Vincenzo Martino

«Forse noi […] siamo solo miliardi di calcoli nel rene di un corpacciuto animale, la sua colica senza fine, i quagli petrosi del suo difficoltoso smisurato emuntorio; e galleggiamo cosi nell’etere e piscio che gli si impantana per tutti i meati e lo fa gloriosamente ululare di dolore nel silenzio degli spazi eterni.» (Bufalino 2012, p. 14)


Fin dalla prima immagine è il bianco ad opporsi al nero: il dott. John Thackery giace ammansito dall’oppio, in primo piano i suoi stivaletti bianchi contrastano il tepore caldo di un salone a Chinatown mentre una venere itterica e svestita gli si avvicina per sussurrargli che sono le sette e trenta. La carrozza di Tack attraversa rumorosa i sudici sobborghi della New York di fine Ottocento, tra un cavallo abbandonato per strada alla decomposizione e un rinomato chirurgo che si inietta in un angusto capillare del suo piede cocaina di prima mattina.
Placenta previa: è il limite, il confine di demarcazione che i chirurghi cercano di superare. Il dott. J.M. Christiansen vuole vincere le potenze della natura, ma quest’ultima come crudele mentore che vessa i suoi discepoli, sprona i medici a spremere a fondo il proprio ingegno, i propri mezzi, fisici e psicologici; gli impone un impari duello contro i mulini a vento (come fossero degli aspiranti Chisciotte della Mancia).

Soderbergh riassume in tre minuti tutta l’anima di The Knick: un sublime viaggio in un passato che ricorda troppo il presente. Attualizza il cosiddetto “period medical drama” attraverso la musica distorta e fuori posto del sodale Cliff Martinez: la sua elettronica incalzante palpita come cuore aritmico, fibrillante, come in preda ad un massaggio cardiaco mal riuscito. Fuori sincrono, ogni singolo battito risuona come tumulto dei personaggi che sembrano rivendicare l’anacronismo di cui sono portatori; e dunque nel tentativo di apparire più veri svelano la loro reale falsità, il loro essere deformi maschere di un tempo che diviene inevitabilmente indefinito. E la placenta previa si pone a paradigma della loro condizione (umana?): cosi come un palloncino che gonfia l’antro uterino dall’interno serve ad arrestare una fatale emorragia, i personaggi necessitano di un qualcosa che li riempia per non essere cancellati, distrutti, dissanguati dunque. Il palloncino di Tack è la cocaina, essenza che lo riempie donandogli linfa vitale.

E difatti The Knick è indissolubilmente legato alla cocaina, vera e propria coprotagonista, la quale concorre attivamente a rendere plausibile un improbabile equilibrio tra genio e sregolatezza («benché sia pazzia, c’è del metodo in essa»): è sempre con Tack, in sala operatoria così come in camera da letto, fruga insistentemente nel suo essere, lo conosce perfettamente e sa come disporre pensieri, ricordi (e visioni), desideri per voltarli a proprio favore, spingendo sempre più in basso la sensazione di impotenza dell’uomo dinanzi agli eventi e rendendolo quasi divino, come in una condizione di continuo delirio di onnipotenza (che nelle sue realizzazioni più estreme indurrà Tack a sacrificare una paziente). John si lega all’infermiera Elkins poiché questa è l’unica ad aver guardato il volto della sua malattia, divenendo come «la meridiana che disegna sul soffitto delle sue insonnie le pantomime del desiderio» (cfr. Bufalino 2012, p. 9).

E dunque The Knick è un film – poiché si avvicina più ad un film che ad una serie TV; a mancare è l’effetto di stacco sospeso a fine puntata, oltre ad un’analisi più estesa di ogni personaggio, il che lo rende leggibile come una singola pellicola di otto ore circa, molto simile ad altre operazioni curate da un singolo regista (come anche True Detective di Fukanaga), quasi una tendenza alla “filmizzazione” del prodotto seriale, un astuto stratagemma per dilungare i tempi senza comprometterne la fruizione – un film, dicevamo, sulla malattia. Il Knickerbocker Hospital brulica di corpi consunti, macilenti; corpi immobili, che hanno smarrito il moto oltrepassando le porte del reparto di chirurgia. Il bianco dei camici medici riflette il pallore dei pazienti che subiscono inermi l’insensibilità con la quale i dottori sciorinano diagnosi catastrofiche, dolci sentenze guardando in volto il malato, trasudando cinismo e distanza da quella che per loro è solo la prossima sacca di carne da tagliuzzare. E al paziente non resta che udire il proprio necrologio in linguaggio codificato.
Ma gli ospiti ricoverati al Knick sono anche l’altro volto di medici e personale. Tra tossicodipendenti, indebitati, relazioni clandestine multirazziali, tra suore che praticano l’aborto nel tempo libero e autisti dell’ambulanza che derubano la concorrenza di cadaveri/malati freschi, la malattia è trattata su tutti i livelli e si manifesta come sintomo di un disagio identitario. Come se i personaggi in scena si rendessero conto di essere fuori posto, come fossero inconsciamente coscienti di partecipare ad una farsa.

