Espressionismo e Neorealismo, un Neorealismo posteriore: lo stridore, l’urto derivanti dallo scontro di placche immaginifiche, figure a contrasto, secche soluzioni cromatiche, secrezioni d’audio che lasciano sul terreno dello scontro (sulla superficie del piano) lamiere taglienti, grondanti di iconoplasma, sagome tranciate di netto, fracasso di ferraglia; e la pietas di un cinema nudo, "povero", rastremato fino all’osso dell’esistere, fino a un’urgente essenzialità del segno; questo pare essere lo statuto proprio di Hokage (Shadow of Fire) di Shinya Tsukamoto, presentato nella sezione «Orizzonti» della Mostra di Venezia appena terminata.

E, ancora una volta, non se ne capisce il motivo: non si capisce perché un tale capolavoro non sia confluito nel concorso principale, in cui campeggiavano visioni insipide come Priscilla. Peraltro, c’è da dire che quando c'è stato, in concorso (nel 2014 con Nobi e poi con Zan nel 2018: film affilati come lame, minacciosi come cani idrofobi, gremiti di corpi e volti deformati dal dolore), il cinema di Tsukamoto non sembra essere stato compreso, se non dagli addetti ai lavori più integralisti, quegli accoliti dell'insonnia che frequentavano le notti di «Fuori orario» nel tempo in cui campeggiavano sugli schermi convessi dei televisori, film come Tetsuo o Le avventure del ragazzo del palo elettrico o Hiruko the Goblin.

È di già in queste visioni lontane – tra la fine degli anni ottanta e l’inizio dei novanta –, quando Tsukamoto metteva a punto la propria estetica, che si possono trovare le tracce e gli attanti di un film come Hokage: la persistenza del grido, dei chiaroscuri, la nettezza rabbuiata dei contorni e degli sfondi, il clangore metallico, graffiante del suono (è nota la cura con la quale Tsukamoto supervisiona l'audio delle proiezioni a cui è presente, con particolare attenzione ai volumi, alla limpidezza dei toni alti, urlanti, frastornanti) declinati ora in un discorso sulla guerra, sviluppato in tre tempi e di cui Nobi era stato il primo, feroce, urtante atto.

Ma c'è un aspetto nuovo in Hokage: è l'interpolazione neorealista che non nasce in opposizione a questo consolidato espressionismo, ma come attenuazione e coagulazione di quegli eccessi, di quei contrasti, straripamenti espressivi, che a tratti si assestano entro l'inequivocabilità, la classicità delle forme, anche delle forme narrative, tanto più se si pensa al precedente Zan tutto giocato sulle ambiguità morali ed esistenziali (quindi romanzesche) del samurai protagonista. Hokage diviene allora una sorta di Germania anno zero traslata nel Giappone del secondo dopoguerra e filtrata dal diaframma espressivo ruvido, contrastato proprio di Tsukamoto, in cui si muovono queste «ombre di fuoco» (una prostituta, un soldato e un bambino rimasto orfano), figure umane ridotte a ombre, macchie scure semoventi tra le pareti e i vicoli maleodoranti, specie di lazzaretto per i reduci di guerra alla mercé della follia più cupa.

Sono divenute ombre come conseguenza del fuoco marziale (la bomba): umanità di risulta, scorie fumide, defecate dal fuoco e destinate a zone in penombra, zone morte. Si può tentare di delineare un diagramma, uno schema estetico suggerito dalla "semplicità" di questo film: se la prostituta e il soldato sono creature d'espressionismo, creature preda dell'ombra e dell'urlo, stipate entro pareti oppressive (la prima parte del film è tutto ambientato in interni angusti), il bambino è una figura neorealistica che interpreta la "credenza", una qualche fiducia (i bambini ci guardano, Edmund e Bruno Ricci ci guardano). Egli è tratto fuori dall'oscurità, ripreso in una frontalità chiara, apodittica, ed è alle prese, ora che è scoccato l'ultimo colpo di pistola, con il canovaccio spurio, stracciato della sopravvivenza.

*Una prima versione di questo articolo è stata pubblicata sul Manifesto del 15 settembre 2023.

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