Francamente me ne infischio r. Antonio Latella 2011, ERT / VIE Festival. [5 movimenti liberamente ispirati al romanzo Via col vento (Gone with the Wind) di Margaret Mitchell (1936)]

Il servitore di due padroni di Carlo Goldoni (1745) r. Antonio Latella 2013, Teatro Bonci, Cesena.

La trilogia della villeggiatura di Carlo Goldoni (1761) r. Antonio Latella 2008, Schauspiel Köln.

Peer Gynt di Henrik Ibsen (1867), rappresentato per la prima volta ad Oslo, 24 febbraio 1876.

Romeo e Giulietta (The Most Excellent and Lamentable Tragedy of Romeo and Juliet) di William Shakespeare (1594-1596) r. Antonio Latella 2000, Elsinor.

Un tram che si chiama desiderio (A Streetcar named Desire) di Tennessee Williams (1947) r. Antonio Latella 2012, Emilia Romagna Teatro.