Soderbergh riesce a ridisegnare un’epoca, una stagione viva, pregna di rivoluzioni tecnologiche, dalle scoperte mediche ad Edison: l’apparecchio per i raggi X è realmente la frontiera, la possibilità di guardare a fondo nell’essere umano, di scrutarne l’anima. Tutto il suolo attorno al Knick è però marcio; il degrado prorompe, il tifo si insinua anche nelle case borghesi, il Contagion si sviluppa per stratificazioni sociali poiché esistono malattie che sono esclusiva dei poveri. Razzismo, corruzione, dipendenza da droghe, prostituzione, umiliazioni confluiscono nel settimo episodio e la follia che da tempo pulsa attorno all’ospedale esplode in un’isteria di massa e confluisce al Knick, epicentro promotore. Ma la distruzione che ne consegue non pare sufficiente a compromettere l’integrità della struttura, che al pari di un tessuto umano si ricostituisce rapidamente. Asfittici corridoi dipinti di un legno morto collidono armoniosamente con reparti di un bianco opalescente, ove il sangue sembra essere gradita controparte, come un mare che si specchia nel cielo al tramonto. La sala operatoria brilla di un colore che ricorda il nulla, quel tipo di vuoto che si potrebbe contrapporre allo spazio, ed è composta da uno zona circolare dove è posizionato il paziente circondato dai chirurghi, mentre su un livello via via più alto si distendono diversi semicerchi in mogano (dove si posizionano i medici che osservano); il tutto ad una visione dantesca ricorderebbe un cono infernale dove il chirurgo che opera è una singolare ibridazione tra il diavolo e il (ri)creatore.

Il Knickerbocker Hospital realizzato da Soderbergh (anche direttore della fotografia sotto pseudonimo) è un edificio affascinante e spaventoso, a metà tra gli angoscianti corridoi tendenti al giallo del Kingdom di Von Trier (anch’esso in una decina di episodi per la TV) e le elaborate geometrie dell’Overlook Hotel di Kubrick. E difatti a livello registico Soderbergh alterna sapientemente una camera a mano ondeggiante, che destabilizza lo sguardo rendendolo partecipe della follia dei personaggi, a un posizionamento di scena geometricamente impeccabile. Un esempio è presente ancora nell’episodio sette: una dama nera aspetta il suo uomo guardando alternatamente da destra a sinistra; è posizionata nel mezzo esatto tra due coppie di cemento che, rifinite a muro di seconda mano, disegnano sullo sfondo una sorta di scalinata; quella di destra risale verso destra, quella di sinistra appunto verso sinistra; la camera è posizionata nello sguardo del poliziotto Finney che osserva la donna dall’altro lato della strada. Vi è un rigore preciso nell’immagine cosi come nel colore che si oppone tra il nero della pelle della donna e il bianco del muro/ambiente intorno ad essa, un contrasto che attraversa tutto The Knick; e lo stivaletto bianco di Tack si fa sempre più scuro, finanche si completa la sua involuzione, e se il film si apre sui piedi del chirurgo, sull’accesso, dunque, della sua “medicina”, l’ultima immagine non può essere che quella del suo volto, quasi a confermare il completamento di un processo di risalita della cocaina che per Tack equivale a raschiare il fondo di una claustrofobica catabasi.


Bibliografia

Bufalino G. (2012): Diceria Dell’untore, Bompiani, Milano.


Filmografia

Contagion (Steven Soderbergh 2011)

Shining (The Shining) (Stanley Kubrick 1980)


Serie TV

The Kingdom (Riget) (Lars Von Trier – Morten Arnfred – Niels Vørsel 1994)

True Detective (Cary Fukanaga – Nic Pizzolatto 2014-in corso)